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Informazioni
“Tra due divise. La Grande Guerra degli italiani d’Austria” di Andrea Michele ci porta dentro una storia pazzesca, quella degli italiani d’Austria durante la Prima Guerra Mondiale. Immagina di vivere nell’Impero Austro-Ungarico, un posto super vario con un sacco di popoli diversi, specialmente in zone come il Trentino e il Litorale con Trieste. Questo libro esplora proprio come questi italiani, che si sentivano legati all’Italia ma vivevano sotto l’Austria, hanno vissuto quel periodo. Vediamo come l’esercito austro-ungarico, nonostante provasse a tenere insieme tutti, guardasse con sospetto gli italiani, soprattutto quando l’Italia è entrata in guerra. Molti di loro sono stati mandati sul fronte orientale, lontano da casa, in mezzo a difficoltà enormi e trattamenti non proprio giusti. Il libro racconta le loro esperienze, le ragioni per cui finivano prigionieri di guerra in Russia, e tutto il casino che è successo dopo per cercare di riportarli a casa. Non è solo una storia di battaglie, ma di identità complicate, di lealtà messe alla prova e di destini individuali travolti dalla Grande Guerra.Riassunto Breve
L’Impero Austro-Ungarico prima della Prima Guerra Mondiale è un insieme di popoli e lingue diverse, risultato di tante conquiste. Il tentativo di rendere tutto uguale, soprattutto con l’uso del tedesco, crea problemi con le persone importanti del posto che non vogliono perdere il loro potere. La lingua diventa un modo per difendere chi si è. Le idee di nazione e libertà arrivate dalla Rivoluzione Francese rendono le cose ancora più difficili. Dopo il 1848, l’Impero deve gestire le richieste delle diverse nazionalità e l’esercito serve a mantenere l’ordine. La sconfitta contro la Prussia nel 1866 e la perdita del Veneto spostano l’attenzione verso i Balcani e mostrano le debolezze interne. L’accordo del 1867 crea l’Austria-Ungheria, dando importanza all’Ungheria, ma non risolve i problemi delle altre minoranze, come gli italiani. Gli italiani, che erano tanti prima, dopo la perdita del Lombardo-Veneto si trovano soprattutto in Trentino e sul Litorale Adriatico. In Trentino, che è agricolo, la questione nazionale si lega alla richiesta di essere separati dal Tirolo tedesco. Sul Litorale, Trieste diventa importante, ma ci sono tensioni con la crescita degli Slavi. La lingua serve a capire chi appartiene a quale nazione, anche grazie ai censimenti. Nazionalisti italiani, sloveni e tedeschi usano la lingua per definire i confini e litigare per cose concrete come le scuole. Nonostante alcuni vogliano unirsi all’Italia, molti italiani nell’Impero cercano piuttosto di mantenere la loro cultura e avere più autonomia, senza per forza voler cambiare stato subito. Diversi gruppi politici hanno idee diverse su come stare nell’Impero e sul legame con l’Italia, mostrando quanto fosse complicato il sentimento nazionale nelle zone di confine. L’esercito austro-ungarico cerca di unire le diverse nazionalità con la leva obbligatoria, ma è considerato debole rispetto ad altri eserciti. Anche se all’inizio gli italiani rispondono alla chiamata, i capi militari non si fidano di loro, considerandoli potenzialmente infidi. Questa diffidenza aumenta con l’inizio della guerra. L’esercito ha problemi perché ci sono tante lingue e gli ufficiali sono soprattutto tedeschi. Le prime sconfitte sul fronte russo vengono attribuite a presunti tradimenti di soldati di nazionalità non gradite. Quando l’Italia entra in guerra nel 1915, gli italiani nell’esercito austriaco sono visti apertamente come traditori. Vengono spostati subito dal fronte italiano a quello orientale, lontani da casa. Vengono messi in gruppi piccoli e misti, perdono la loro identità di reparto e subiscono maltrattamenti. Anche i civili italiani vengono allontanati, deportati e repressi per paura che vogliano unirsi all’Italia. La guerra non unisce l’Impero, ma aumenta le divisioni nazionali e distrugge la fiducia tra l’Impero e gli italiani. Dopo la guerra, l’esercito sconfitto cerca le ragioni della sconfitta. La spiegazione ufficiale è un tradimento interno, una “pugnalata alle spalle” da parte di nazionalità infedeli e disertori. Questa idea riduce le colpe dei militari e accusa le debolezze nazionali. Ma analizzando meglio, si vede che le diserzioni avvengono soprattutto per l’orrore della guerra, per sopravvivere, per tornare a casa e per i maltrattamenti subiti. Molti episodi chiamati diserzione sono in realtà catture di massa sul fronte orientale. I soldati cechi e italiani vengono spesso accusati ingiustamente di diserzione di massa per via di pregiudizi. I nazionalisti italiani e cechi, invece, vedono la diserzione come un atto di patriottismo per creare i nuovi stati. La realtà è che la diserzione per motivi politici è rara. La maggior parte fugge dalla disumanità della guerra. I