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Informazioni
“Le città mancate. Storia dell’abitare in Italia dal Dopoguerra al PNRR” di Paolo Rosa è un libro che scava a fondo nella storia di come l’Italia ha cercato di dare una casa ai suoi cittadini, partendo dall’emergenza del Dopoguerra. Racconta di come la fretta di ricostruire abbia spesso lasciato spazio alla speculazione edilizia, soprattutto nelle periferie, nonostante piani ambiziosi come Ina-Casa che provava a costruire edilizia residenziale pubblica per i lavoratori. Il libro segue le ondate migratorie interne, la lotta dei sindacati per il diritto alla casa, il tentativo di controllare gli affitti con l’equo canone e le riforme urbanistiche che però faticavano a limitare la rendita fondiaria. Si parla poi della gestione delle case popolari, delle dismissioni (cioè la vendita) e di come si è provato ad aiutare chi non riusciva a pagare l’affitto con fondi come il Fondo 431 o quello per i morosi incolpevoli, mostrando però i tanti problemi e ritardi. Un punto chiave è il passaggio, negli anni recenti, verso il social housing, gestito più dai privati e rivolto a una fascia di reddito intermedia, la cosiddetta “area grigia”, non sempre raggiungendo chi è più in difficoltà. Il testo analizza anche i programmi di riqualificazione urbana e come l’urbanistica sia diventata sempre più “contrattata” tra pubblico e privati, con esempi in città come Roma, Milano, Firenze e Napoli, portando spesso a un aumento del consumo di suolo e a una “rigenerazione” che è solo demolizione e ricostruzione con più cubatura, e racconta anche la storia dei fondi Gescal deviati. Infine, il libro affronta il tema delle competenze regionali nel governo del territorio dopo la riforma del Titolo V e le sfide che il PNRR pone per un futuro più sostenibile, che recuperi l’esistente invece di costruire ancora, in un quadro complesso di competenze divise e politiche non sempre coordinate.Riassunto Breve
Dopo la guerra, l’Italia deve ricostruire le case distrutte velocemente, usando piani speciali che però favoriscono chi specula sui terreni e sulle costruzioni. Le città non riescono a gestire bene questi interessi. Arriva il Piano Ina-Casa nel 1949, che vuole dare lavoro e case ai lavoratori, specialmente quelli che si spostano dal Sud. Si finanzia con i soldi di lavoratori e aziende e promuove l’idea che avere una casa propria dia libertà. Costruisce tante case, spesso fuori dalle città, curate nell’aspetto ma lontane dai servizi. Negli anni ’60 e ’70, con più gente che si sposta, il problema casa peggiora nelle città industriali. I sindacati chiedono che la casa sia un diritto per tutti, vogliono regole sugli affitti e una riforma per l’urbanistica. Ci sono tentativi di comprare terreni a prezzi bassi per costruire case popolari, ma non funzionano bene e continuano a favorire chi guadagna dai terreni. Alla fine degli anni ’70, cambiano le regole: chi costruisce deve pagare per le opere pubbliche, si mettono regole sugli affitti e si fa un piano per costruire case popolari e sistemare quelle vecchie. Ma gestire tutto è difficile, ci sono ritardi e litigi tra Stato e regioni. Negli anni dopo, sempre più persone comprano casa, mentre ci sono meno case in affitto. Le case popolari sono poche. All’inizio del 2000, nuovi programmi provano ad aiutare chi ha difficoltà a trovare casa con soldi per l’affitto, case per anziani e progetti per migliorare i quartieri, ma anche questi hanno problemi e ritardi. Programmi più recenti spingono le aziende private a costruire case “sociali” e semplificano le regole per costruire a livello regionale. Si inizia a vendere le case popolari per rendere più efficiente il patrimonio pubblico e ridurre i costi. Si vendono a prezzi bassi, legati al reddito degli inquilini o al valore catastale, per permettere a chi ci abita di comprarle e fargli gestire la manutenzione. I soldi