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Contenuti del libro
Informazioni
“L’oggetto-persona. Rito, memoria, immagine” di Carlo Severi ti porta in un viaggio pazzesco attraverso culture e tempi diversi per capire una cosa che non pensiamo spesso: gli oggetti non sono sempre solo cose inanimate. Il libro esplora come in tantissime tradizioni, dall’arte moderna che guardava al primitivismo e all’arte non occidentale, fino ai sistemi di memoria degli Amerindiani con i loro Quipus e pittografie, o ai riti africani dove strumenti e feticci sembrano avere una loro voce e autorità anonima, gli oggetti possano diventare quasi delle “persone”. Severi analizza come questa agentività degli oggetti non sia magia, ma nasca da riti, immagini e modi di pensare che creano identità complesse e spazi mentali dove queste ipotesi irrefutabili prendono vita. Non si ferma lì, mostra come anche l’arte occidentale, tipo la prospettiva rinascimentale, cerchi di dare una “parvenza di vita” alle figure, creando un legame speciale con chi guarda. È come se il libro ti facesse vedere che ci sono tanti modi di interagire con il mondo visivo e materiale, creando “giochi” che vanno oltre la semplice rappresentazione.Riassunto Breve
L’arte moderna all’inizio del Novecento cerca una nuova forza espressiva guardando a forme non occidentali, usandole come stimolo o prendendo spunto diretto per creare uno spazio diverso, non solo imitazione della natura. Queste arti non occidentali, come le pittografie o i Quipus, mostrano sistemi complessi che usano immagini e oggetti per organizzare la memoria e il sapere in modi che bilanciano l’aspetto visivo con la logica. Nelle culture orali, l’autorità e la verità non vengono da un autore scritto, ma possono venire direttamente dagli oggetti stessi, come strumenti musicali o figure rituali. Questi oggetti non rappresentano una singola persona, ma diventano attivi, a volte sembrano “parlare” con una voce che non è quella di nessun umano, ma che nasce dal rituale o dalla combinazione di elementi. L’oggetto diventa l’immagine di una rete di relazioni, non di un individuo, e ha autorità senza avere un autore. Questa idea che gli oggetti possano avere una sorta di vita o capacità di agire è forte nei rituali, dove statue o feticci non solo mostrano esseri soprannaturali, ma li rendono presenti e agiscono al loro posto, usando una “parola prestata”. Questo richiede di guardare non solo all’immagine, ma a come viene usata e a chi la usa, perché l’identità di chi parla o dell’oggetto stesso è creata dalle regole del rituale. Anche le statue greche antiche, con le loro iscrizioni lette ad alta voce, sembrano parlare in prima persona, creando un’identità complessa dove la statua incarna il defunto e una persona viva le presta la voce. Questa capacità di creare identità complesse e relazioni si vede anche nei giochi, come quelli funebri, dove chi vince diventa l’immagine vivente dell’eroe defunto. Nell’arte, anche quella occidentale, si cerca di dare l’impressione di vita agli oggetti o alle figure. La prospettiva, ad esempio, non è solo una tecnica per copiare la realtà , ma crea un’illusione di vita e un legame con chi guarda, invitandolo a entrare nello spazio del quadro e completando l’immagine con il suo sguardo e la sua immaginazione. Questo gioco di sguardi e interazione fa sì che la figura sembri una persona viva. Esistono diversi livelli di realtà in una cultura, basati su idee che non hanno bisogno di prove assolute, ma sono coerenti tra loro, come le ipotesi in geometria. In questo spazio mentale, che è come un giardino di idee, possono esistere gli oggetti-persona, cioè oggetti a cui viene data una soggettività . Le tradizioni artistiche e rituali sono piene di questi “giochi” in cui si interagisce con le immagini e gli oggetti come se fossero vivi o avessero un potere. Oggetti rituali o figure nell’arte occidentale non sono semplici specchi, ma come cristalli che riflettono e creano un insieme di relazioni e identità parziali. La loro presenza e autorità nascono da azioni, voci prestate, sguardi e identificazioni multiple. Questi modi di pensare e interagire con immagini e oggetti creano un’alternanza tra diversi piani di realtà , realizzandosi in questo spazio di idee coerenti ma non dimostrabili, dove gli oggetti-persona vivono e interagiscono.Riassunto Lungo
