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RISPOSTA: “Tra la terra e il cielo. Religione e politica nell’Antica Grecia” di Anna Jellamo ci porta in un viaggio affascinante attraverso il pensiero e i sentimenti degli antichi Greci, esplorando come la loro visione del mondo, intrisa di divinità e destino, abbia plasmato le loro leggi, la loro etica e persino le loro emozioni più profonde. Il libro ci immerge nel cuore della Grecia arcaica e classica, dai tempi di Omero e Esiodo fino alla sofisticata filosofia di Socrate, Platone e degli Stoici, per poi arrivare alle sfumature della tragedia attica. Scopriremo come concetti come themistes, l’ordine divino delle leggi, e dikē, la giustizia, fossero intrecciati con il destino (moira) e come la trasgressione, l’arroganza (hybris), venisse punita. Attraverso l’analisi di sentimenti come il pudore (aidōs), la contesa (eris) e il pianto, e il mutare del concetto di felicità (eudaimonia), l’autrice ci mostra un quadro vivido di una società in continua evoluzione. La sofistica, con la sua enfasi sulla parola (logos) e sulla persuasione (peithō), segna un punto di svolta, spostando l’attenzione sulla ragione umana e sulla virtù (aretē) insegnabile. Infine, la tragedia greca, con i suoi eroi tormentati dal peso del destino e dalla colpa, e le complesse dinamiche di vendetta e ospitalità, ci rivela le sfide etiche e giuridiche di un’epoca che ancora oggi risuona nella nostra cultura.Riassunto Breve
Nel pensiero greco antico l’ordine del mondo e della società deriva dagli dèi, che stabiliscono le regole (*themistes*) e la giustizia (*dikē*), legata al destino (*moira*) che assegna a ognuno la sua parte. La trasgressione di questo ordine, come l’arroganza (*hybris*) o l’avidità (*koros*), porta alla punizione divina. Un buon ordine civile (*eunomia*) si basa inizialmente sulla giustizia divina, ma poi, con figure come Solone, si lega a leggi scritte che cercano un equilibrio sociale. Col tempo, la fiducia nella giustizia divina diminuisce, osservando l’ingiustizia nel mondo. Cresce l’importanza della ragione umana (*gnōme*) come guida. Filosofi come Senofane criticano l’idea di dèi antropomorfi e spostano la fonte della virtù e del buon governo dalla sfera divina alla sapienza umana (*sophia*), acquisita con la ricerca. La *sophia* diventa la base dell’*eunomia*. I sentimenti come il pudore (*aidōs*, *nemesis*) e la contesa (*eris*, *neikos*) sono fondamentali nell’esperienza umana, con la contesa che può essere distruttiva o stimolare il lavoro. Il pianto è una reazione comune al dolore e alla perdita, sia per gli uomini che per gli dèi. La felicità (*eudaimonia*) cambia significato: da ricchezza e fama (*olbos*, *makariotēs*) o beatitudine in Omero ed Esiodo, diventa uno stato interiore legato alla virtù e alla condizione dell’anima (Socrate, Platone). Democrito la vede come tranquillità (*euthymia*), Aristotele come attività secondo virtù, Epicuro come assenza di dolore e turbamento (*ataraxia*), gli Stoici come armonia con la natura e ragione. In tempi moderni, la felicità diventa un diritto individuale e una ricerca soggettiva, con lo Stato che deve garantire la libertà di cercarla, non imporla. La sofistica segna un passaggio cruciale, spostando l’attenzione dalla verità oggettiva all’apparenza soggettiva. La realtà è vista attraverso la percezione individuale, portando all’idea di molteplici prospettive. Le leggi e la giustizia non derivano più da principi divini o naturali, ma sono viste come convenzioni umane, a volte legate all’utile. Si distingue tra giustizia per legge e giustizia per