ricavati dovrebbero servire a sistemare o comprare nuove case. Vengono messe regole più dure contro chi occupa le case senza averne diritto. Ci sono anche sconti sulle tasse per chi investe in case sociali e per chi ci abita in affitto. Si pensa di aggiornare l’elenco delle città dove è più difficile trovare casa, ma non si fa. La legge del 1998 cambia le regole sugli affitti, introducendo contratti diversi per aumentare l’offerta di case a prezzi accessibili. Crea un fondo per aiutare chi ha pochi soldi a pagare l’affitto e non ha diritto alla casa popolare. Questo fondo è importante, ma i soldi non sempre arrivano dove servono e le regioni fanno fatica a usarli. Un altro fondo aiuta chi non riesce a pagare l’affitto per motivi gravi, ma anche qui i soldi non vengono usati tutti e le procedure sono lente. La Corte dei conti dice che i fondi di aiuto non sono continui e che mancano dati aggiornati sulla situazione abitativa perché un osservatorio che doveva raccoglierli non funziona. Nonostante i problemi, negli ultimi anni ci sono più soldi per questi fondi e le procedure per usarli migliorano. La Corte consiglia di raccogliere più dati e di unire i fondi per renderli più efficaci. Dalla fine degli anni 2000, lo Stato interviene meno e si diffonde il “social housing”, gestito da privati. Questo tipo di casa si rivolge a chi ha un reddito medio, non abbastanza basso per le case popolari ma nemmeno abbastanza alto per il mercato normale. Si usano fondi di investimento che comprano case da affittare a prezzi controllati per tanti anni, con la possibilità per l’inquilino di comprarle dopo. La definizione di “alloggio sociale” arriva nel 2008 per identificare case in affitto che aiutano le famiglie in difficoltà. Però, in Italia il social housing spesso non raggiunge i più poveri e la definizione è usata in modo confuso. Ci sono tanti programmi per migliorare i quartieri e costruire case, come i “Contratti di quartiere” o i piani per recuperare case pubbliche vuote. Ma tutti questi programmi, anche se hanno tanti soldi, vanno molto a rilento e i soldi non vengono spesi. Le procedure sono complicate, le competenze sono divise tra tanti enti e la programmazione non funziona bene. Dopo una decisione di un tribunale nel 1980 che indebolisce le leggi sull’urbanistica, si diffonde l’urbanistica “contrattata”, dove le regole generali vengono sostituite da accordi tra comuni e privati. Questo sistema è criticato perché favorisce i privati e permette di cambiare i piani urbanistici. In molte città, grandi progetti privati cambiano l’aspetto urbano, spesso aumentando lo spazio costruibile per chi costruisce, anche a scapito dei servizi pubblici. Si usa la compensazione urbanistica, che permette di costruire altrove anche se un terreno è vincolato. La vicenda di uno stadio a Roma è un esempio di come l’urbanistica contrattata crei grandi volumi non necessari e problemi legali. Il concetto di “rigenerazione urbana” spesso significa solo demolire e ricostruire con più spazio, anche in zone protette, superando i limiti che i tribunali avevano messo. Questo favorisce le costruzioni ma non protegge il paesaggio e la storia. Intanto, i soldi del Gescal, che dovevano servire per le case popolari, sono stati usati dallo Stato e dalle regioni per altre cose, anche se i tribunali dicevano che non si poteva fare. Tante regioni hanno usato questi soldi per sanità o trasporti, lasciando somme enormi ferme, mentre servono case popolari. La riforma della Costituzione ha dato più potere alle regioni sull’urbanistica, chiamata “governo del territorio”. Lo Stato ha mantenuto poche competenze, come i principi generali e la gestione del paesaggio. Questa divisione ha creato regole diverse tra le regioni, spesso fatte per facilitare gli interessi privati e aumentare lo spazio costruibile, consumando terreni non costruiti. Solo una regione ha messo regole per non costruire più fuori dalle aree già urbanizzate. La politica italiana è debole perché manca una visione unica e non c’è coordinamento tra i diversi livelli di governo. Anche i ministeri centrali cambiano spesso e gli organi tecnici che dovrebbero dare consigli vengono messi da parte. