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“L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo” di Massimo Salvadori ci porta nell’Italia e nell’Europa del primo dopoguerra, un periodo di grandi speranze rivoluzionarie dopo la Rivoluzione Russa e il biennio rosso, ma anche di forte reazione e crisi delle democrazie liberali. Al centro di tutto c’è Giacomo Matteotti, una figura chiave del socialismo riformista italiano, che capisce subito i limiti dell’estremismo e la pericolosità crescente del fascismo. Il libro racconta la sua lotta per l’unità dei lavoratori, la difesa della democrazia e l’importanza dell’istruzione, in un paese dove il fascismo, appoggiato da poteri forti, usa la violenza organizzata per distruggere le organizzazioni operaie nel biennio nero. Vediamo Matteotti opporsi alle divisioni interne alla sinistra, criticare sia i massimalisti che i comunisti per la loro visione dittatoriale, e cercare un fronte unito antifascista per difendere le libertà fondamentali. La narrazione culmina con le elezioni truccate del 1924, la sua coraggiosa denuncia in Parlamento dei brogli e della violenza fascista, e il tragico delitto Matteotti che, pur scatenando una crisi politica, non ferma l’ascesa di Mussolini e il consolidamento della dittatura fascista. Il libro esplora anche come la figura di Matteotti, simbolo dell’antifascismo e del socialismo riformista, sia stata poi in parte dimenticata o interpretata diversamente dalla sinistra italiana nel dopoguerra. È una storia potente sul coraggio civile, la difesa della democrazia e le complessità della lotta politica in uno dei momenti più bui della storia italiana.Riassunto Breve
Dopo la Prima Guerra Mondiale, in Europa si diffonde un’idea di rivoluzione, spinta dalla Russia e dalle proteste del “biennio rosso”. Molti pensano che il sistema economico capitalista stia per finire, ma non è così. Il capitalismo esce dalla guerra più forte, mentre i sistemi politici basati sulla libertà e sulla democrazia si indeboliscono.In paesi come l’Italia, nonostante scioperi e disordini, la rivoluzione non avviene. I lavoratori hanno qualcosa da perdere e non vogliono rischiare tutto. I partiti socialisti che non vogliono una dittatura mantengono il sostegno degli operai, mentre i nuovi partiti comunisti restano piccoli. Lo Stato, con l’esercito e la polizia, rimane forte.In Italia, il Partito Socialista ha successo ma non è pronto a usare la forza e si limita a sostenere molti scioperi, una “scioperomania”. Anche quando i comunisti si separano, la sinistra resta debole militarmente. Questa debolezza permette al fascismo, un movimento nato da poco, di usare la violenza in quello che viene chiamato il “biennio nero” (1921-1922). Le squadre fasciste, aiutate da esercito, polizia, giudici, grandi proprietari terrieri, industriali, Chiesa e politici moderati, distruggono le organizzazioni dei lavoratori e dei socialisti. Nel 1922, il re dà il potere a Mussolini. L’idea di una rivoluzione veloce si dimostra un’illusione.La sconfitta delle forze che volevano cambiare tutto è dovuta anche alla loro divisione: alcuni vogliono migliorare la democrazia (riformisti), altri vogliono la dittatura dei lavoratori (massimalisti e comunisti). Questa divisione facilita la risposta delle forze conservatrici e l’arrivo di governi autoritari di destra.Giacomo Matteotti, un socialista riformista, capisce che l’estremismo è debole e il fascismo è pericoloso. Lotta per migliorare la vita dei lavoratori e per i valori democratici, rifiutando ogni dittatura. La sua posizione ferma contro la guerra e il fascismo lo porta a essere ucciso nel 1924. Questo omicidio segna il momento più duro per la sinistra italiana. Matteotti rappresenta un modo di fare politica riformista che è attivo e pronto a lottare se serve per il progresso, ma lontano dalle parole vuote e dalla “scioperomania”. La sua idea di democrazia e socialismo riformista è difficile da accettare per gran parte della sinistra italiana dopo la sua morte.Matteotti insiste sull’importanza di tenere uniti i lavoratori e il partito, anche quando la maggioranza socialista aspetta la rivoluzione. Crede che la forza socialista cresca quando il capitalismo è in difficoltà, ma che la rivoluzione richieda impegno e che i lavoratori debbano partecipare in modo consapevole, non essere guidati da pochi in una dittatura. Critica sia chi aspetta aiuti dal governo attuale sia chi li aspetta da un futuro governo rivoluzionario. Dopo l’occupazione delle fabbriche nel 1920, nota che molti si avvicinano al socialismo per interesse, non per una vera convinzione.