natura. La parola (*logos*) diventa uno strumento potente di persuasione (*peithō*), capace di influenzare le azioni. La virtù (*aretē*) non è innata ma insegnabile, e la capacità di partecipare alla vita politica e alla giustizia è vista come propria di ogni cittadino. La punizione ha una funzione educativa. Si distingue tra *dikē* (conformità esterna) e *dikaiosynē* (qualità interiore). La tragedia greca mette in scena un disegno divino e il peso del destino, spesso legato all’ereditarietà della colpa e alla condanna della *hybris*. I personaggi tragici non sono mai del tutto colpevoli o innocenti, agendo spesso sotto l’influenza divina o delle circostanze, ma la responsabilità umana aumenta, specialmente in Euripide. Concetti legali come l’azione involontaria (*akōn*), l’errore (*hamartia*) e il perdono (*aphiēmi*) compaiono nelle trame. L’evoluzione delle tragedie riflette i cambiamenti del V secolo, con un crescente razionalismo e un distacco tra uomini e dèi. La vendetta è un tema centrale nella tragedia attica, spesso compiuta da donne, e appare giustificata in risposta a violazioni gravi come omicidi o tradimenti dell’ospitalità, riflettendo il contesto legale e sociale di Atene.Riassunto Lungo
1. L’ordine divino e l’intelletto umano
In Grecia, tanto tempo fa, si pensava che gli dèi, pur assomigliando agli esseri umani, fossero eterni e capaci di influenzare le loro vite. La religione era il fondamento delle regole della società, della morale e delle leggi, chiamate themistes. Si credeva che queste regole fossero state date da Zeus ai re, stabilendo così l’ordine civile e la base per giudicare. La giustizia voluta dagli dèi, chiamata dikē, era legata al destino, moira, che stabiliva la parte o il posto di ciascuno nella vita e nella comunità.La trasgressione e la giustizia
Rompere questo ordine, specialmente con l’arroganza (hybris) o l’avidità (koros), significava superare i limiti stabiliti e attirare la punizione divina. All’inizio, l’arroganza riguardava soprattutto i rapporti tra persone dello stesso rango, ma poi divenne un crimine contro tutta la comunità, capace di distruggere l’equilibrio della città. Per contrastare questo, Solone propose l’idea di eunomia, un buon ordine che si basa sulla giustizia e cerca un equilibrio tra i diversi gruppi sociali, senza puntare all’uguaglianza completa. Egli combatté l’arroganza anche introducendo leggi scritte.Dalla giustizia divina alla ragione umana
Con il passare del tempo, la fiducia che la giustizia divina fosse sempre certa iniziò a diminuire. Pensatori come Teognide misero in dubbio che gli dèi ricompensassero i buoni e punissero i cattivi, notando le ingiustizie nel mondo. Questa incertezza portò a dare sempre più importanza alla ragione umana, chiamata gnōme, vista come la guida migliore per comportarsi bene. Filosofi come Senofane criticarono l’idea di rappresentare gli dèi con forme e sentimenti umani, proponendo invece un dio unico, lontano e difficile da conoscere. Senofane sostenne che la virtù e la capacità di governare bene non vengono dagli dèi, ma dalla sophia, cioè la sapienza che le persone ottengono studiando e facendo esperienza. Questa sapienza umana, la sophia, divenne così la base per stabilire l’eunomia, indicando cosa fosse giusto e utile per la vita nella città.Se la sophia umana, acquisita tramite studio ed esperienza, è diventata la base per l’eunomia, come si concilia questo con l’idea che la giustizia divina fosse inizialmente il fondamento delle leggi, e quale ruolo gioca la moira in un sistema basato sulla ragione e non sul destino imposto dagli dèi?