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) mette tanti soldi per infrastrutture e trasporti sostenibili, chiedendo progetti attenti all’ambiente. Ma per realizzarli bisogna superare la burocrazia e serve che lo Stato torni ad avere un ruolo più forte per coordinare le politiche, garantire servizi uguali per tutti e promuovere il recupero delle città e degli edifici esistenti, fermando il consumo di suolo e l’eccessivo turismo nei centri storici. È importante recuperare gli edifici abbandonati e costruire in modo sostenibile per uno sviluppo equilibrato.Riassunto Lungo
1. La casa in Italia: Intervento pubblico e dinamiche di mercato
Subito dopo la guerra, l’Italia affronta un’emergenza: servono case per chi le ha perse e bisogna far ripartire l’economia. Per questo, si creano piani speciali per la ricostruzione che permettono di fare in fretta, anche mettendo da parte la legge sull’urbanistica del 1942. Questo modo di agire, però, finisce per favorire chi specula sui terreni e sulle costruzioni. Spesso, i comuni non riescono a gestire gli interessi legati al mercato immobiliare.Il Piano Ina-Casa per lavoro e abitazioni
Nel 1949 nasce il Piano Ina-Casa. L’obiettivo è doppio: dare lavoro e fornire un tetto ai lavoratori, molti dei quali si spostano dal Sud verso il Nord. Questo piano viene finanziato anche grazie ai contributi di lavoratori e datori di lavoro. L’idea alla base è che avere una casa di proprietà dia sicurezza e libertà. Il piano costruisce molte abitazioni, spesso nelle zone periferiche delle città. Anche se l’architettura è curata, questi nuovi quartieri si ritrovano spesso lontani dai centri e senza i servizi necessari.Le sfide degli anni ’60 e ’70
Tra gli anni ’60 e ’70, sempre più persone si spostano all’interno dell’Italia, e trovare una casa nelle città industriali diventa ancora più difficile. I sindacati iniziano a chiedere che la casa sia considerata un diritto per tutti e spingono per una politica più organizzata. Chiedono anche regole più precise sugli affitti (l’equo canone) e un cambiamento nelle leggi urbanistiche. Ci sono tentativi di fare leggi per comprare terreni a prezzi più bassi (come la legge 167), ma incontrano molti ostacoli dalla politica e limiti legali. Questo fa sì che chi possiede i terreni continui a guadagnarci molto.Le riforme di fine anni ’70
Verso la fine degli anni ’70, vengono introdotte nuove regole. Si stabilisce che chi costruisce debba contribuire alle opere per la città (come strade e servizi). Vengono definite meglio le norme sugli affitti e viene avviato un piano decennale per costruire case popolari e recuperare quelle già esistenti. Tuttavia, gestire tutto questo si rivela complicato, con ritardi e disaccordi tra il governo centrale e le regioni.Gli sviluppi successivi
Negli anni seguenti, sempre più italiani riescono a comprare casa. Allo stesso tempo, però, diminuiscono le case disponibili in affitto. Le case popolari costruite dallo Stato rimangono poche rispetto al bisogno. All’inizio degli anni 2000, partono nuovi progetti per aiutare chi ha difficoltà a pagare l’affitto, creare alloggi per gli anziani e migliorare i quartieri più vecchi. Anche questi programmi, però, incontrano problemi di finanziamento e subiscono ritardi. Più di recente, si è cercato di promuovere la costruzione di case accessibili da parte di privati e le regioni hanno introdotto regole edilizie meno rigide.Se l’obiettivo dichiarato era garantire una casa per tutti, perché il capitolo descrive un susseguirsi di politiche che sembrano invece aver favorito la speculazione e lasciato ampie fasce della popolazione senza risposte?