È contrario alla separazione dei comunisti dal Partito Socialista nel 1921, pensando che l’unità sia fondamentale. Crede che il socialismo si costruisca formando le coscienze, non solo prendendo il potere con la forza. Critica i massimalisti per voler cacciare i riformisti, creando divisioni inutili.Nel 1921, il fascismo diventa un partito con una sua forza armata usata contro i lavoratori e il parlamento. Nel 1922, i fascisti diventano più forti con violenze che i giudici e la corte sembrano accettare. Distruggono le sedi dei partiti contrari e delle organizzazioni dei lavoratori senza essere puniti.Matteotti è scoraggiato dalla situazione e dalla mancanza di aiuto. La crisi dello Stato liberale peggiora nell’ottobre 1922. Al congresso socialista, i riformisti, tra cui Matteotti, vengono espulsi. Fondano un nuovo partito, il Partito Socialista Unitario (PSU), con Matteotti come segretario.All’inizio, Matteotti loda la democrazia e spera nell’aiuto di alcuni borghesi democratici, ma poi capisce che i partiti borghesi hanno abbandonato la democrazia. Invita i lavoratori a restare uniti. Nonostante sia isolato e criticato da fascisti, massimalisti e comunisti, propone un’alleanza di tutti quelli che sono contro il fascismo per difendere le libertà democratiche, non per fare una rivoluzione. Dice di essere per la lotta tra classi ma non per la guerra tra classi, accettando la collaborazione tra gruppi diversi.Nel 1923, incoraggia a resistere alla violenza fascista. Nel 1924, lamenta l’inattività nel suo partito ma continua a lottare. Cerca un’ampia alleanza contro il fascismo. Pensa che la cosa più importante sia riavere le libertà democratiche. Non vuole accordi con i comunisti perché, come i fascisti, vogliono una dittatura che toglie le libertà. Dice che il suo partito è per la libertà di tutti e le decisioni prese dalla maggioranza, mentre i comunisti sono per la dittatura di pochi. Crede che fascismo e comunismo si somiglino e si giustifichino a vicenda. Cerca invece un accordo con i massimalisti, pensando che le loro differenze siano meno importanti di fronte al nemico fascista.Le elezioni del 6 aprile 1924 sono piene di violenze e imbrogli fascisti. Il PSU ottiene più voti degli altri partiti di sinistra divisi. Il 30 maggio 1924, Matteotti denuncia in Parlamento che le elezioni non sono valide per colpa della violenza fascista. Dice che il governo non rispetta il voto e si basa sulla forza di un gruppo armato di partito. Chiede di annullare le elezioni e difende la libertà del popolo italiano di scegliere. Dopo il discorso, sapendo di essere in pericolo, dice che ha fatto il suo dovere e che i suoi amici devono preparare il suo funerale. Mussolini reagisce con rabbia.L’uccisione di Matteotti il 10 giugno 1924 da parte di persone legate al fascismo causa una grave crisi politica. Il ritrovamento del corpo dopo due mesi provoca indignazione. Alcuni ministri si dimettono. Mussolini nega di essere responsabile e promette indagini, ma la polizia agisce lentamente e sembra voler nascondere le cose. Le opposizioni non riescono a usare la crisi per agire, si limitano a protestare moralmente. Sperano nel re, ma lui non fa nulla contro Mussolini. Anche il Vaticano lo appoggia. I politici moderati hanno paura di proteste di massa. Il Parlamento vota la fiducia al governo.Le opposizioni si ritirano dal Parlamento in segno di protesta, ma questo gesto non porta a risultati concreti. Vedendo la debolezza degli oppositori, Mussolini supera la crisi interna e il 3 gennaio 1925 dice in Parlamento che si prende la responsabilità di quello che è successo, affermando che la forza è necessaria quando la lotta è inevitabile. Questo discorso segna la fine dello Stato liberale e l’inizio della dittatura con le “leggi fascistissime”.Matteotti, prima di morire, analizza il fascismo come un’organizzazione violenta e organizzata, sostenuta da chi ha potere economico e politico. Non lo vede come una semplice reazione, ma come un attacco organizzato. Crede che i socialisti debbano cercare alleanze democratiche o prepararsi a lottare direttamente contro il fascismo. Critica chi giustifica la violenza fascista. Con analisi economiche, dimostra che la ripresa economica non è merito del governo fascista, che anzi peggiora la situazione dei lavoratori. Vede le origini del fascismo in un tipo di estremismo italiano a cui i socialisti unitari si sono sempre opposti.L’istruzione è molto importante per Matteotti. La scuola deve preparare i giovani al lavoro ma soprattutto a capire la società e a decidere da soli, anche in politica. Combatte