Contenuti del libro
Informazioni
“Politica e violenza. Una ridefinizione del concetto oltre la depoliticizzazione” di Xenia Senaldi è un libro che ti fa guardare la violenza in modo diverso. Non è solo quella che vedi nei film o nelle notizie più eclatanti, ma è qualcosa di molto più radicato nella nostra società e nella politica. L’autrice esplora come la violenza politica si manifesta in contesti diversi, dalla gestione della migrazione ai confini, dove diventa una violenza strutturale che blocca le persone e nega i diritti, ma che paradossalmente alimenta anche la loro resistenza. Si parla di come il potere usi la violenza, guardando indietro a esempi storici come il linciaggio per capire come si costruiscono le gerarchie, o analizzando le dinamiche post-coloniali in Africa. Ma il libro non si ferma qui: analizza anche le forme di resistenza, dalle rivolte urbane (i “riot”) che sono risposte dal basso a crisi e repressione, fino alle strategie di sopravvivenza quotidiana dei migranti. C’è spazio anche per l’analisi letteraria, come l’opera di Saramago che critica i sistemi di potere, e per le storie di chi ha usato la violenza per resistere, come le donne nella lotta armata italiana degli anni Settanta, spesso rappresentate male dai media. Un tema centrale è il rapporto tra diritto e conflitto sociale: come il sistema legale gestisce (o criminalizza) i movimenti sociali e le proteste, definendo cosa è lecito e cosa no. Insomma, il libro ti porta a capire che la violenza è un elemento fondamentale per capire il potere, la resistenza e il conflitto, e che non possiamo semplicemente metterla da parte come qualcosa di irrazionale o non politico. È un invito a ripensare tutto, dalla politica migratoria alla gestione delle rivolte, guardando la violenza non solo come un problema da eliminare, ma come una chiave per leggere le dinamiche sociali e politiche più profonde.Riassunto Breve
La violenza politica si presenta in molte forme e non è solo forza fisica, ma un modo per gestire il potere e i conflitti nella società. Si vede, per esempio, nel fenomeno migratorio, dove la violenza non ferma i migranti ma li tiene lontani dai diritti, pur spingendoli a resistere. Questo succede per colpa di regole complicate, confini difficili da superare e un modo di pensare che vede i migranti come diversi o pericolosi. È una violenza che non si vede sempre, fatta di burocrazia e mancanza di riconoscimento, che costringe le persone a nascondere chi sono veramente per ottenere protezione. A volte, le persone rispondono a questa esclusione con azioni, anche violente, per cercare di sopravvivere o farsi vedere. Ci sono anche forme di violenza collettiva, come i tumulti nelle città, che sono una risposta a problemi sociali e alla repressione, un modo per rimettere in discussione il potere. La violenza è sempre stata usata per mantenere le gerarchie, come nel caso storico del linciaggio, dove un gruppo usa la forza contro un singolo per affermare il proprio dominio e sostituirsi alla legge. Anche in contesti diversi, come in Africa, la violenza è legata al controllo dello Stato e alle lotte per il potere, ma è usata anche dai gruppi più deboli per chiedere spazio e riconoscimento. Il potere non è solo quello dello Stato, ma si manifesta anche nello sfruttamento economico e nel controllo delle persone, come si vede in alcune storie che criticano la società moderna. Le persone, però, trovano modi per resistere, anche quando vengono rappresentate in modo sbagliato o stereotipato, come è successo alle donne che hanno partecipato a lotte armate e che invece agivano per ragioni politiche precise. Anche il diritto, cioè le leggi, non è neutrale; serve a gestire i conflitti e può essere usato dal potere per definire chi è deviante o criminale, specialmente in momenti difficili. Questo porta a usare leggi vecchie o a considerare pericolose certe persone o azioni. Le persone che subiscono queste definizioni non sono passive, ma interagiscono con il sistema legale, a volte usandolo a loro volta. La violenza politica si capisce guardando come la forza autorizzata dallo Stato e quella non autorizzata si scontrano, anche dentro un tribunale. È importante capire come le persone che subiscono il potere si relazionano con le leggi e la politica.Riassunto Lungo