Il capitolo elenca una serie di interventi e le loro difficoltà, ma non scava a fondo nelle ragioni strutturali o nelle dinamiche di potere che hanno costantemente vanificato gli obiettivi dichiarati di equità e diritto alla casa. Per comprendere veramente perché l’intervento pubblico non sia riuscito a domare le dinamiche speculative del mercato, sarebbe necessario approfondire la storia economica e politica dell’Italia repubblicana, analizzando il ruolo dei diversi attori sociali e le resistenze politiche alle riforme. Utile sarebbe consultare studi di storici dell’economia o sociologi urbani che hanno analizzato le forze in gioco nella pianificazione e nello sviluppo urbano del dopoguerra.2. La Casa Pubblica tra Dismissioni e Sostegni Fragili
Il decreto 47 introduce importanti modifiche per la casa pubblica, puntando a un uso più integrato delle risorse disponibili. Permette la creazione di agenzie o fondi di garanzia che facilitano la locazione, offrendo nuove forme di supporto per l’accesso all’abitazione. Il decreto innova anche il modo in cui viene gestito il patrimonio residenziale pubblico, stabilendo procedure diverse per la vendita degli alloggi sovvenzionati rispetto alle leggi precedenti. L’obiettivo principale di queste misure è rendere più efficiente la gestione del patrimonio abitativo pubblico e ridurre i costi che gravano sugli enti locali, cercando al contempo di proteggere i diritti di chi già vive in queste case.La Vendita degli Alloggi Pubblici
La decisione di vendere le case popolari nasce dalla volontà di liberarsi di beni che non generano entrate e che, anzi, richiedono continue spese per la manutenzione ordinaria e straordinaria e per coprire i casi di affitti non pagati. Si propone di vendere questi alloggi a prezzi che tengano conto del reddito degli inquilini, calcolati prendendo come riferimento venti anni di affitto capitalizzato. Questo sistema permette ad alcuni inquilini di diventare proprietari pagando cifre contenute o accendendo mutui con rate simili all’affitto che già pagavano, liberando così le regioni dall’onere di coprire i deficit degli enti che gestiscono le case. La visione alla base di questa scelta è superare il modello in cui tutto è gestito dal pubblico, affidando la manutenzione e la cura degli immobili ai nuovi proprietari.Un decreto del 2015 ha definito nel dettaglio le procedure per queste vendite. L’attenzione è rivolta in particolare agli alloggi che si trovano all’interno di condomini dove vivono anche proprietari privati, o a quelli situati fuori dalle zone dedicate all’edilizia popolare, e ancora a quelli che presentano costi di manutenzione particolarmente elevati. Il prezzo di vendita viene stabilito partendo dalla rendita catastale dell’immobile e applicando una riduzione che dipende da quanto tempo l’alloggio è stato costruito. I soldi ottenuti da queste vendite devono essere obbligatoriamente reinvestiti per recuperare o acquistare nuove case popolari. Fino al 2020, sono stati venduti circa 30.000 alloggi pubblici.Contrasto alle Occupazioni Abusive
Il decreto 47 affronta anche il problema delle occupazioni senza titolo degli alloggi pubblici. Per chi occupa abusivamente una casa, la legge prevede conseguenze dirette: non è possibile ottenere la residenza in quell’immobile, né richiedere gli allacci ai servizi essenziali come luce, acqua e gas. Inoltre, chi si rende responsabile di un’occupazione abusiva viene escluso per cinque anni dalla possibilità di partecipare ai bandi pubblici per l’assegnazione di una casa popolare.Agevolazioni Fiscali e Investimenti nel Sociale
Per incentivare gli investimenti nel settore degli alloggi sociali e per sostenere chi ci vive, sono state introdotte specifiche agevolazioni fiscali. Per i privati che investono in questo tipo di abitazioni, i redditi derivanti non vengono considerati reddito d’impresa e sono previste condizioni agevolate per un eventuale riscatto dell’immobile. Per gli inquilini che vivono in alloggi sociali, sono riconosciute detrazioni dall’Irpef che variano in base al loro reddito. Esiste anche la possibilità di considerare una parte dell’affitto pagato come un anticipo sul prezzo nel caso in cui l’inquilino decida in futuro di acquistare l’alloggio.Il Mercato degli Affitti e il Fondo Nazionale