l’analfabetismo. Migliorare la cultura dei lavoratori con l’istruzione è fondamentale per lui, per trasformarli in cittadini consapevoli dei loro diritti. Senza istruzione, le masse possono ribellarsi senza capire, dando scuse per essere repressi. L’impegno per la scuola è concreto, visto come una questione di giustizia sociale. L’istruzione è uno strumento per liberare le persone e far nascere una coscienza di gruppo, necessaria per un mondo migliore. Matteotti costruisce scuole, asili, biblioteche e aiuta insegnanti e studenti. Critica le idee astratte sulla scuola e la poca concretezza dei socialisti su questo tema. Denuncia le università di basso livello e la preparazione superficiale. Pensa che gli studi superiori debbano essere per chi ha intelligenza e volontà, non per chi ha soldi. Difende la libertà di insegnamento e di cultura contro le interferenze, criticando la riforma del 1923 che impone l’insegnamento religioso cattolico e un giuramento politico agli insegnanti, eliminando la scuola laica.L’omicidio di Matteotti causa grande dolore, soprattutto alla moglie Velia. L’evento ha un forte impatto in tutto il mondo, rendendo Matteotti un simbolo contro il fascismo. La sua morte spinge persone come Salvemini a tornare a fare politica contro il regime. Molti mostrano solidarietà a Velia, riconoscendo il valore di Matteotti. Il suo nome diventa importante nella lotta antifascista. Il processo contro gli assassini nel 1926 è una farsa: i colpevoli ricevono pene leggere e vengono presto liberati grazie a un perdono generale. Velia viene controllata dalla polizia fascista per impedirle di andare all’estero e diventare un punto di riferimento per l’opposizione internazionale.Dopo la sua morte, i leader socialisti e comunisti giudicano Matteotti in modi diversi. Turati lo vede come un eroe e un simbolo. Gramsci lo critica, dicendo che la sua fine dimostra che il riformismo non funziona e non capisce che serve la rivoluzione guidata dai comunisti. Longo pensa lo stesso. Nenni cambia idea nel tempo: all’inizio lo considera un combattente, poi, influenzato dall’alleanza con i comunisti, critica il suo riformismo per non aver capito come funziona lo Stato, pur riconoscendo il suo coraggio.Gobetti ammira molto Matteotti, descrivendolo come una persona ferma e sola, un “aristocratico” che non sopporta la demagogia. Gobetti loda la sua concretezza nell’azione politica e il suo legame con i lavoratori, ma non analizza a fondo il suo “riformismo rivoluzionario”. Presenta Matteotti quasi come un’eccezione nel suo partito.Nell’Italia dopo la guerra, la memoria di Matteotti viene rispettata formalmente ma non valorizzata dalla sinistra più forte, dominata dai comunisti e dai socialisti di Nenni. Un partito nato da una divisione, il Partito Socialdemocratico Italiano (Psdi), rivendica l’eredità di Matteotti. Il Partito Comunista e il Partito Socialista non lo considerano un punto di riferimento importante, perché lui criticava duramente i comunisti e loro dipendevano dall’Unione Sovietica. L’idea di Gramsci su Matteotti come un fallimento rimane.Si verifica una specie di “dimenticanza” della tradizione riformista di Matteotti. Progetti per pubblicare i suoi scritti non trovano interesse. Il suo “riformismo rivoluzionario”, inteso come un’azione concreta e decisa per gli interessi dei lavoratori contro i potenti, diverso sia dal riformismo moderato che dall’estremismo, resta in gran parte non capito e senza persone che lo seguano, anche in tempi in cui tutti i partiti dicono di essere riformisti.Le elezioni del 1924 non sono libere. I candidati che si oppongono al fascismo non possono fare discorsi o muoversi liberamente. In molte zone, impediscono con la forza di raccogliere le firme per presentare le liste. I rappresentanti dei partiti di minoranza non possono controllare i seggi elettorali, che sono pieni di fascisti. Il voto viene controllato, a volte usando trucchi per sapere chi vota cosa, o raccogliendo i documenti per far votare più volte le stesse persone. Chi non vota come vuole il partito dominante viene punito.Giacomo Matteotti, in Parlamento, denuncia queste violenze e chiede di annullare le elezioni. Già prima del suo discorso, riceve minacce di morte. Dopo il discorso, le minacce aumentano, anche sui giornali vicini al governo.Il 10 giugno, Matteotti viene rapito e ucciso. L’auto usata è affittata per conto del Ministero dell’Interno. Gli aggressori sono legati a gruppi fascisti, in particolare a un’organizzazione che lavora dal Viminale e a un giornale finanziato con soldi poco chiari. Questi gruppi usano la violenza