Scienza e tecnologia

Silicon Valley. I signori del silicio

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1. Oltre il digitale: le ragioni per criticare la Silicon Valley

La Silicon Valley sembra godere di un’immunità dalle critiche che non si trova in altri settori economici importanti. Mentre si usano spesso termini negativi per descrivere industrie come quella farmaceutica (“Big Pharma”) o petrolifera (“Big Oil”), l’espressione “Big Data” suona quasi innocua. Questo nasconde in realtà gli scopi e gli effetti delle grandi aziende tecnologiche. Nonostante si parli molto di innovazione e progresso, cresce un certo malcontento per i risultati concreti di queste tecnologie, come l’aumento degli affitti nelle aree ad alta concentrazione tecnologica o i problemi legati all’introduzione di nuovi servizi digitali. Spesso, chi critica la Silicon Valley viene accusato di essere contro il progresso o di avere paura della tecnologia. Questo accade perché il dibattito viene presentato solo come una questione “digitale”, invece di essere visto per quello che è: un tema politico ed economico. Questo modo di parlare della tecnologia le attribuisce una specie di aura speciale, come se fosse intoccabile, e questo favorisce gli interessi delle aziende che la sviluppano.

Un controllo invisibile sulla vita

Ci sono ragioni concrete e importanti per guardare con occhio critico alla Silicon Valley. Una delle prime è che crea un controllo che non vediamo direttamente sulle nostre vite. Tecnologie che sembrano utili, come le auto che si guidano da sole o i corsi online che usano sistemi per riconoscere chi sta studiando, in realtà aumentano la sorveglianza. Anche le decisioni più semplici che prendiamo ogni giorno, come cosa mangiare, possono essere influenzate da pubblicità mirate che ci arrivano perché basate sui dati che vengono raccolti su di noi. Questo limita la nostra libertà di scelta. Il modo in cui queste aziende fanno soldi, il loro modello di business, trasforma quasi ogni aspetto della nostra esistenza in qualcosa da cui ricavare profitto.

Mancanza di alternative e dipendenza

Un altro punto critico è che la Silicon Valley limita la nostra capacità di immaginare modi diversi di usare la tecnologia, che non siano basati sulla pubblicità o sulla raccolta centralizzata di dati. Se si suggerisce di creare soluzioni tecnologiche gestite dallo Stato o da enti pubblici, questo viene spesso visto come un attacco all’idea stessa di “internet”. La dipendenza da servizi offerti solo da aziende private è un problema, perché questi servizi possono essere modificati o interrotti senza preavviso. Questo mette in luce quanto manchino infrastrutture digitali pubbliche su cui poter contare. In questo scenario, la privacy diventa un lusso, qualcosa che solo chi può permettersi certi strumenti o consulenze specialistiche riesce a proteggere efficacemente, creando così nuove disuguaglianze.

Un approccio troppo semplice

Infine, l’approccio che domina nella Silicon Valley è spesso troppo semplice. Si basa sulla raccolta di enormi quantità di dati e sulla ricerca di collegamenti tra questi dati ovunque, anche dove non sono significativi. Questo modo di pensare influenza anche istituzioni importanti, come le forze dell’ordine o le agenzie di sicurezza. Porta a raccogliere una quantità eccessiva di informazioni, che poi diventa difficile da gestire e interpretare correttamente. Questo approccio semplicistico porta anche a definire problemi sociali molto complessi, come l’obesità o la povertà, in modo riduttivo. Vengono visti come semplici mancanze di informazioni che si potrebbero risolvere con una app, invece di affrontare le cause profonde e strutturali che li generano. Per capire davvero l’impatto della tecnologia, è fondamentale guardare oltre l’aspetto puramente “digitale” e analizzare i sistemi sociali, politici ed economici in cui essa si inserisce e opera.