1. La violenza politica tra confini e rivolte
La violenza politica corrode il senso stesso della lotta e della resistenza, soprattutto quando si parla di migrazione. Migrare è di per sé un atto politico, una scelta per la sopravvivenza contro le ingiustizie. Eppure, la violenza blocca i migranti, impedendo loro di accedere pienamente ai diritti e alla cittadinanza. Allo stesso tempo, questa stessa violenza può spingerli a muoversi e a resistere.Le cause della violenza strutturale
Questa violenza nasce da problemi nelle leggi e nella cultura. Quando la solidarietà verso i migranti viene vista come un reato e i diritti umani non sono riconosciuti per tutti, si crea una divisione che porta a considerare alcune persone meno importanti o “sub-umane”. I confini, sia quelli fisici che quelli invisibili, le lunghe pratiche burocratiche e il modo in cui si parla dei migranti, spesso descritti come “provvisori” o “pericolosi”, contribuiscono a questa violenza che fa parte del sistema. Non sentirsi riconosciuti, né legalmente né come persone, è un punto cruciale di questo problema. Politiche come i centri di accoglienza rapidi (hotspot) e il controllo dei confini affidato ad altri paesi mostrano una volontà di non farsi carico del problema, seguendo la logica del “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.La violenza nella vita di ogni giorno
La violenza del sistema si intreccia con la vita quotidiana dei migranti, creando situazioni ambigue dove emergono modi informali o illegali per riuscire a sopravvivere. Queste azioni, a volte violente, sono un tentativo di reagire all’esclusione e possono portare alla creazione di nuove distinzioni e gerarchie anche tra i migranti stessi. La violenza di tutti i giorni è spesso nascosta e ripetitiva, difficile da distinguere dalle normali procedure burocratiche. I percorsi per chiedere protezione, ad esempio, filtrano le storie personali e spingono chi chiede aiuto a raccontare la propria esperienza in modo da rientrare in certi schemi predefiniti. Questo processo di adattamento forzato della propria identità è esso stesso una forma di violenza.Le rivolte collettive come risposta
Accanto alla violenza quotidiana e a quella del sistema, le ribellioni di gruppo, come i disordini urbani (riot), rappresentano un’altra espressione della violenza politica. Questi tumulti nelle città, che si sono manifestati con forza tra il 2011 e il 2013, sono reazioni dal basso alla crisi economica e alla repressione. Anche se i mezzi di informazione li descrivono a volte come pacifici o senza senso, l’uso della forza è stato fondamentale per difendersi e portare avanti il conflitto.Il significato politico delle rivolte
Capire se la violenza ha un significato politico o meno dipende spesso da quanto viene considerata “ragionevole”. Tuttavia, la violenza che va oltre le leggi, come quella dei riot, può mettere in discussione il potere esistente e segnalare la nascita di nuove forme di azione politica. I riot sono visti come “lotte per la circolazione”, cioè conflitti legati al movimento e alla riproduzione delle persone e delle merci nel sistema economico attuale, diversi dallo sciopero che è legato alla produzione nelle fabbriche. Essi indicano un cambiamento in atto e la necessità di pensare in modo nuovo per capire queste dinamiche.Ma siamo certi che i disordini urbani siano davvero “lotte per la circolazione” e non piuttosto la manifestazione caotica di disperazione o, peggio, di mera criminalità, data la fluidità con cui il capitolo lega la violenza a forme informali e illegali di sopravvivenza?