per scopi politici e si occupano anche di affari sporchi.Dopo l’omicidio, la polizia agisce lentamente e sembra voler nascondere i fatti. Vengono arrestate alcune persone coinvolte direttamente nell’uccisione e figure importanti legate all’organizzazione fascista sono costrette a lasciare i loro incarichi. Tuttavia, l’indagine sembra limitata per proteggere persone potenti.L’omicidio provoca una forte reazione nell’opinione pubblica e all’estero. I partiti che si oppongono decidono di non partecipare più ai lavori del Parlamento. Il governo fascista cerca di gestire la crisi, ma ci sono tensioni tra i capi fascisti. Per mostrare forza, il regime mobilita le milizie fasciste in diverse città, ma questo aumenta la tensione. Il potere del governo si basa sull’equilibrio tra l’apparire come chi mantiene l’ordine e il mantenere la minaccia della violenza.La violenza fascista non è solo una risposta a episodi di violenza dei lavoratori. La classe ricca ha già strumenti legali come leggi, polizia e prigioni, usati in passato contro i lavoratori. La violenza fascista, organizzata e illegale, serve invece a un interesse preciso della classe capitalista, soprattutto quella legata alla terra, che è la parte più vecchia della borghesia. Questa violenza serve a proteggere i guadagni immediati, anche negando i diritti fondamentali dei lavoratori.L’obiettivo non è fermare singoli atti violenti, ma negare ai lavoratori il diritto di organizzarsi e di scioperare. Quando la libertà economica aiutava la borghesia, era esaltata; ora che l’organizzazione dei lavoratori riduce i profitti, la libertà viene negata con la violenza. Il fascismo nasce e cresce dove il capitalismo si sente minacciato economicamente.Il governo non è neutrale, ma aiuta questa violenza. Mentre giudici e polizia perseguono i lavoratori anche per colpe non dirette, le autorità non agiscono contro le organizzazioni fasciste armate che minacciano e usano violenza. Carabinieri e funzionari pubblici mostrano tolleranza o aiutano apertamente le azioni fasciste.Il socialismo, pur condannando gli atti di violenza che danneggiano la sua causa e invitando i lavoratori a mantenere la calma e a lottare in modo civile, deve affrontare questo attacco organizzato. C’è un limite alla pazienza e all’autorità del partito sulle masse esasperate. Continuare questa “piccola controrivoluzione” che toglie i diritti e le conquiste dei lavoratori rischia di portare il Paese alla guerra civile.A livello internazionale, il socialismo è contro i nazionalismi che causano guerre e sfruttamento tra i popoli. Promuove l’unione tra i lavoratori di tutto il mondo e vuole una convivenza pacifica tra le nazioni, favorendo la creazione di organizzazioni internazionali. L’obiettivo è portare la classe lavoratrice al potere per garantire la pace universale e il benessere di tutti i lavoratori, difendendo allo stesso tempo la nazione e i diritti conquistati se minacciati dall’esterno.Una direttiva da Mosca stabilisce che i partiti socialisti devono cambiare nome in Partito Comunista e adottare un nuovo programma. Questa decisione dice che i vecchi partiti socialisti hanno tradito la classe operaia.Ci si chiede chi stia veramente abbandonando l’ideale socialista. Non sono quelli che restano fedeli all’idea originale del socialismo. Questi ultimi dicono di non aver mai tradito la causa dei lavoratori, essendo rimasti uniti a livello internazionale anche durante la guerra, quando altri erano incerti. Si sostiene che chi non è più socialista dovrebbe lasciare il partito.Dentro il partito, non ci sono mai state divisioni basate sulle idee, ma si è sempre data importanza all’azione concreta. Si è sempre lavorato con fedeltà, rispettando le decisioni della maggioranza, anche quando era massimalista. Si è lottato per l’ideale socialista completo anche quando altri erano meno attivi.Si mette in dubbio se sia il momento giusto per fare la rivoluzione, considerando che molte persone si sono avvicinate al socialismo più per motivi legati alla guerra o per interesse personale che per una vera convinzione. Si dichiara obbedienza agli ordini della maggioranza riguardo alla rivoluzione, ma si rifiuta di essere incolpati per eventuali fallimenti.L’impegno è sempre stato rivolto a formare le coscienze socialiste e a ottenere risultati concreti per i lavoratori. Per questo motivo, non si lascerà il partito socialista, anche se si venisse spinti fuori da chi è arrivato da poco o da chi sostiene idee estreme solo a parole.Riassunto Lungo
1. L’illusione rivoluzionaria e la forza della reazione nel dopoguerra