Ma è davvero solo un “approccio troppo semplice” a guidare la riduzione di problemi complessi a meri dati?
Il capitolo identifica correttamente un problema cruciale: la tendenza a ridurre fenomeni sociali complessi a mere questioni di dati e algoritmi, ignorando le cause strutturali. Tuttavia, definire questo come un semplice “approccio troppo semplice” rischia di minimizzare le ragioni profonde e spesso ideologiche che spingono verso questa visione riduzionista. Non si tratta solo di mancanza di complessità, ma di una specifica razionalità neoliberale che vede nella quantificazione e nella gestione algoritmica la soluzione a ogni problema, spesso per fini di controllo e profitto. Per comprendere appieno questo fenomeno, è utile approfondire la filosofia della tecnologia, la sociologia critica e la critica dell’economia politica digitale. Autori come Michel Foucault, Shoshana Zuboff o Cathy O’Neil offrono strumenti concettuali per analizzare come il potere, la sorveglianza e le logiche di mercato si intreccino con le tecnologie digitali, andando ben oltre una semplice “semplicità” di approccio.


2. L’Impero dei Dati e la Nuova Politica del Controllo

L’uso crescente di dati e tecnologia sta cambiando profondamente il modo in cui la società viene gestita e governata. Già negli anni ’60, iniziative come l’operazione CORRAL mostravano un primo interesse per il controllo basato sui computer. Oggi, questa tendenza è molto più diffusa: oggetti di uso quotidiano come auto, case e persino saponiere sono dotati di sensori e connessi a internet, raccogliendo enormi quantità di informazioni sul comportamento di ognuno di noi. Questo scenario porta a un nuovo modello di governance chiamato regolamentazione algoritmica. Questo approccio, promosso da esperti come Tim O’Reilly, si basa sulla raccolta continua di dati e sull’uso di algoritmi per regolare i comportamenti in tempo reale. Si ispira a concetti della cibernetica, come l’ultrastabilità, e trova applicazione in sistemi che usiamo quotidianamente, come i filtri antispam o i rilevatori di frodi bancarie.

Applicazione, Critiche e il Ruolo della Tecnologia

La regolamentazione algoritmica si estende a vari settori, dalla gestione del traffico alla lotta all’evasione fiscale, con strumenti come il redditometro. Tuttavia, questi sistemi tendono a concentrarsi sul controllo dei comportamenti individuali e sull’efficienza immediata, piuttosto che affrontare le cause profonde dei problemi sociali o economici. Questo sposta l’attenzione dal governare le cause al governare gli effetti, aumentando inevitabilmente la sorveglianza. La Silicon Valley promuove attivamente questo modello, spesso definito “soluzionismo”, proponendo soluzioni basate sulla tecnologia – come app, sensori o sistemi di feedback – per risolvere problemi complessi, inclusa la disuguaglianza sociale. Questo modo di pensare si allinea con l’idea di uno “Stato della spinta gentile”, che utilizza i dati per indirizzare i cittadini verso comportamenti considerati desiderabili attraverso piccoli incentivi o modifiche all’ambiente decisionale.

Dati, Reputazione e le Conseguenze Politiche

La tendenza attuale vede uno Stato sempre più dipendente dai dati, che collabora strettamente con le aziende tecnologiche per raccogliere e utilizzare informazioni, arrivando persino a venderle. Questo modello valuta in modo particolare l’efficienza e la reputazione personale, come si vede chiaramente nella “sharing economy”, dove ogni interazione può essere valutata e contribuisce a costruire un profilo digitale. La reputazione online diventa così una sorta di protezione sociale personalizzata, basata sul proprio comportamento registrato. Questo sistema rischia di ridurre la politica a una mera questione tecnica di ottimizzazione basata sui numeri, trascurando i valori fondamentali della democrazia che non possono essere quantificati. Le decisioni importanti rischiano di finire nelle mani di tecnocrati e grandi aziende, portando la società a sacrificare la propria capacità di scegliere il proprio futuro in favore di regolatori basati su algoritmi.