Il capitolo presenta una transizione dall’ordine divino alla ragione umana come fondamento della società, ma la coerenza logica di questo passaggio, soprattutto in relazione al concetto di moira (destino), necessita di maggiore approfondimento. La potenziale contraddizione tra un destino prestabilito e una giustizia basata sulla sapienza umana crea una lacuna argomentativa. Per esplorare questa complessità, sarebbe utile approfondire le opere di filosofi presocratici che hanno dibattuto sulla natura del cosmo e della giustizia, come ad esempio Eraclito, che indagò il concetto di logos come principio ordinatore universale, e Parmenide, che esplorò la natura dell’essere e della verità. Inoltre, lo studio della tragedia greca, in particolare le opere di Eschilo, potrebbe offrire ulteriori spunti sulla percezione del rapporto tra volontà divina, destino umano e responsabilità individuale.2. Sentimenti nell’Antica Grecia: Pudore, Contesa e Pianto
Il pudore, chiamato dagli antichi greci con nomi come aidōs e nemesis, è un sentimento molto importante che troviamo spesso nei loro scritti più antichi e classici. Questo sentimento si può manifestare in diversi modi, come vergogna per qualcosa che si è fatto, rispetto verso gli altri o un forte senso dell’onore personale. Nei poemi di Omero, per esempio, i personaggi provano vergogna sia per le loro azioni sbagliate sia quando dimostrano mancanza di coraggio. La vergogna è legata strettamente al valore che una persona ha agli occhi della società. Anche il poeta Esiodo parla di pudore, distinguendo una forma positiva, che spinge a fare bene, da una negativa, che invece è dannosa.Contesa: Scontro e Competizione La contesa si presenta in due forme principali: eris e neikos. Eris rappresenta la discordia violenta e smisurata, legata alla guerra e alla distruzione. Neikos indica una contesa più misurata, spesso riferita a liti legali o dibattiti. Esiodo descrive una buona eris che stimola la competizione e il lavoro, contrapposta a una cattiva eris distruttiva. L’uso di questi termini distingue la natura del conflitto.Il Pianto e la Pietà: Espressioni del Dolore Il pianto e la pietà sono espressioni comuni di dolore e sofferenza. Nella poesia omerica, personaggi come Achille, Priamo ed Ecuba piangono per la perdita e la disperazione. Anche gli dei, come Zeus, possono provare pietà per i mortali. Poeti come Archiloco, Teognide e Solone menzionano il pianto in relazione alle avversità della vita. Nella tragedia, il pianto è una reazione frequente e intensa al lutto, all’ingiustizia e al destino avverso. Sebbene la sopportazione del dolore senza pianto sia talvolta vista come forza, il pianto è una parte essenziale dell’esperienza umana del dolore.Ma è davvero possibile distinguere nettamente tra un pudore “positivo” e uno “negativo”, o tra una contesa “buona” e una “cattiva”, senza cadere in una visione anacronistica o eccessivamente semplificata delle complesse dinamiche emotive e sociali dell’antica Grecia?
Il capitolo presenta una categorizzazione dei sentimenti greci come il pudore e la contesa, distinguendoli in forme positive e negative, e descrive il pianto come espressione del dolore. Tuttavia, questa suddivisione potrebbe non cogliere appieno la sfumatura e la contestualizzazione di tali concetti nel pensiero antico. Per una comprensione più approfondita, sarebbe utile esplorare le opere di filosofi come Platone, che analizza il concetto di sophrosyne (temperanza e autocontrollo) in relazione al pudore, e Aristotele, che discute la natura della contesa e della virtù nell’Etica Nicomachea. Inoltre, l’analisi del pianto potrebbe beneficiare di uno studio comparativo con altre culture antiche o di un approfondimento sulla sua rappresentazione nelle diverse forme di poesia e teatro greco, per comprendere meglio la sua funzione sociale ed emotiva.3. Il volto mutevole della felicità
Nella tragedia greca, il dolore e il lamento sono molto presenti e visibili. Personaggi come Ecuba o Andromaca esprimono apertamente il loro pianto per la perdita e la sofferenza causata dalla guerra. Il pianto e il gemito sono modi comuni per mostrare il dolore di fronte alle grandi sventure che colpiscono le persone.Le prime idee nella Grecia antica