Dopo la Prima Guerra Mondiale, l’Europa fu attraversata da un forte desiderio di cambiamento radicale. La Rivoluzione Russa e le intense proteste operaie tra il 1919 e il 1920, conosciute come il “biennio rosso”, alimentarono la convinzione diffusa che il sistema capitalista fosse ormai prossimo al crollo. Tuttavia, questa speranza rivoluzionaria si rivelò presto un’illusione. Contrariamente alle aspettative, il capitalismo uscì dal conflitto mondiale rafforzato, mentre le istituzioni politiche basate sul liberalismo e sulla democrazia si trovarono indebolite e in difficoltà.Il fallimento della rivoluzione in Europa
In gran parte dell’Europa occidentale, nonostante le numerose agitazioni sociali e gli scioperi, i tentativi rivoluzionari fallirono. La maggior parte dei lavoratori aveva raggiunto un certo benessere e non era disposta a rischiare tutto per un cambiamento radicale. I partiti socialdemocratici e socialisti, che rifiutavano l’idea di una dittatura del proletariato, mantennero un ampio consenso tra gli operai. I nuovi partiti comunisti, che seguivano l’esempio russo, rimasero formazioni minoritarie e poco influenti. Inoltre, gli apparati dello Stato, come l’esercito e la polizia, rimasero saldi e capaci di controllare la situazione, impedendo l’avanzata delle forze rivoluzionarie.La situazione particolare dell’Italia
L’Italia presentò un quadro leggermente diverso, ma con esiti simili. Il Partito Socialista Italiano, pur aderendo all’Internazionale Comunista e ottenendo un notevole successo nelle elezioni, si dimostrò impreparato ad affrontare uno scontro militare e si limitò a sostenere una serie di scioperi continui, quasi una “scioperomania”. Anche la nascita del Partito Comunista d’Italia, avvenuta tramite una scissione dal PSI, non riuscì a colmare questa debolezza organizzativa e militare della sinistra. Questa incapacità di agire in modo efficace lasciò spazio a una violenta controffensiva.La reazione e l’ascesa del fascismo
L’impotenza della sinistra italiana permise al fascismo, un movimento politico nato da poco, di lanciare una violenta reazione tra il 1921 e il 1922, periodo noto come il “biennio nero”. Le squadre fasciste, appoggiate apertamente o tacitamente da settori influenti della società come l’esercito, la polizia, la magistratura, i grandi proprietari terrieri (agrari), gli industriali, la Chiesa e i liberali più conservatori, iniziarono a distruggere sistematicamente le organizzazioni dei lavoratori e i circoli socialisti. Questa ondata di violenza e repressione culminò nel 1922, quando Benito Mussolini ricevette l’incarico di formare il governo direttamente dalla monarchia. Il sogno rivoluzionario si era rivelato un’illusione velleitaria e non supportata dai fatti.Le ragioni della sconfitta della sinistra
La sconfitta delle forze progressiste e rivoluzionarie fu in gran parte causata dalla loro profonda divisione interna. Da un lato c’erano i riformisti, che puntavano a migliorare la società e ad allargare la democrazia gradualmente. Dall’altro lato c’erano i massimalisti e i comunisti, che invece miravano a instaurare una dittatura del proletariato attraverso una rivoluzione violenta. Questa mancanza di unità e di visione comune indebolì enormemente la sinistra, spianando la strada alla controffensiva delle forze conservatrici e all’affermarsi di regimi autoritari di destra in diversi paesi europei.Giacomo Matteotti: un simbolo della lotta democratica
In questo contesto difficile, emerse la figura di Giacomo Matteotti. Socialista riformista proveniente da una famiglia borghese, Matteotti comprese lucidamente i limiti dell’estremismo e la crescente minaccia rappresentata dal fascismo. Si batté con grande impegno per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e difendere i valori fondamentali della democrazia, rifiutando con forza ogni forma di dittatura. La sua posizione intransigente contro la guerra e, soprattutto, contro il fascismo, lo portò a essere assassinato nel 1924. La sua morte segnò tragicamente il punto più alto della sconfitta delle forze democratiche e socialiste in Italia. Matteotti rappresentò un esempio di riformismo attivo e combattivo, pronto anche all’azione forte se necessaria per rimuovere gli ostacoli al progresso sociale, ma lontano dalla retorica vuota e dall’attivismo disorganizzato. La sua eredità, basata sui principi di democrazia e socialismo riformista, rimase una sfida complessa per gran parte della sinistra italiana nel periodo successivo alla guerra.Davvero la divisione della sinistra fu l’unica causa del fascismo, o si dimentica chi lo armò e lo sostenne?