Ma siamo davvero sicuri che i dati e gli algoritmi non possano servire la democrazia, invece di condurla alla sua fine tecnica?
Il capitolo dipinge un quadro in cui la tecnologia e i dati minacciano i valori democratici, riducendo la politica a mera ottimizzazione e spostando il potere verso tecnocrati e aziende. Per comprendere appieno la complessità di questa trasformazione e valutare se esistano percorsi alternativi, è fondamentale esplorare le teorie della democrazia digitale e le discussioni su come gli strumenti tecnologici possano essere progettati e utilizzati per aumentare la trasparenza, la partecipazione civica e l’accountability, piuttosto che solo per il controllo. Approfondire la filosofia politica contemporanea e gli studi sulla governance nell’era digitale può offrire prospettive alternative che vadano oltre la dicotomia presentata.


3. La soluzione dei problemi tramite l’osservazione continua

Raccogliere e analizzare dati digitali porta vantaggi concreti, che a volte vengono chiamati “dividendo della sorveglianza”. Questo permette di tenere traccia di quasi tutto, aiutando a progettare e gestire meglio le cose. Chi sostiene questo approccio usa questi metodi per affrontare problemi sociali. Per esempio, la “fisica sociale” studia le relazioni tra le persone per influenzare i loro comportamenti. Gli esperimenti mostrano che spingere amici a fare qualcosa o mostrare chi ha già agito (come votare) funziona meglio degli incentivi diretti. Questo accade perché i sistemi conoscono le relazioni tra le persone e possono inviare messaggi mirati. Molti problemi sociali, dalla povertà alla salute, vengono visti come problemi legati alle informazioni. Si pensa che le persone prendano decisioni sbagliate perché non hanno abbastanza informazioni o soffrono di “scarsità cognitiva”. La soluzione proposta è dare le informazioni giuste al momento giusto, usando un tracciamento costante e strumenti digitali come app o dispositivi intelligenti. Questo rende l’ambiente “a prova di scarsità”, riducendo gli errori che le persone possono fare da sole.

Le critiche a questo metodo

Questo modo di affrontare le cose riduce questioni complesse a semplici problemi tecnici che si possono risolvere con dati e algoritmi. Si concentra solo sulla singola persona e su come si comporta, senza considerare cause più ampie come quelle sociali, economiche o politiche. La politica, in questo quadro, diventa una questione di controllare e correggere le abitudini individuali attraverso la sorveglianza. La ricerca di soluzioni si sposta così dal dibattito pubblico al mercato e alle applicazioni tecnologiche. Questo crea un forte squilibrio: le persone diventano trasparenti e facili da manipolare, mentre i governi e le aziende che raccolgono i dati rimangono nascosti.

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Davvero il ‘fallimento’ di questi movimenti si riduce solo alla mancanza di una lotta politica esplicita, o c’era qualcosa di più intrinseco a limitarne la portata?
Il capitolo individua correttamente la mancata integrazione con una strategia politica ed economica più ampia come causa principale della limitata efficacia di movimenti come Arts and Crafts o quello dei maker. Tuttavia, l’analisi potrebbe beneficiare di un approfondimento sulle dinamiche interne a questi stessi movimenti. Non è forse possibile che la loro enfasi sull’individualismo, sulla creatività personale o sull’uso di strumenti specifici contenesse in sé dei limiti che li rendevano intrinsecamente difficili da scalare o da trasformare in forze di cambiamento collettivo radicale? Per esplorare questa prospettiva, potrebbe essere utile confrontare questi movimenti con teorie sociologiche sui movimenti sociali che analizzano non solo il contesto esterno, ma anche la struttura interna, gli obiettivi dichiarati e le pratiche quotidiane dei partecipanti. Approfondire il pensiero di autori che criticano la neutralità della tecnologia, come Jacques Ellul o Langdon Winner, potrebbe inoltre offrire spunti per capire se gli strumenti stessi, al di là del loro uso, possano veicolare o limitare certe forme di organizzazione sociale o politica.