1. Forme, Memoria e Sguardi Lontani
All’inizio del Novecento, l’arte moderna, con movimenti come i Fauves e Die Brücke, cercava un modo nuovo per esprimersi con maggiore intensità . Voleva inventare spazi diversi, non solo copiare la natura. Per trovare questa forza emotiva, gli artisti hanno guardato all’arte di culture diverse, spesso chiamata “arte primitiva”.Guardare l’arte “primitiva”: diverse idee
Diversi studiosi hanno interpretato in modi differenti questo interesse per l’arte non occidentale. Robert Goldwater pensava che l’arte “primitiva” fosse usata come un “catalizzatore”, cioè qualcosa che aiutava gli artisti moderni a sviluppare nuove idee estetiche. Si concentravano sulla semplificazione delle forme per rendere l’opera più diretta per chi la guardava. William Rubin, invece, ha mostrato che gli artisti moderni prendevano in prestito forme e stili direttamente da queste arti. Guardare l’arte di altre culture ha aperto nuove prospettive sulla percezione. Carl Einstein, parlando di scultura africana e cubismo, vedeva un modo per andare oltre la solita visione frontale, scoprendo “forme plastiche pure” e creando uno spazio mentale che si muoveva in tutte le direzioni. Barnett Newman proponeva un “primitivismo senza prestito”, che si basava sulla comprensione dello “spazio implicito” presente negli oggetti esotici, richiedendo all’occhio uno sforzo intenso per capirli. Anche Pavel Florenskij ha studiato come immagini che non usano la prospettiva, come le icone bizantine, guidino l’occhio a ricostruire l’immagine nella mente, attivando la memoria e l’immaginazione.Capire l’arte nel suo contesto
Queste diverse interpretazioni, pur concentrandosi su come l’arte “primitiva” intensifichi l’immagine o cambi la percezione dello spazio, spesso guardano a queste opere solo con gli occhi dell’estetica occidentale. In questo modo, rischiano di non considerare il loro “gioco” originale, cioè il modo in cui queste arti venivano usate e capite nella loro cultura. Una tradizione di immagini, infatti, non è fatta solo dalle immagini in sé, ma anche da come vengono usate e interpretate dalle persone che le hanno create e che le usano.Sistemi di memoria in America
Un esempio interessante di come l’arte possa organizzare la conoscenza viene dalle arti della memoria delle popolazioni amerindiane. Sistemi come le pittografie e i Quipus mostrano modi complessi di organizzare le informazioni. Le pittografie, come quelle dei popoli Yekwana o Kuna, usano immagini ben definite per mettere in evidenza liste di nomi o per raccontare storie in un ordine preciso. I Quipus delle Ande, invece, usano nodi su cordicelle per organizzare dati in modo molto ordinato, specialmente numeri e nomi. È importante capire che questi non sono semplici aiuti per ricordare cose singole, né sono tentativi incompleti di scrittura. Sono vere e proprie arti della memoria molto evolute. Riescono a bilanciare la forza visiva (quanto sono espressive le immagini o i nodi) con la capacità di organizzare logicamente le conoscenze (quanto sono potenti come sistema). Queste arti si sono sviluppate nel tempo in modo “modulare”, cioè crescendo sia nella capacità di classificare le cose (pensiero tassonomico) sia nella forza delle immagini (salienza iconografica). Offrono così un modo differente di usare immagini e oggetti per aiutare la memoria di un gruppo sociale e per sviluppare il pensiero.Se l’arte “primitiva” è stata usata come mero “catalizzatore” estetico, l’analisi dei sistemi di memoria amerindiani, pur affascinante, coglie davvero il “gioco” culturale e rituale che l’occhio occidentale ha ignorato?