Il capitolo introduce l’idea che i riot urbani rappresentino una nuova forma di lotta politica, le “lotte per la circolazione”, distinguendole dallo sciopero tradizionale. Questa interpretazione è affascinante, ma si basa su una specifica lente teorica che non è universale. Il rischio è di etichettare come “politico” ogni atto di violenza collettiva, perdendo di vista altre possibili cause o nature di tali fenomeni, che potrebbero essere legate a dinamiche sociali complesse, alla marginalità o persino a forme di illegalità non necessariamente orientate a un cambiamento politico strutturale. Per approfondire questa distinzione e capire meglio le diverse interpretazioni della violenza e delle rivolte, sarebbe utile esplorare la sociologia del conflitto, la criminologia critica e le teorie politiche che analizzano il rapporto tra violenza, potere e resistenza. Autori come Charles Tilly o i teorici della Scuola di Francoforte offrono prospettive diverse che possono aiutare a contestualizzare e a valutare criticamente l’idea delle “lotte per la circolazione” come unica chiave di lettura dei disordini urbani.2. La Violenza come Fondamento e Strumento del Potere
La violenza politica si presenta in molti modi, spesso come un’azione di gruppo contro una persona o un insieme di persone. Un esempio del passato è il linciaggio, dove una folla insegue e uccide un individuo, a volte infierendo sul corpo. Questo atto estremo non è solo violenza, ma un modo per stabilire chi comanda. In luoghi come l’America del Sud, il linciaggio serviva a mantenere il potere dei bianchi, trattando le vittime come meno che umane, quasi animali, per giustificare la brutalità. Questa pratica funziona anche come una specie di giustizia fatta dal popolo, che interviene quando le leggi normali non sembrano sufficienti a punire azioni considerate pericolose per l’ordine sociale o le gerarchie. Sostituisce la legge dello Stato, rivendicando per la comunità il potere di vita e di morte. Questa violenza di gruppo contro il singolo è vista anche come un ritorno a uno stato primitivo, una forza potente che la società civile cerca di eliminare, ma che rimane una base nascosta, sempre pronta a riapparire.La Violenza nel Contesto Africano
In Africa, la violenza politica è legata in modo profondo a quello che è rimasto dal periodo coloniale, che ha cambiato le strutture sociali e chi aveva il potere. Dopo che i paesi hanno ottenuto l’indipendenza, la violenza è diventata uno strumento per il controllo dello Stato e per le lotte di potere tra i gruppi dirigenti. La debolezza dello Stato ha permesso la nascita di nuove forme di violenza legate a traffici illegali e a capi militari non ufficiali, i signori della guerra. Ma la violenza è usata anche dai gruppi sociali meno potenti e dai movimenti di protesta dei giovani. Questi non usano la forza solo per resistere alla repressione dello Stato, ma anche per chiedere di avere un proprio spazio nella società e di essere riconosciuti. La violenza usata dallo Stato e la resistenza violenta della popolazione sono due modi diversi di usare la forza nei conflitti politici.
Se la violenza politica è un ‘ritorno a uno stato primitivo’, come sostiene il capitolo, questa visione non rischia di semplificare eccessivamente le cause profonde e le diverse manifestazioni della violenza stessa, specialmente in contesti complessi come quello africano descritto?
Il capitolo, nel presentare la violenza come una forza che riporta a uno ‘stato primitivo’, propone un’interpretazione che potrebbe non cogliere appieno la complessità del fenomeno. La violenza politica, infatti, non è solo una regressione, ma spesso un prodotto di specifiche strutture di potere, eredità storiche (come il colonialismo, menzionato per l’Africa) e conflitti sociali contemporanei. La sezione sull’Africa, purtroppo, non viene pienamente integrata con questa tesi generale, lasciando il lettore a chiedersi come le dinamiche di potere post-coloniali, i signori della guerra e le proteste giovanili si inseriscano in un quadro di ‘ritorno al primitivo’. Per esplorare queste sfaccettature e comprendere meglio le cause e le forme della violenza politica oltre la dicotomia ‘civile/primitivo’, si possono consultare studi di sociologia del conflitto, antropologia politica e storia contemporanea. Autori come Charles Tilly, Achille Mbembe o Paul Richards offrono analisi che contestualizzano la violenza all’interno di processi di costruzione dello Stato, dinamiche di potere informale e contesti di crisi.Ma quali dati empirici supportano concretamente queste conclusioni?