Nell’antica Grecia, la felicità non era vista come un diritto per tutti. In Omero, la felicità, chiamata “olbos”, spesso significava avere ricchezza e fama, oppure trovarsi in uno stato di grande beatitudine, detta “makariotēs”. Sebbene la parola nostalgia non esistesse, si parlava del forte desiderio di tornare a casa, il “nostos”, e dei dolori, gli “algea”, che si dovevano sopportare. Esiodo, invece, faceva una distinzione tra una contesa negativa, che porta solo danno, e una buona, che spinge le persone a lavorare e migliorare. Per lui, la giustizia era fondamentale, e chi agiva in modo ingiusto veniva punito.La felicità diventa questione dell’anima e della virtù
Con l’arrivo di filosofi come Socrate e Platone, l’idea di felicità, che chiamavano “eudaimonia”, iniziò a cambiare profondamente. Non dipendeva più solo da fattori esterni come ricchezza o fortuna, ma si legava strettamente alla virtù e a una buona condizione interiore dell’anima. Anche Democrito vedeva la felicità come uno stato che nasce da dentro, una tranquillità dell’animo chiamata “euthymia”, che non dipendeva dalla ricchezza materiale.Diverse visioni filosofiche
Aristotele considerava la felicità il fine ultimo a cui ogni essere umano tende, qualcosa che si può raggiungere solo attraverso l’attività che segue la virtù. Epicuro identificava la felicità con il piacere, ma intendeva un piacere particolare: l’assenza di dolore nel corpo e l’assenza di turbamento nell’anima, uno stato che definiva “ataraxia”. Per Epicuro, la saggezza era la virtù più importante per raggiungere questa condizione. Gli Stoici, come Zenone e Seneca, vedevano la felicità nell’essere in armonia con la natura e nel vivere secondo ragione, perché è la ragione che porta alla virtù e, di conseguenza, a una profonda tranquillità interiore.La felicità come diritto individuale nell’era moderna
Nei tempi moderni, il concetto di felicità subisce un’ulteriore grande trasformazione, diventando sempre più un diritto che appartiene a ogni singolo individuo. Questa nuova visione segna un distacco dalle idee del passato, dove la felicità era legata al destino, alla virtù o a specifiche condizioni sociali.La ricerca soggettiva e il ruolo dello Stato
Hobbes non credeva nell’esistenza di un bene ultimo universale; per lui, la felicità era la continua ricerca di soddisfare i propri desideri. Ognuno definisce “bene” ciò che gli piace in quel momento, e gli uomini sono visti come naturalmente portati alla competizione. Locke legava anche lui la felicità al piacere, ma la considerava un desiderio costante che spinge la volontà ad agire. Hume pensava che la morale non derivasse dalla ragione, ma dalle passioni e dai sentimenti umani.La massima felicità per il maggior numero
Bentham identificò chiaramente felicità e piacere, sostenendo che il compito principale del governo fosse quello di cercare di ottenere la massima felicità possibile per il maggior numero di persone. Questa idea mise la felicità al centro dell’azione politica e sociale.Libertà e volontà buona
Kant criticò l’idea di Bentham, affermando che la felicità è qualcosa di troppo personale e soggettivo per poter diventare una legge morale valida per tutti. Per Kant, il bene supremo non è la felicità, ma la volontà buona, cioè l’agire secondo il dovere dettato dalla ragione. Secondo il suo pensiero, lo Stato non deve cercare di rendere felici i cittadini, ma piuttosto garantire a ognuno la libertà di cercare la propria felicità come meglio crede.Garantire le condizioni per la ricerca della felicità
Anche Mill, pur partendo dalle idee utilitaristiche di Bentham, diede grande valore alla crescita personale e alla libertà individuale, considerandole interessi superiori rispetto alla semplice ricerca del piacere. Sia Kant che Mill arrivarono a una conclusione simile riguardo al ruolo dello Stato: entrambi concordavano sul fatto che lo Stato non dovesse intromettersi nella ricerca individuale della felicità, ma dovesse invece creare e garantire le condizioni necessarie affinché ogni persona potesse cercare la propria strada verso la felicità in modo libero. Il diritto, in questa visione, è legato alla possibilità di usare la forza (coercizione) per far rispettare le regole, e non ha nulla a che fare con l’obbligo di rendere felici gli altri.Se il destino divino è così preponderante nella tragedia greca, come si concilia la crescente enfasi sulla responsabilità umana individuale, specialmente in Euripide, senza cadere in una contraddizione logica o in una reinterpretazione forzata del concetto di “volontà divina”?