Il capitolo, nel delineare le ragioni della sconfitta delle forze progressiste, pone una forte enfasi sulla divisione interna della sinistra come fattore determinante. Sebbene questa divisione sia stata indubbiamente un elemento di debolezza, attribuire ad essa la responsabilità quasi esclusiva dell’ascesa del fascismo rischia di trascurare altri aspetti cruciali. Il capitolo stesso menziona l’appoggio esplicito o tacito di settori influenti della società e degli apparati dello Stato alle squadre fasciste. Per comprendere appieno la complessità di quel periodo, è fondamentale approfondire il ruolo attivo giocato dalle élite economiche, dalle istituzioni liberali e dagli apparati repressivi nella crisi dello Stato liberale e nell’affermazione del regime fascista. Un utile percorso di studio potrebbe includere l’analisi della storia politica e sociale dell’Italia post-bellica, concentrandosi sulle dinamiche del potere e sul collasso delle istituzioni liberali. Approfondire il pensiero di autori che hanno analizzato la crisi dello Stato liberale e il ruolo dei ceti dirigenti, come ad esempio Gaetano Salvemini o Adrian Lyttelton, può offrire prospettive più ampie e sfumate sulle cause profonde dell’avvento del fascismo.2. La difesa dell’unità e della democrazia di fronte alla crisi
Durante gli anni tra il 1919 e il 1920, mentre la maggioranza socialista massimalista aspettava il crollo del capitalismo, Giacomo Matteotti insisteva sull’importanza di mantenere uniti i lavoratori e il partito. Già nel 1912, dopo che i riformisti erano stati espulsi, aveva sostenuto che era fondamentale ricostruire l’unità morale e politica del proletariato.La visione di Matteotti sulla rivoluzione e il socialismo
Nel 1919, Matteotti considerava l’atteggiamento rivoluzionario dei massimalisti come qualcosa di irrealistico. Spiegava che la forza socialista cresce quando il capitalismo è in crisi, ma la capacità del socialismo non è ancora pronta. Pensava che la rivoluzione non sarebbe stata una vittoria facile, ma avrebbe richiesto grande impegno. Dubitava che il proletariato fosse pronto per una rivoluzione immediata e non credeva che la rivoluzione potesse dare magicamente nuove qualità alle masse. Riguardo alla rivoluzione russa, si chiedeva quanto se ne sapesse davvero e aveva dei dubbi sulla “dittatura del proletariato”. Distingueva tra il vincere il capitalismo e un potere autoritario gestito da pochi in nome del proletariato, senza una partecipazione consapevole. Ammetteva l’uso della violenza solo se fosse stata necessaria per creare un nuovo sistema politico.Matteotti criticava sia i riformisti, che speravano di ottenere vantaggi dal governo del momento, sia i massimalisti, che li aspettavano da un futuro governo socialista. Dopo l’occupazione delle fabbriche nel 1920, notò che le masse si erano avvicinate al socialismo più per motivi legati alla guerra e ai propri interessi che per una vera convinzione collettivista. Riconosceva che lo Stato borghese italiano stava fallendo e non favoriva più la produzione. Tuttavia, ribadiva che per conquistare il potere politico era necessaria la massima partecipazione consapevole del proletariato, non una dittatura di pochi.La scissione del PSI e la nascita del PSU
Nel 1921, la corrente comunista si separò dal Partito Socialista Italiano. Matteotti era contrario a questa divisione e sosteneva che il partito dovesse rimanere unito per tutti i socialisti, escludendo solo chi non lo era. Credeva che il socialismo si realizzasse di più formando una coscienza collettivista nelle persone piuttosto che conquistando il potere con la forza. Criticava i massimalisti perché volevano espellere i riformisti, creando divisioni inutili che danneggiavano i lavoratori. La crisi dello Stato liberale peggiorò rapidamente nell’ottobre 1922. Al Congresso Socialista, l’ala riformista, di cui facevano parte Turati e Matteotti, fu espulsa dalla maggioranza massimalista con l’accusa di collaborare con i borghesi. Coloro che furono espulsi fondarono il Partito Socialista Unitario (PSU), e Matteotti ne divenne segretario.L’ascesa del fascismo e la lotta per la democrazia