maltrattamenti nell’esercito aumentano il senso di non appartenenza, ma non sempre portano a volere l’Italia. La difficoltà di capirsi per le diverse lingue e la scarsa preparazione degli ufficiali peggiorano il morale e favoriscono la diserzione. Eppure, ci sono esempi che mostrano come trattare bene i soldati, anche italiani, possa migliorare la voglia di combattere. Il governo italiano decide di riportare a casa via mare i prigionieri italiani dalla Russia, anche se all’inizio è un po’ titubante per mancanza di navi e diffidenza verso chi ha combattuto per il nemico. Si vuole scegliere chi riportare, come fanno i francesi, interrogando i prigionieri per capire se sono veramente italiani. Questa linea prudente del ministro Sonnino è diversa dall’idea del Comando Supremo, che vuole un rimpatrio di massa per avere più vantaggi politici, anche se arrivano persone meno convinte. Si pensa che riportare tutti dalle terre che si vogliono ottenere rafforzi le richieste italiane. Nei campi in Russia si fa molta propaganda per l’Italia tra i prigionieri più convinti, con giornali e simboli, per farli sentire più italiani. Ma rimangono divisioni tra prigionieri di diverse regioni. La missione italiana in Russia seleziona i prigionieri da rimpatriare, escludendo solo chi si dichiara austriaco. Ma è difficile capire i veri sentimenti nazionali. La censura austriaca controlla le lettere dei prigionieri italiani per trovare traditori e informazioni. Le lettere mostrano che le scelte di tornare in Italia o no dipendono spesso da motivi pratici e familiari più che da un forte ideale nazionale. Le autorità austriache vedono la scelta per l’Italia come un tradimento e puniscono i prigionieri e le loro famiglie. La missione Manera del 1920 in Georgia cerca prigionieri in Turkestan, ma ha anche un compito segreto di spionaggio. Fallisce, non ottiene il permesso e riporta pochi uomini prima di essere interrotta. Il fallimento porta a chiedere missioni civili, ma ci sono problemi diplomatici, soldi e il governo non vuole delegare. Mussolini ferma tutto nel 1922, pensando che non valga la spesa. Intanto, arrivano notizie di migliaia di italiani che stanno male in Russia, smentendo le versioni ufficiali e dando speranza ai familiari. La missione Arlanch (1925-1926), voluta dal governo per calmare l’opinione pubblica, dice che non ci sono migliaia di prigionieri trattenuti contro la loro volontà. Arlanch scopre che molti sono morti per la guerra, malattie o la guerra civile. I rimasti, stimati in 55.000 ex prigionieri in Siberia e negli Urali, sono pochissimi italiani, e molti di loro non vogliono tornare per motivi personali, come nuove famiglie o paura del cambiamento. Nonostante questo, alcuni ex prigionieri continuano a tornare in Italia, spinti dalle condizioni di vita peggiorate in Russia, specialmente durante le carestie degli anni ’30. Questi ritorni singoli, spesso in povertà, continuano fino a metà degli anni ’30, raccontando storie di uomini riapparsi dopo tanto tempo, alcuni con nuove famiglie russe, altri soli e provati. Le loro storie mostrano un insieme complicato di vite individuali e decisioni politiche sul rimpatrio, in un mondo cambiato dalla guerra.Riassunto Lungo
1. Mosaico di Popoli e Lingue: Italiani nell’Impero Austro-Ungarico alla Vigilia della Guerra
L’Austria-Ungheria era uno stato molto vario, nato nel corso dei secoli grazie a diverse conquiste di territori. Questo impero comprendeva molte regioni diverse tra loro per cultura, lingua e organizzazione della società e dell’economia. Quando l’imperatore Giuseppe II provò a rendere il governo più centralizzato, imponendo il tedesco come lingua ufficiale, le persone più importanti delle varie regioni si opposero. Avevano paura di perdere il loro potere. Così, la lingua divenne un modo per difendere la propria identità e la propria nazione.Le nuove idee di nazione e libertà
Le idee di nazione e di libertà si diffusero grazie alla Rivoluzione Francese e a Napoleone, rendendo la situazione ancora più difficile per l’impero. Dopo il 1848, l’Austria-Ungheria dovette affrontare le richieste di maggiore autonomia da parte delle diverse nazioni e di un governo che rispettasse di più i diritti dei cittadini. L’esercito divenne il principale strumento per mantenere l’ordine. Nel 1866, l’Austria perse una guerra contro la Prussia e dovette cedere il Veneto. Questo spostò l’attenzione dell’Austria verso i Balcani, diminuendo il suo potere in Europa e mostrando i suoi problemi interni.La nascita della Duplice Monarchia
Nel 1867, si raggiunse un accordo chiamato “Compromesso” che creò la Duplice Monarchia. Questo accordo riconosceva l’Ungheria, ma non risolveva i problemi delle altre minoranze nazionali, compresi gli italiani. A metà dell’Ottocento, gli italiani erano circa 5 milioni e mezzo e vivevano in diverse zone dell’impero, come il Lombardo-Veneto, il Trentino e la costa adriatica. Nonostante fossero un numero significativo, non erano un gruppo uniforme e avevano storie e legami diversi con l’Austria.Gli italiani dopo la perdita del Veneto