Il capitolo suggerisce un’evoluzione verso la responsabilità umana, ma non chiarisce adeguatamente il meccanismo attraverso cui questa si afferma a fronte di un destino predeterminato. Per comprendere meglio questa apparente dicotomia, sarebbe utile approfondire gli studi sulla filosofia morale greca, in particolare le opere di Platone e Aristotele, che esplorano il concetto di virtù e libero arbitrio. Inoltre, un’analisi comparativa delle diverse interpretazioni del mito e delle divinità nelle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, magari focalizzandosi su autori come Vernant o Detienne, potrebbe illuminare le sfumature di questo passaggio verso una maggiore autonomia umana.6. Il Prezzo del Tradimento e dell’Ospitalità
La vendetta è un tema centrale che attraversa la tragedia attica, apparendo spesso nelle opere di autori come Eschilo, Sofocle ed Euripide. Molte figure principali che cercano vendetta sono donne, tra cui spiccano nomi come Clitemestra, Elettra, Ecuba e Medea, anche se non mancano personaggi maschili vendicatori come Oreste e Menelao. Questa ricerca di giustizia personale è spesso presentata come una risposta comprensibile a gravi torti subiti.Esempi di Vendetta Femminile
Elettra desidera ardentemente un vendicatore per suo padre Agamennone, ucciso dalla madre Clitemestra e da Egisto. La sua rabbia profonda nasce dall’omicidio paterno e dall’odio verso la madre che l’ha maltrattata crudelmente dopo l’evento tragico. Oreste esegue questa vendetta, uccidendo prima Clitemestra e poi Egisto nello stesso luogo dove Agamennone era stato assassinato, realizzando così il desiderio di Elettra di giustizia per il padre.Tradimento e Giuramenti Infranti
Medea cerca vendetta contro Giasone, che l’ha tradita e abbandonata dopo che lei lo ha aiutato a ottenere il Vello d’Oro, tradendo la sua famiglia e macchiandosi di omicidi per lui. Il Coro si schiera dalla parte di Medea, condannando Giasone per aver infranto giuramenti sacri, un atto considerato gravissimo. Giasone è descritto come subdolo, specialmente nel suo tentativo di legittimare i figli nati dalle nuove nozze, una questione legata alle leggi ateniesi sulla cittadinanza. Il suo tradimento è la causa scatenante della furia di Medea.La Violazione dell’Ospitalità
Ecuba si vendica di Polimestore, che ha ucciso suo figlio Polidoro. Il figlio le era stato affidato con una grande quantità d’oro per metterlo in salvo, ma Polimestore ha tradito la sua fiducia, violando le sacre leggi dell’ospitalità. Ecuba inganna Polimestore con la promessa di un tesoro nascosto. Una volta che lo ha in suo potere, lo acceca e uccide i suoi figli. Agamennone approva la vendetta di Ecuba, riconoscendo la gravità estrema della violazione dell’ospitalità, un principio fondamentale nella loro società.Diverse Forme di Vendetta
Mentre Medea si vendica uccidendo i propri figli per colpire Giasone nel modo più crudele, Ecuba vendica la morte del figlio uccidendo l’assassino e la sua discendenza. L’atto di Ecuba, per quanto brutale, appare spesso più comprensibile al pubblico rispetto all’infanticidio compiuto da Medea. Queste diverse forme di vendetta illustrano il complesso paesaggio morale presente nelle tragedie. Spesso queste opere presentano conflitti che sembrano irrisolvibili.La Vendetta nel Contesto Ateniese
Il mondo della tragedia attica riflette il contesto politico e legale dell’antica Atene. La vendetta era un elemento riconosciuto all’interno della società ateniese. Nonostante ciò, esistevano leggi volte a regolamentare i crimini e le dispute, nel tentativo di superare i cicli di vendetta personale. Le opere teatrali esplorano la tensione tra la giustizia privata e i sistemi legali che stavano emergendo.È davvero possibile considerare la vendetta come una forma di “giustizia” comprensibile, o non si tratta piuttosto di un perpetuarsi ciclico di violenza che la tragedia attica, pur rappresentandola, non riesce a superare concettualmente?
Il capitolo presenta la vendetta femminile come una risposta “comprensibile” a torti subiti, paragonando la brutalità degli atti di Medea e Ecuba e accennando alla tensione tra giustizia privata e sistemi legali emergenti nell’Atene antica. Tuttavia, manca un’analisi più approfondita sulla reale efficacia o sulla percezione della vendetta come soluzione definitiva, soprattutto considerando che il capitolo stesso ammette che le opere presentano conflitti “irrisolvibili”. Per colmare questa lacuna, sarebbe utile esplorare le implicazioni filosofiche della vendetta, magari confrontando le prospettive di autori come Platone, che criticava la vendetta come un ritorno al caos, con quelle che ne sottolineano la funzione sociale o psicologica, come in alcune interpretazioni di autori che studiano la natura umana e le sue pulsioni. Approfondire il diritto attico e le sue evoluzioni rispetto alla vendetta privata potrebbe fornire un contesto cruciale per comprendere se l’Atene dell’epoca vedesse la vendetta come un passo verso l’ordine o un ostacolo ad esso.Abbiamo riassunto il possibile
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