7. Dati, Debito e la Strategia del Tempo

Dispositivi di uso quotidiano, come spazzolini intelligenti o elettrodomestici connessi, generano una grande quantità di dati personali. Le grandi aziende tecnologiche raccolgono queste informazioni in modo sistematico, trasformandole in una fonte significativa di profitto. Questa pratica consolida l’idea che l’informazione sia una vera e propria merce di scambio nel mercato digitale. Anche alcune proposte che suggeriscono agli individui di possedere e vendere i propri dati, pur sembrando emancipatorie, mantengono in realtà questa stessa visione mercantile dell’informazione. In questo scenario, ogni interazione digitale e ogni dato prodotto assume un potenziale valore economico.

Nuovi modelli economici e la gestione delle crisi

La tecnologia agisce come un potente motore per creare nuova attività economica e, al contempo, come uno strumento per ritardare o gestire l’impatto di crisi economiche e politiche di austerità. Questo meccanismo si manifesta in diverse forme, dalle iniziative governative che considerano la vendita di dati pubblici come una risorsa, fino all’ascesa di start-up innovative come Uber e Airbnb. La cosiddetta “sharing economy”, promossa da queste piattaforme, permette di monetizzare beni personali trasformandoli in servizi a pagamento. Tuttavia, questo modello si basa spesso su forme di lavoro altamente precario, con poche garanzioni e tutele sociali per chi lavora. I sostenitori di questa economia digitale argomentano che i meccanismi di feedback del mercato, come le recensioni degli utenti, possano sostituire efficacemente la necessità di una regolamentazione più strutturata e protettiva.

Dati personali e il sistema del debito

Con l’avanzare della digitalizzazione, ogni aspetto della vita quotidiana può potenzialmente generare valore economico attraverso i dati che produce. Questi dati personali vengono utilizzati in misura crescente per valutare l’affidabilità creditizia degli individui, stabilendo un legame diretto tra le azioni di ogni giorno e il sistema del debito. Le aziende finanziarie e altre istituzioni analizzano attentamente i comportamenti online, le abitudini di consumo e altre tracce digitali per decidere se concedere prestiti o altre forme di credito. Questo significa che la condotta digitale di una persona può influenzare concretamente la sua capacità di accedere a risorse finanziarie, integrando la vita privata nel circuito economico del debito.

Respingere le critiche

Le voci critiche che analizzano queste profonde dinamiche, che legano in modo sempre più stretto tecnologia ed economia, vengono frequentemente etichettate e respinte come espressioni di semplice tecnofobia. Questa strategia retorica ha l’effetto di spostare l’attenzione dalle questioni economiche e politiche strutturali, che sono alla base di questi fenomeni, verso presunti problemi di adattamento culturale o di paura del progresso tecnologico. In questo modo, la tecnologia diventa uno strumento fondamentale per sostenere e perpetuare il sistema economico e sociale esistente, evitando di affrontare in modo diretto e costruttivo le sue crisi interne e le disuguaglianze che genera.

Se il capitolo dipinge un quadro così cupo in cui dati, debito e tecnologia si intrecciano per perpetuare il sistema, qual è la strategia del tempo che propone per spezzare questa spirale, o siamo destinati a subirla passivamente?
Il capitolo descrive in modo efficace le dinamiche di sfruttamento dei dati e l’integrazione della vita quotidiana nel sistema del debito, ma lascia il lettore con un senso di inevitabilità. Manca un’esplorazione concreta di come si possa agire o resistere a queste forze, e il riferimento alla “strategia del tempo” nel titolo non trova un corrispettivo sviluppo nel testo. Per comprendere meglio le possibili vie d’uscita o le alternative a questo modello, sarebbe utile approfondire la filosofia della tecnologia e le teorie critiche del capitalismo digitale. Autori come Bernard Stiegler o David Graeber offrono prospettive che vanno oltre la semplice critica, esplorando le radici storiche e filosofiche di questi fenomeni e suggerendo possibili percorsi di emancipazione o trasformazione.


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