Il capitolo identifica correttamente il limite di un approccio all’arte non occidentale basato esclusivamente sull’estetica o sulla percezione visiva, sottolineando come si perda il “gioco” originale, ovvero il contesto d’uso e interpretazione. Tuttavia, l’esempio dei sistemi di memoria, pur mostrando una complessa organizzazione della conoscenza, rischia di spostare l’attenzione su una funzione (la memoria) che, seppur cruciale, potrebbe non esaurire la ricchezza dei contesti culturali, sociali e rituali che le interpretazioni occidentali hanno trascurato. Per approfondire questo aspetto e comprendere meglio la complessità del “gioco” delle arti non occidentali, è utile esplorare discipline come l’antropologia e la storia delle religioni, e leggere autori che hanno criticato il primitivismo e analizzato il ruolo sociale e rituale dell’arte in diverse culture, come James Clifford o Sally Price.2. La Voce degli Spiriti negli Strumenti e nei Feticci
Nelle tradizioni orali, l’autorità non si basa su testi scritti o sulla figura di un autore, come accade nella cultura occidentale. La verità e la legittimità di un sapere si stabiliscono attraverso modalità diverse. Alcune lingue utilizzano particelle grammaticali per indicare la fonte della conoscenza, incorporando la verità direttamente nella struttura della frase. In altri casi, l’autorità deriva dallo status speciale di chi parla, come uno sciamano che, attraverso un’identità complessa e rituali, diventa portavoce di entità soprannaturali.Oggetti come fonti di veritÃ
Un’altra forma di autorità si trasferisce direttamente sugli oggetti, che diventano essi stessi fonti di verità e credenza. Questi oggetti non sono legati a una persona umana o a un autore; la loro identità è anonima e misteriosa, riflettendo un’intenzionalità autonoma, a volte incontrollabile. L’esempio dell’arpa mvet dei Fang illustra questo concetto: il cantore epico, dopo un’iniziazione, si identifica con lo strumento e il canto, diventando un essere complesso chiamato mvet. L’autorità del canto non deriva dalla conoscenza del cantore, ma da una “voce nascosta” degli spiriti che emerge dallo strumento. Questa voce è una “melodia risultante”, creata dalla combinazione di diverse linee musicali suonate dal musicista, ma percepita come indipendente dalla sua intenzione diretta.Il potere rituale dei feticci
Un altro caso emblematico è il feticcio nkisi del Congo. Questi oggetti, spesso utilizzati in contesti giudiziari o di vendetta, sono considerati agenti attivi. La loro autorità deriva da un rituale che li trasforma, identificandoli con elementi eterogenei come un cacciatore morto e un albero che sanguina. Il feticcio incarna un’identità complessa, risultante da queste identificazioni parziali, che gli conferisce autonomia e potere d’azione. Non rappresenta una figura singola, ma un insieme di relazioni rituali. L’autorità della tradizione è un dispositivo anonimo legato all’azione rituale, dove l’oggetto diventa l’immagine di una rete di relazioni, non di un essere individuale. La sua capacità di agire e parlare non coincide con l’intenzione di nessun partecipante umano, ma risulta dalla dinamica dell’insieme. L’oggetto assume una funzione che lo associa alla verità , operando in uno spazio di autorità senza autore.Ma descrivere oggetti come “agenti attivi” o portatori di una “voce nascosta” non rischia di adottare acriticamente la prospettiva interna delle tradizioni studiate, confondendo la descrizione di una credenza con la sua validazione analitica?