Il capitolo presenta un quadro suggestivo, ma la sua solidità argomentativa risentirebbe di un maggiore ancoraggio a fonti primarie e studi verificabili. Per colmare questa lacuna, sarebbe utile esplorare le metodologie di ricerca empirica nel campo trattato e consultare autori che hanno posto l’enfasi sulla verifica delle ipotesi e sull’analisi critica dei dati, come Karl Popper o figure rilevanti nella metodologia della ricerca sociale o scientifica.3. La Legge, il Conflitto e i Governati
Il diritto funziona nella società come un sistema che gestisce i conflitti, non evitandoli, ma creandoli. Questa idea, che viene dall’analisi dei sistemi fatta da Luhmann, vede il conflitto come una contraddizione che viene comunicata. Il conflitto è fondamentale perché il sistema legale possa riflettere su se stesso e continuare a esistere. In tutto questo, il sistema dei tribunali ha un ruolo centrale, anche se il suo rapporto con il sistema politico è complicato, fatto di dipendenza e indipendenza allo stesso tempo. Quando il sistema politico è in difficoltà, il diritto può intervenire per compensare, correndo però il rischio di subire troppa influenza dalla politica. Questo può riattivare meccanismi che nel sistema legale erano nascosti.L’uso politico del diritto e la gestione della devianza
La “giustizia politica”, come la chiama Kirchheimer, è l’uso di procedure legali per eliminare gli avversari politici. Questa pratica esiste anche nelle democrazie e serve a rendere legittima la violenza usata dalle istituzioni, nascondendone la vera natura. La società è complessa e il sistema politico deve fare delle scelte che inevitabilmente lasciano fuori alcune richieste, generando così comportamenti devianti e proteste. Il sistema legale può fare da “parafulmine”, ridefinendo i limiti della politica attraverso la “giuridificazione”, cioè distinguendo ciò che è permesso da ciò che non lo è e “costruendo” la realtà su cui agisce. Questo non significa che il diritto venga messo da parte, ma che si riorganizza al suo interno, rispolverando la sua memoria storica e adattando vecchi schemi per affrontare i pericoli del presente.Emergenza e definizioni di criminalità
Nei processi politici, specialmente in momenti di crisi, non si giudica solo un’azione, ma anche quanto una persona potrebbe essere pericolosa o se non ha agito. Questo porta a recuperare vecchie leggi, come quelle sui reati legati allo status di una persona o il diritto penale del nemico, e a usare strumenti come l’arresto preventivo o l’etichettatura negativa. Decidere cosa sia criminale o deviante non è qualcosa di naturale, ma è il risultato del potere che decide quali comportamenti definire in un certo modo.Attori sociali e interazione con la legge
Le scienze sociali spesso hanno studiato i movimenti sociali “normali” separatamente da fenomeni “malati” come il terrorismo o il crimine, senza considerare come l’azione collettiva e il sistema legale interagiscono tra loro. Criminalizzare una protesta è un esempio di come il diritto definisce e gestisce i conflitti. Le persone e i gruppi sociali non accettano passivamente questa definizione, ma interagiscono e si adattano, usando anche il diritto a loro volta. La violenza politica si manifesta nell’incontro tra la violenza permessa e quella non permessa, un processo che si vede anche nelle aule di tribunale. È importante studiare chi viene “governato” e il loro rapporto complesso con il potere legale e politico.Se il diritto nelle democrazie serve davvero a ‘eliminare gli avversari politici’ e a rispolverare il ‘diritto penale del nemico’, non si sta forse descrivendo una patologia del sistema piuttosto che il suo funzionamento ordinario?
Il capitolo tocca un nervo scoperto, suggerendo che anche nei sistemi democratici il diritto possa essere piegato a fini politici repressivi, arrivando a richiamare concetti inquietanti come il “diritto penale del nemico”. Tuttavia, non viene sufficientemente esplorato il confine sottile e cruciale tra l’uso legittimo degli strumenti legali per la sicurezza e l’ordine pubblico e la loro deliberata strumentalizzazione per neutralizzare il dissenso o gli oppositori. Per affrontare questa complessa questione, è indispensabile approfondire gli studi sulla sociologia del diritto critico e le analisi politiche sull’uso della giustizia. Autori come Kirchheimer, già menzionato nel capitolo, e Jakobs, per la sua controversa teorizzazione del diritto penale del nemico, offrono prospettive fondamentali, così come le ricerche sulla crisi dello stato di diritto e sulle misure di emergenza che tendono a comprimere le garanzie individuali.Abbiamo riassunto il possibile
Se vuoi saperne di più, devi leggere il libro originale
Compra il libro[sc name=”1″][/sc] [sc name=”2″][/sc] [sc name=”3″][/sc] [sc name=”4″][/sc] [sc name=”5″][/sc] [sc name=”6″][/sc] [sc name=”7″][/sc] [sc name=”8″][/sc] [sc name=”9″][/sc] [sc name=”10″][/sc]