Nel novembre 1921, il movimento fascista divenne il Partito Nazionale Fascista, creando una propria forza armata usata contro i lavoratori e, in futuro, contro un parlamento che non li appoggiava. Nel 1922, i fascisti diventarono più forti grazie a violenze che la giustizia non puniva e all’appoggio della corte reale. Distruggevano le sedi dei partiti che si opponevano a loro e le Camere del lavoro, agendo senza conseguenze. Matteotti si sentiva scoraggiato per la situazione politica disastrosa e la mancanza di sostegno. Pensò di lasciare il suo incarico di deputato perché sentiva che il suo lavoro era inutile, ma alla fine decise di restare.La ricerca di un fronte unito contro il fascismo
Matteotti elogiava la democrazia, definendola fondamentale per la società borghese, e sperava che il Partito Socialista potesse guidare una ripresa, cercando alleati tra i borghesi democratici. Tuttavia, cambiò presto idea, riconoscendo che i partiti borghesi avevano abbandonato la democrazia. Esortava i lavoratori a rimanere compatti. Pur essendo consapevole della divisione della sinistra, Matteotti continuava a promuovere l’unità. Si ritrovò isolato, odiato dai fascisti e criticato dai massimalisti e dai comunisti, che lo accusavano di difendere la democrazia borghese. Propose di unire tutte le forze che si opponevano al fascismo per difendere le libertà democratiche, non per fare una rivoluzione. Affermava di essere favorevole alla lotta di classe, ma non alla guerra di classe, ammettendo la possibilità di collaborazione tra classi e partiti diversi.Nel 1923, invitava a resistere con fermezza contro la violenza fascista, convinto che il socialismo e la libertà non sarebbero morti. Nel 1924, si lamentava dell’inattività e del pessimismo nel suo partito, ma rimase determinato a lottare. Cercava di creare un ampio schieramento contro il fascismo, considerando anche l’opzione di astenersi dal voto. Riteneva che la cosa più importante fosse ristabilire le libertà democratiche e civili.Le differenze con i comunisti e le elezioni del 1924
Escludeva un accordo con i comunisti, che, come i fascisti, miravano a una dittatura che negava le libertà. Affermava che il PSU era a favore della libertà per tutti e del metodo democratico basato sulle maggioranze, mentre i comunisti volevano una dittatura e la violenza di minoranze. Sosteneva che fascismo e comunismo si assomigliavano e si giustificavano a vicenda. Cercava invece un’intesa con i massimalisti, pensando che le loro differenze fossero minori e non giustificassero la divisione dei lavoratori di fronte al nemico fascista. Le elezioni del 6 aprile 1924, segnate da violenze e imbrogli da parte dei fascisti, videro il PSU ottenere il maggior numero di voti tra i partiti della sinistra divisa. Il 15 aprile, Matteotti rifiutò la proposta dei comunisti di creare un fronte unito per il Primo maggio, ribadendo che la loro posizione a favore della dittatura era incompatibile con la sua posizione democratica.La denuncia in parlamento e le conseguenze
Il 30 maggio 1924, Matteotti denunciò in Parlamento che le elezioni non erano valide a causa della violenza e degli imbrogli fascisti. Affermò che il governo non si sentiva obbligato a rispettare il risultato delle elezioni e si reggeva sulla forza di una milizia di partito. Sostenne che solo una piccola parte della popolazione aveva potuto votare liberamente e chiese che le elezioni fossero annullate. Difese il diritto del popolo italiano di decidere liberamente. Dopo il discorso, consapevole del pericolo, commentò di aver fatto il suo discorso e che i suoi amici avrebbero dovuto preparare quello per il suo funerale. Mussolini reagì con violenza, incitando alla vendetta.Ma come poteva un socialista come Matteotti equiparare il fascismo, difensore del capitale e nemico giurato dei lavoratori, al comunismo, che almeno sulla carta mirava a un’altra società?