Dopo che il Lombardo-Veneto fu perso, gli italiani che rimasero nell’impero erano circa 780.000 e si trovavano soprattutto in Trentino e sulla costa adriatica. In Trentino, un territorio principalmente agricolo, la questione nazionale si legò alla richiesta di essere autonomi dal Tirolo, una regione di lingua tedesca. Nella zona costiera, Trieste divenne la città più importante dal punto di vista economico e demografico. Qui, però, il confronto tra italiani e slavi divenne sempre più acceso con la crescita della popolazione slava.La lingua come strumento di identità nazionale
La lingua divenne un modo per capire a quale nazione ci si sentiva di appartenere. Anche i censimenti austriaci, che chiedevano la lingua parlata, contribuirono a questo processo. I nazionalisti italiani, sloveni e tedeschi usarono la lingua per definire i confini delle loro nazioni e per creare conflitti, sia simbolici che concreti. Un esempio fu la lotta per il controllo delle scuole e degli spazi pubblici. Nonostante alcune persone sognassero di unirsi all’Italia, la maggior parte degli italiani che vivevano in Austria aveva idee più concrete. Volevano soprattutto difendere la propria cultura e ottenere maggiore autonomia, senza pensare subito a cambiare nazione. Liberali, cattolici e socialisti avevano idee diverse su come rapportarsi con l’impero e con l’idea di nazione italiana. Questo dimostra quanto fosse complessa e varia la situazione delle persone che si sentivano italiane nelle regioni di confine.Ma è davvero la lingua l’unico strumento per comprendere l’identità nazionale nell’Impero Austro-Ungarico, o il capitolo trascura altri fattori cruciali?
Il capitolo sembra suggerire che la lingua fosse il fattore determinante per l’identità nazionale e i conflitti nell’Impero Austro-Ungarico. Ma è una visione completa? Per comprendere appieno le complessità dell’identità nazionale, occorre considerare anche fattori economici, strutture sociali e ideologie politiche. Approfondire studi di sociologia, scienza politica e storia economica potrebbe offrire una prospettiva più articolata. Inoltre, consultare autori che hanno trattato la storia del nazionalismo in Europa fornirebbe un contesto più ampio.2. Sotto Due Bandiere: Identità e Conflitto degli Italiani nell’Impero Asburgico
L’esercito austro-ungarico era molto importante per l’Impero, anche se non forte come quelli di altri paesi europei. Cercava di unire persone di diverse nazionalità attraverso il servizio militare obbligatorio. All’inizio, nel 1914, gli italiani che vivevano in Austria si dimostrarono fedeli all’Impero quando furono chiamati alle armi. Nonostante questo, i capi militari austriaci non si fidavano molto di loro, pensando che gli italiani potessero essere infedeli. Questa diffidenza aumentò rapidamente quando scoppiò la guerra. I militari iniziarono a considerare gli italiani come persone inaffidabili e pericolose per la sicurezza dell’Impero.La Diffidenza Crescente verso i Soldati Italiani
L’esercito era formato da persone di tante nazionalità diverse, ma i capi erano soprattutto tedeschi. Questo creava problemi di comunicazione tra gli ufficiali e i soldati che parlavano lingue diverse. Le prime sconfitte nella guerra contro la Russia, in Galizia, dove furono mandati molti soldati italiani, furono attribuite a tradimenti di soldati di nazionalità considerate nemiche. Questo fece aumentare ancora di più i pregiudizi contro gli italiani.Le Conseguenze Drammatiche per gli Italiani
Quando l’Italia entrò in guerra nel 1915, la situazione peggiorò drasticamente. Gli italiani che vivevano in Austria, già visti con sospetto, furono considerati traditori a tutti gli effetti. Furono subito tolti dal fronte italiano e mandati lontano, sul fronte orientale, in modo che non potessero avere contatti con il nemico italiano e lontani dalle loro case. Questa decisione dell’esercito ebbe conseguenze molto gravi. I soldati italiani furono divisi in piccoli gruppi misti, senza più un loro reggimento di riferimento, e subirono discriminazioni e umiliazioni. Allo stesso tempo, le persone comuni di lingua italiana furono evacuate, portate via con la forza e subirono una forte repressione. L’obiettivo era eliminare ogni desiderio di unirsi all’Italia. Tutto questo dimostrò una grande crisi di fiducia e rovinò per sempre il rapporto tra l’Impero e gli italiani che vivevano al suo interno. La guerra, invece di unire l’Impero, aumentò le divisioni tra le nazionalità e distrusse la fedeltà degli italiani verso l’Austria.La narrazione si concentra eccessivamente sulla diffidenza militare, trascurando le complesse dinamiche politiche e sociali che influenzavano l’Impero Austro-Ungarico?