La legge 431 del 1998 ha rappresentato un punto di svolta per il mercato delle locazioni in Italia. Ha introdotto due tipi principali di contratti di affitto: quello a canone libero, con una durata di quattro anni più quattro di rinnovo automatico (4+4), e quello a canone concordato, con una durata di tre anni più due (3+2). L’obiettivo di questa riforma era aumentare la disponibilità di case in affitto a prezzi più accessibili per le famiglie. La stessa legge ha istituito il Fondo nazionale di sostegno per l’accesso alle abitazioni in locazione. Questo fondo fornisce un aiuto economico diretto agli inquilini che hanno un reddito basso e che, pur avendo difficoltà a pagare l’affitto, non rientrano nei requisiti per ottenere una casa popolare. La creazione di questo fondo ha segnato un cambiamento di prospettiva, riconoscendo che la soluzione al disagio abitativo non risiede più esclusivamente nella costruzione di nuove case pubbliche. Le risorse destinate a questo fondo sono state significative nel corso del tempo (3.49 miliardi di euro tra il 1998 e il 2020), ma si è osservata una tendenza alla diminuzione e una difficoltà da parte delle regioni nel trasferire efficacemente i fondi ai comuni.Il Fondo Inquilini Morosi Incolpevoli
Un altro strumento importante è il Fondo inquilini morosi incolpevoli, creato con lo scopo di prevenire gli sfratti che avvengono a causa di difficoltà economiche non dipendenti dalla volontà dell’inquilino (come la perdita del lavoro o gravi malattie). Nonostante i finanziamenti stanziati, un monitoraggio condotto tra il 2014 e il 2018 ha mostrato che le risorse a disposizione a livello regionale sono state spesso sottoutilizzate. Le procedure per accedere al fondo, come la pubblicazione di avvisi pubblici, si sono rivelate lente e complesse. L’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha portato a un ampliamento della platea dei possibili beneficiari di questo fondo.Criticità Rilevate e Prospettive
La Corte dei conti, in un’analisi del 2020, ha messo in luce alcune criticità del sistema di sostegno abitativo. Tra queste, la discontinuità nell’erogazione dei fondi destinati agli inquilini e il mancato aggiornamento dell’elenco dei comuni considerati ad alta tensione abitativa, dove la ricerca di una casa è particolarmente difficile. La Corte ha anche sottolineato come la mancata piena attivazione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione abitativa, uno strumento previsto fin dal 1998 per raccogliere dati e orientare le politiche, limiti la capacità di comprendere a fondo il disagio abitativo e di rispondere in modo efficace. L’Osservatorio è stato formalmente istituito ma non ha mai avuto risorse adeguate ed è stato successivamente soppresso.Nonostante queste criticità, si registrano anche segnali positivi negli ultimi anni. Si è assistito a un aumento dei finanziamenti sia per il Fondo nazionale di sostegno (legge 431) che per il Fondo morosi incolpevoli. Sono state migliorate le procedure per la ripartizione e la spesa dei fondi, permettendo alle regioni di utilizzare risorse non spese per altre iniziative abitative e accelerando i trasferimenti di denaro ai comuni. La Corte dei conti ha raccomandato di migliorare la raccolta dei dati, anche attraverso una possibile riattivazione dell’Osservatorio. L’unificazione dei due principali fondi di sostegno e una revisione dei criteri per accedervi sono considerate misure necessarie per rendere l’aiuto agli inquilini più efficace e semplice da gestire.Ma questi ‘sostegni fragili’, tra fondi sottoutilizzati e osservatori inesistenti, servono davvero a garantire il diritto all’abitare o sono solo un palliativo burocratico?