Il capitolo presenta in modo efficace come l’autorità possa risiedere negli oggetti all’interno di specifiche tradizioni orali, descrivendo la loro “intenzionalità autonoma” e la loro “capacità di agire e parlare”. Tuttavia, un’analisi rigorosa dovrebbe distinguere chiaramente tra la descrizione del sistema di credenze interno a una cultura e l’attribuzione di tali qualità (come agency o voce) agli oggetti da una prospettiva analitica esterna. Non farlo rischia di reificare concetti che sono parte del sistema simbolico studiato. Per approfondire questa distinzione e comprendere come l’antropologia affronta l’analisi dei sistemi di credenze e del simbolismo senza adottarne acriticamente le premesse, è utile esplorare le opere di autori come Claude Lévi-Strauss o Philippe Descola, che offrono strumenti concettuali per analizzare le strutture del pensiero e le diverse ontologie.3. La Voce Silenziosa delle Immagini
Gli oggetti inanimati, in contesti rituali, assumono una personalità o una forma di agentività che va oltre il loro uso quotidiano. Statue, feticci e altri oggetti rituali non si limitano a rappresentare spiriti o antenati, ma li rendono presenti, agendo e talvolta “parlando” al loro posto. Questo fenomeno, chiamato “parola prestata”, richiede un’analisi sia della rappresentazione visiva che dell’atto verbale nel loro contesto d’uso.Pragmatica e comunicazione rituale
Lo studio di come il contesto influenzi il linguaggio, noto come pragmatica, è particolarmente utile in antropologia. Tuttavia, spesso si concentra solo sugli aspetti linguistici espliciti, trascurando gli elementi non verbali. Nei rituali, invece, gesti, immagini e azioni giocano un ruolo fondamentale nel definire il contesto e l’identità dei partecipanti. Un esempio emblematico è il rituale Naven degli Iatmul, dove i partecipanti cambiano ruoli di genere e parentela attraverso travestimenti e azioni. L’identità complessa che ne emerge è essenziale per comprendere il significato delle parole scambiate, anche se la forma grammaticale rimane invariata. Questo dimostra che nei rituali, l’identità del parlante è definita da regole “costitutive” che creano una situazione comunicativa specifica, non solo da regole “normative” che descrivono l’uso comune.Il campo dimostrativo e le statue funerarie greche
Il concetto di “campo dimostrativo” (Zeigfeld), che include le coordinate “io-qui-ora” e gli elementi non verbali che le definiscono, aiuta a comprendere come immagine e parola si leghino nei rituali. Un esempio chiaro è rappresentato dalle statue funerarie greche, come i kolossoi e i kouroi/korai. I kolossoi erano pietre che rappresentavano l’assenza-presenza del defunto e venivano invocate. I kouroi e le korai, invece, erano statue più elaborate che diventavano “segni” (sema) del defunto. Le iscrizioni su queste statue, lette ad alta voce dai vivi, permettono alla statua di parlare in prima persona, come nell’esempio: “Io sono Phrasikleia”. Questo crea un’identità complessa e plurale, dove la statua incarna il defunto e il celebrante presta la voce, realizzando un contatto rituale tra i mondi. L’immagine fissa l’identità visiva, mentre la voce prestata conferisce presenza sonora e capacità di parola. L’identità dell’immagine rituale è inseparabile dalla parola che le viene data.Ma davvero la prospettiva rinascimentale, scienza di ottica e geometria, si riduce a un’illusione vitalistica completata dallo sguardo dell’osservatore?