Il capitolo presenta un quadro in cui la diffidenza verso i soldati italiani emerge quasi esclusivamente come reazione alle sconfitte militari e a pregiudizi interni all’esercito. Questa prospettiva, pur valida, rischia di semplificare un contesto storico più articolato. Per una comprensione più completa, sarebbe utile considerare il ruolo delle ideologie nazionaliste e delle politiche imperiali dell’epoca. Approfondire le dinamiche sociali e politiche dell’Impero Austro-Ungarico, studiando autori che si sono occupati di storia dell’Impero e delle sue minoranze nazionali, potrebbe offrire una visione più sfaccettata della vicenda.3. L’Esercito Multilingue e la Fragilità della Lealtà
Le cause della sconfitta
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, l’esercito austro-ungarico cercò di capire perché aveva perso la guerra. La versione più diffusa, raccontata dagli ufficiali, diceva che la colpa era di un tradimento interno. Si parlava di una “pugnalata alle spalle” da parte di persone di altre nazioni che non erano fedeli, di soldati che avevano abbandonato l’esercito e di persone che avevano creato problemi. In questo modo, i capi militari non si prendevano la responsabilità della sconfitta, ma accusavano altre persone di essere state la causa dei problemi.La realtà delle diserzioni
Se si analizzano meglio i fatti, si capisce che le ragioni politiche non sono state la causa principale delle diserzioni. I soldati scappavano soprattutto per l’orrore della guerra, per cercare di sopravvivere, per tornare dalle loro famiglie e per sfuggire ai maltrattamenti dei loro superiori. Molte volte, quelle che venivano chiamate diserzioni erano in realtà la conseguenza di ritirate e avanzate veloci sul fronte orientale, dove interi gruppi di soldati venivano catturati dal nemico.Il caso dei soldati cechi e italiani
I soldati cechi e italiani furono spesso accusati di essere inaffidabili. Le accuse di diserzioni di massa si basavano spesso su pregiudizi e su interpretazioni sbagliate di quello che succedeva in guerra quando le cose andavano male. Al contrario, i nazionalisti italiani e cechi dicevano che disertare era un atto di patriottismo, utile per creare nuove nazioni. In realtà, la situazione era più complessa di così.Le vere motivazioni dei soldati
Alcuni soldati disertarono per motivi ideologici, ma furono pochi. La maggior parte scappava per la disumanità della guerra, per le sofferenze insopportabili e per le ingiustizie che subivano. Essere trattati male nell’esercito imperiale faceva sentire i soldati stranieri e diminuiva la loro voglia di essere fedeli all’impero, ma questo non significava necessariamente che volessero unirsi all’Italia.L’importanza della comunicazione
Un altro problema era la difficoltà di comunicazione, perché c’erano molte lingue diverse e gli ufficiali non erano preparati a parlare con tutti. Questa mancanza di comunicazione peggiorava il morale dei soldati e li spingeva a disertare. Però, ci sono anche esempi positivi che dimostrano che se si riconoscono le diverse culture e si comunica meglio, si può migliorare lo spirito combattivo anche tra i soldati italiani, superando i pregiudizi e le incomprensioni.Ma è davvero così semplice misurare il patriottismo con interrogatori frettolosi e propaganda di circostanza?