Il capitolo descrive diverse misure di sostegno e le loro criticità, ma non approfondisce le cause sistemiche di tali inefficienze né esplora alternative concrete. Per valutare se queste politiche siano efficaci o puramente cosmetiche, sarebbe utile esaminare più a fondo l’economia politica dell’abitare, la storia del ridimensionamento del welfare state e confrontare le politiche abitative con quelle di altri paesi. Discipline come la sociologia urbana, la scienza politica e l’economia possono offrire strumenti di analisi. Autori che hanno studiato criticamente il diritto alla casa e le politiche abitative, come Stefano Rodotà o Saskia Sassen, possono fornire spunti preziosi.3. Politiche abitative: tra nuove definizioni e vecchi problemi
Dalla fine degli anni Duemila, lo Stato ha ridotto il suo intervento nel settore delle case popolari. Al suo posto è emerso il “social housing”, gestito da soggetti privati. Questo nuovo modello si rivolge a persone e famiglie che hanno un reddito troppo alto per accedere all’edilizia pubblica tradizionale, ma che faticano a permettersi una casa sul mercato privato. Si tratta della cosiddetta “area grigia”, una fascia intermedia della popolazione che si trova in difficoltà abitativa. Per realizzare il social housing, si usano strumenti finanziari come i fondi immobiliari. Questi fondi investono nella costruzione o ristrutturazione di alloggi che vengono poi affittati a canoni più bassi rispetto al mercato, spesso per un lungo periodo, come 25 anni. In alcuni casi, chi affitta ha anche la possibilità di acquistare l’alloggio a condizioni agevolate.Che cos’è l’alloggio sociale
Nel 2008 è stata data una definizione ufficiale di “alloggio sociale”. Si tratta di case in affitto permanente che hanno uno scopo di interesse generale: aiutare le famiglie in difficoltà abitativa. Questa definizione include sia gli alloggi costruiti con aiuti pubblici destinati all’affitto o alla vendita a prezzi calmierati, sia altre forme di abitare sociale. Tuttavia, in Italia, il social housing si è spesso concentrato proprio su quella fascia intermedia di cui parlavamo prima, senza riuscire a dare risposte concrete alle situazioni di povertà più grave. Il termine “social housing” viene usato in modo un po’ confuso, a volte come sinonimo di edilizia residenziale pubblica o privata con finalità sociali, senza avere criteri chiari su chi ne ha diritto e su quanto deve costare l’affitto.I programmi per affrontare il disagio abitativo
Per cercare di migliorare la situazione e aumentare la disponibilità di case a prezzi accessibili, sono stati lanciati diversi programmi da parte del governo. I “Contratti di quartiere”, attivi dal 1997, puntano a riqualificare zone degradate delle città, combinando lavori sugli edifici con interventi sociali e chiedendo la partecipazione degli abitanti. Il “Programma di riqualificazione urbana per alloggi a canone sostenibile”, dal 2008, vuole incentivare l’offerta di case in affitto a prezzi accessibili e migliorare i servizi nei quartieri. C’è anche il “Programma di recupero degli alloggi di comuni ed ex Iacp”, dal 2014, che cerca di rendere disponibili le case popolari vuote attraverso lavori di manutenzione. Infine, il “Programma innovativo per la qualità dell’abitare”, lanciato nel 2020, promuove la costruzione di nuove case popolari nelle aree periferiche.Nonostante queste iniziative e le notevoli somme di denaro messe a disposizione, i programmi per riqualificare le città e aumentare le case popolari incontrano grandi difficoltà. Ci sono forti ritardi nella loro realizzazione e una parte consistente dei fondi stanziati non viene utilizzata. Le ragioni di questi problemi sono diverse: le procedure burocratiche sono complicate, le responsabilità sono divise tra troppi enti diversi (sia a livello centrale che locale), e la pianificazione non è sempre efficace. Sia la Corte dei conti che una Commissione parlamentare hanno messo in luce queste criticità, sottolineando come sia necessario un approccio più unito e coordinato per affrontare davvero il problema della mancanza di case e del degrado nelle città.Se “pianificar facendo” porta solo a volumi edificabili per i costruttori e mancanza di servizi, si tratta ancora di pianificazione o di semplice deregolamentazione a favore di pochi?