Il capitolo, pur offrendo una visione affascinante della prospettiva come strumento per il “parer vivo”, sembra talvolta confondere i registri, mescolando la sua natura di scienza ottico-geometrica con interpretazioni filosofiche vitalistiche e dinamiche relazionali con l’osservatore. Questa sintesi, se non ben contestualizzata storicamente, rischia di sovrapporre categorie moderne alla complessità del pensiero rinascimentale. Per dipanare questa matassa, è essenziale approfondire la storia delle teorie prospettiche nelle loro diverse sfaccettature tecniche e teoriche, esplorando testi di autori come Piero della Francesca o Leonardo, e confrontarsi con studi che analizzano sia la pratica artistica che la ricezione storica delle opere. Discipline come la storia della scienza e la storia dell’arte, con autori come Panofsky o Kemp, possono fornire gli strumenti necessari.7. Lo Spazio delle Ipotesi e gli Oggetti che Vivono
Esistono diversi piani di realtà all’interno di una cultura, basati su un tipo di pensiero che non richiede prove di verità assolute. Questo spazio mentale è composto da ciò che Platone chiamava “ipotesi semplicemente irrefutabili”. Queste ipotesi non sono verità dimostrabili, ma sono logicamente coerenti all’interno di un sistema, come le costruzioni della geometria.L’argomentazione di Socrate nel Fedone
Nel Fedone, Socrate discute dell’immortalità dell’anima senza affermarla come un fatto provato, ma come una finzione inevitabile o un’ipotesi inconfutabile. La sua validità deriva dalla coerenza logica interna, basata su premesse come il principio che le cose contrarie nascono dalle contrarie e l’ipotesi che l’anima sia non composta. Questo crea un mondo teorico, paragonabile a un giardino di ipotesi.Gli oggetti-persona e l’attribuzione di soggettivitÃ
In questo spazio di ipotesi inconfutabili agiscono gli oggetti-persona, ovvero oggetti a cui viene attribuita soggettività . L’attribuzione di soggettività e la modifica del soggetto corrispondente creano una relazione che definisce un’ontologia. Diversi livelli ontologici coesistono, legati al pensiero attraverso l’immagine. Le tradizioni iconografiche non sono solo immagini, ma includono anche modi di interagire con esse, come il primitivismo moderno, che vede l’oggetto sempre come opera legata all’interiorità dell’artista.I giochi di interazione con le immagini
Esistono diversi modi di interagire con le immagini:- Gioco della memoria: L’immagine funziona come tecnica di memorizzazione.
- Gioco dell’attribuzione di agentività : L’immagine è vista come un essere vivente.
Gli oggetti animati nel contesto rituale
Nel contesto rituale, gli oggetti animati funzionano come cristalli, non come semplici immagini speculari. Non rappresentano una singola identità , ma un insieme di relazioni e identità parziali. Esempi come lo nkisi africano o il kolossos/kouros greco mostrano come l’oggetto acquisisca autorità e presenza attraverso azioni rituali, voce, sguardo e identificazioni multiple. La sua identità complessa deriva dalle relazioni che istituisce.L’arte occidentale e la parvenza di vita
Anche l’arte occidentale, in particolare la prospettiva, crea una “parvenza di vita” negli oggetti. Attraverso lo sguardo dell’osservatore, l’opera e chi guarda possono condividere lo stesso spazio e statuto, integrando la presenza dell’osservatore nella rappresentazione. Questi modi di pensare e interagire con le immagini e gli oggetti creano giochi di alternanza tra diversi piani di realtà . Essi si realizzano nello spazio mentale delle ipotesi semplicemente irrefutabili, un territorio intermedio dove gli oggetti-persona esistono e interagiscono. La loro scomparsa lascia un senso di assenza di questa “terra ultra incognita” di ipotesi inconfutabili.Ma davvero l’attribuzione di vita agli oggetti si fonda su ipotesi ‘semplicemente irrefutabili’ come quelle della geometria?
Il capitolo postula un legame tra spazi logici astratti e il fenomeno concreto dell’attribuzione di soggettività agli oggetti. Tuttavia, la natura esatta di questo legame rimane nebulosa. Come si passa dalla coerenza logica di un sistema di pensiero (le “ipotesi irrefutabili”) alla percezione o all’attribuzione di agency a un oggetto materiale o iconografico? Questa connessione meriterebbe un’indagine più approfondita. Per esplorare questa apparente distanza, si potrebbero considerare studi che incrociano la filosofia della mente (sull’attribuzione di intenzionalità ), l’antropologia (sulle pratiche rituali e l’animismo), e la psicologia cognitiva (sulla percezione degli oggetti e l’antropomorfismo). Autori come Philippe Descola, Eduardo Viveiros de Castro, o anche studi più recenti sulla cognizione sociale potrebbero offrire prospettive utili a comprendere meglio i meccanismi culturali e cognitivi che sottendono l’attribuzione di “vita” o “soggettività ” agli oggetti, e come questi si relazionino, se si relazionano, a strutture di pensiero basate sulla coerenza interna piuttosto che sulla verifica empirica.Abbiamo riassunto il possibile
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