Il capitolo sembra suggerire che la “italianità” dei prigionieri possa essere valutata rapidamente, quasi fosse un test attitudinale. Tuttavia, la complessità delle motivazioni umane e le profonde divisioni regionali menzionate nel testo stesso mettono in dubbio questa superficiale equazione. Per comprendere appieno le dinamiche identitarie in gioco, sarebbe utile approfondire gli studi di storia sociale e antropologia culturale sul concetto di nazione e identità nazionale, a partire dai lavori di Benedict Anderson e Ernest Gellner.5. Tra Speranza e Realtà: Il Ritorno dei Prigionieri Italiani dalla Russia
La missione Manera e il suo fallimento
Nel 1920, una missione italiana chiamata Manera fu inviata in Georgia. L’obiettivo principale era raggiungere il Turkestan per scoprire cosa fosse successo ai prigionieri italiani in Russia. Parallelamente, la missione aveva anche un compito segreto di spionaggio politico. La missione però non andò a buon fine. Le autorità locali non permisero al gruppo di entrare in Turkestan. La missione Manera riuscì a rimpatriare solo un piccolo numero di prigionieri, prima di essere interrotta a causa dell’invasione sovietica della Georgia. Questo fallimento generò molte richieste per organizzare nuove missioni di ricerca, questa volta civili.Le difficoltà nel proseguire le ricerche
Organizzare missioni civili di ricerca si rivelò complicato. C’erano tensioni diplomatiche tra Italia e Russia, problemi di soldi e una certa resistenza da parte del governo italiano a delegare questo compito a privati cittadini. Nel 1922, Mussolini decise di interrompere le trattative, ritenendo che spendere altri soldi per queste missioni fosse inutile.Le voci sui prigionieri e la missione Arlanch
Nonostante le smentite ufficiali, in Italia si diffusero notizie preoccupanti su migliaia di italiani che si trovavano in gravi difficoltà in Russia. Queste voci riaccesero la speranza nei familiari dei prigionieri, che aspettavano notizie da anni. Per rispondere all’opinione pubblica, nel periodo 1925-1926, il governo italiano decise di sostenere una nuova missione, chiamata Arlanch. Questa missione aveva lo scopo di fare chiarezza sulla situazione, ma le conclusioni furono diverse da quelle sperate.Le conclusioni della missione Arlanch
La missione Arlanch smentì l’idea che ci fossero ancora migliaia di prigionieri trattenuti contro la loro volontà. Si scoprì che molti prigionieri italiani erano morti a causa degli eventi bellici, delle epidemie o durante la guerra civile russa. Si stimava che nell’area siberiana e degli Urali ci fossero ancora circa 55.000 ex prigionieri, ma tra questi solo pochissimi erano italiani. Inoltre, molti di questi ex prigionieri non volevano tornare in Italia per motivi personali. Alcuni avevano creato nuove famiglie in Russia, altri temevano di affrontare un cambiamento radicale tornando in patria.I ritorni individuali e le storie di miseria
Nonostante le conclusioni della missione Arlanch, alcuni ex prigionieri continuarono a tornare in Italia. A spingerli al rientro furono le condizioni di vita in Russia, che peggiorarono ulteriormente, soprattutto durante le carestie degli anni ’30. Questi ritorni avvennero singolarmente e spesso in condizioni di grande povertà. I rimpatri continuarono fino alla metà degli anni ’30, portando alla luce storie di uomini che erano riapparsi dopo decenni di silenzio. Alcuni tornarono con nuove famiglie russe, altri soli e profondamente segnati dalle difficoltà vissute. Le loro storie raccontano un intreccio complesso di destini personali e decisioni politiche riguardanti il rimpatrio, in un periodo storico di grandi cambiamenti e incertezze dopo la guerra.Quanto ha influito la natura ibrida della missione Manera, divisa tra spionaggio e recupero prigionieri, nel suo fallimento e nel ritardo dei soccorsi, suggerendo che gli interessi politici abbiano prevalso su quelli umanitari?
Il capitolo presenta la missione Manera con un duplice scopo, sollevando interrogativi sulla priorità effettiva data al recupero dei prigionieri rispetto agli obiettivi politici segreti. Approfondire la storia delle missioni umanitarie e le dinamiche tra politica estera e azioni umanitarie potrebbe chiarire se e come le ambizioni politiche abbiano ostacolato il soccorso ai prigionieri. Studiare autori come David Rieff, che analizzano i dilemmi dell’azione umanitaria in contesti politici complessi, potrebbe offrire spunti utili.Abbiamo riassunto il possibile
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