Il capitolo solleva un punto cruciale sulla natura della pianificazione urbana contemporanea in Italia. L’idea di “pianificar facendo”, così come descritta, sembra svuotare il concetto stesso di pianificazione di interesse pubblico, riducendolo a una gestione negoziata degli interessi privati che, secondo il capitolo, porta a squilibri e carenze. Per comprendere meglio questa trasformazione, è utile approfondire la storia del diritto urbanistico italiano, l’evoluzione delle teorie della pianificazione (dalla pianificazione comprensiva agli approcci negoziali) e l’analisi critica dei processi decisionali urbani. Autori che si sono occupati di queste tematiche, come Bernardo Secchi o Stefano Boeri, possono offrire diverse prospettive. Anche lo studio delle sentenze della Corte costituzionale e della Corte dei conti citate nel capitolo è fondamentale.5. Urbanistica Italiana: Competenze Contese e Sostenibilità Mancata
Le Competenze Cambiate e le Loro Conseguenze
La riforma del Titolo V della Costituzione ha modificato profondamente chi decide in materia di urbanistica, che ora viene chiamata “governo del territorio”. Gran parte del potere di fare leggi è passato alle regioni. Lo Stato ha mantenuto un ruolo più limitato, definendo solo i principi fondamentali e gestendo le grandi infrastrutture di interesse nazionale e aree importanti come il paesaggio. Questo cambiamento ha creato una situazione in cui ogni regione ha le sue regole, che spesso sono diverse tra loro. Queste leggi regionali sono state spesso pensate per rendere più facile per i privati costruire, usando procedure semplificate e permessi speciali che non rispettano i piani urbanistici esistenti. Questo modo di fare è evidente nelle leggi di regioni come Lombardia, Lazio e Sardegna (anche se quella sarda è stata in parte giudicata non conforme alla Costituzione). Questi approcci portano a costruire di più e a usare terreno che prima non era edificato. Un’eccezione positiva è la legge della Toscana, che non permette di costruire nuove case o edifici dove il territorio non è già urbanizzato.La Debolezza della Politica Generale
La politica pubblica in Italia mostra una sua debolezza generale. Manca una visione chiara e unica per come dovrebbe svilupparsi il territorio nel suo complesso. C’è anche una grande difficoltà a far lavorare insieme i diversi livelli di governo, come Stato, regioni e comuni. Questa mancanza di coordinamento si vede anche nel modo in cui i ministeri centrali, come quello dei lavori pubblici, vengono spesso riorganizzati, a volte senza portare a miglioramenti concreti. Anche il ruolo di esperti tecnici importanti, come il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, è stato ridotto e a volte questi organi vengono messi da parte quando si devono prendere decisioni su grandi progetti.Il Futuro: PNRR e la Necessità di Cambiamento
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) mette a disposizione molte risorse economiche per migliorare le infrastrutture e promuovere una mobilità più rispettosa dell’ambiente. Questo richiede un nuovo modo di pensare e realizzare i progetti, tenendo conto dei principi ambientali e di come riutilizzare i materiali. Tuttavia, la buona riuscita di questi piani dipende anche dalla capacità di superare gli ostacoli burocratici che rallentano i processi. Serve che lo Stato torni ad avere un ruolo più forte per coordinare le diverse politiche e garantire che i servizi essenziali siano disponibili allo stesso modo in tutto il paese. È fondamentale promuovere il recupero delle aree urbane già costruite e usare in modo intelligente gli edifici che esistono già. Questo significa anche fermare l’uso di nuovo terreno non costruito e contrastare la trasformazione eccessiva dei centri storici che diventano solo mete turistiche. Recuperare gli edifici abbandonati e usare tecniche di costruzione che rispettano l’ambiente e il clima sono passi essenziali per uno sviluppo equilibrato e capace di affrontare le sfide future.Come può uno Stato ‘più forte’, invocato come soluzione, agire efficacemente nel ‘governo del territorio’ dopo aver ceduto gran parte del potere legislativo alle regioni con la riforma del Titolo V?
Il capitolo identifica correttamente la frammentazione normativa post-Titolo V come causa di problemi nel “governo del territorio”. Tuttavia, la proposta di un ritorno a uno Stato “più forte” per coordinare e garantire servizi uniformi non chiarisce come ciò sia realizzabile nel quadro costituzionale attuale, che ha devoluto ampie competenze legislative alle regioni. Si crea una potenziale contraddizione tra l’analisi delle cause (decentramento) e la soluzione proposta (forte coordinamento statale o implicita ricentralizzazione), senza esplorare le vie legali e politiche per attuare tale coordinamento o per superare la frammentazione. Per comprendere meglio questa tensione, è utile approfondire il dibattito sul federalismo e il regionalismo in Italia post-riforma del Titolo V. È fondamentale studiare il diritto costituzionale e amministrativo per capire i limiti e le possibilità di intervento statale nelle materie di competenza regionale. Autori come Sabino Cassese hanno analizzato a fondo le dinamiche della pubblica amministrazione e i rapporti tra i diversi livelli di governo in Italia.Abbiamo riassunto il possibile
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