Il capitolo riporta la visione di Matteotti che fascismo e comunismo si assomigliavano e si giustificavano a vicenda, escludendo un accordo con i comunisti per la loro aspirazione a una dittatura “come i fascisti”. Questa equiparazione, che sembra basarsi più sul metodo autoritario che sugli obiettivi sociali dichiarati, è un punto critico che merita un’analisi più approfondita. Per capire meglio le ragioni di questa posizione e il dibattito che ne scaturiva, è fondamentale esplorare le diverse correnti di pensiero all’interno del socialismo e del comunismo italiano del periodo, studiando le loro interpretazioni della democrazia, dello Stato e della strategia rivoluzionaria di fronte alla crisi liberale e all’ascesa del fascismo. Approfondire gli scritti di autori come Gramsci, Bordiga, Turati e lo stesso Matteotti può fornire il contesto necessario per valutare questa controversa comparazione.3. Crisi e consolidamento del potere fascista
L’assassinio di Giacomo Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924 per mano di sicari fascisti, scatena una profonda crisi politica in Italia. Quando il suo corpo viene ritrovato due mesi dopo, l’indignazione è vasta e persino alcuni sostenitori del fascismo si sentono disorientati. Molti ministri abbandonano il governo. Inizialmente, Mussolini nega ogni responsabilità, lascia il Ministero degli Interni e promette indagini, portando a qualche arresto. Questa fase crea sbandamento anche tra i fascisti.Le reazioni e la debolezza delle opposizioni
Le opposizioni non riescono a sfruttare efficacemente la crisi. Si limitano a una condanna morale e politica del fascismo, ma rifiutano l’idea di uno sciopero generale che avrebbe potuto avere un impatto maggiore. Le speranze di un cambiamento si rivolgono al re, Vittorio Emanuele III, ma questi non interviene contro Mussolini. Anzi, esorta le parti alla “concordia”, di fatto legittimando il governo fascista. Anche il Vaticano offre il suo appoggio a Mussolini. I liberali, dal canto loro, temono possibili azioni di massa e non prendono iniziative decise. Nonostante la gravità della situazione, sia la Camera che il Senato votano la fiducia al governo Mussolini. Figure intellettuali come Benedetto Croce vedono inizialmente il fascismo come una forza capace di ridare vigore all’Italia. Al contrario, Luigi Einaudi, che all’inizio aveva appoggiato il fascismo in funzione anti-operaia, ritira il suo sostegno di fronte alla crescente violenza del regime e al progetto di uno Stato corporativo che limita le libertà economiche.La protesta dell’Aventino e il discorso del 3 gennaio
In segno di protesta contro la violenza fascista e l’assassinio di Matteotti, le opposizioni decidono di ritirarsi dalla Camera, un gesto simbolico che prende il nome di “secessione dell’Aventino”. Tuttavia, questa azione non produce risultati concreti. Viene respinta l’idea di creare un parlamento alternativo che avrebbe potuto sfidare il potere fascista. Constatata la debolezza delle opposizioni e superata la crisi interna al fascismo, Mussolini si sente abbastanza forte da cambiare strategia. Il 3 gennaio 1925, pronuncia un discorso alla Camera in cui si assume apertamente la “responsabilità politica, morale, storica” di quanto accaduto. Afferma che la forza è l’unica soluzione possibile in una lotta politica senza compromessi. Questo discorso segna la fine dello Stato liberale in Italia e l’inizio formale della dittatura fascista, consolidata dalle successive “leggi fascistissime”.L’analisi di Matteotti sul fascismo
Prima di essere ucciso, Giacomo Matteotti aveva condotto un’analisi lucida e coraggiosa del fascismo. Lo descriveva non come una semplice reazione borghese, ma come un’organizzazione violenta e sistematica, supportata da precise complicità economiche e politiche. Vedeva il fascismo come un’offensiva organizzata contro le forze democratiche e operaie. Sosteneva che i socialisti dovessero cercare alleanze con altre forze democratiche o prepararsi a fronteggiare direttamente il regime. Critica aspramente coloro che cercavano di giustificare la violenza fascista. Attraverso analisi economiche dettagliate, Matteotti dimostrava che la presunta ripresa economica non era merito del governo fascista, che anzi danneggiava i lavoratori con le sue politiche. Individuava le origini profonde del fascismo in una forma di estremismo tipicamente italiano, a cui i socialisti unitari si erano sempre opposti.Ma il fascismo è davvero solo uno strumento economico della borghesia agraria, o ci sono altre cause complesse?
Il capitolo offre una visione potente ma forse riduttiva delle origini del fascismo, concentrandosi quasi esclusivamente sull’interesse economico del capitale, in particolare quello agrario, come unica molla della violenza fascista. Questa prospettiva rischia di trascurare la complessità del fenomeno, ignorando fattori politici, sociali, culturali e psicologici che contribuirono alla sua ascesa e al suo consenso. Per approfondire, è utile considerare le diverse interpretazioni storiografiche sul fascismo, che ne analizzano le radici non solo economiche ma anche politiche, sociali e ideologiche. Si possono esplorare le opere di storici che hanno studiato la crisi dello stato liberale, il ruolo del nazionalismo, la mobilitazione delle masse e le dinamiche sociali del dopoguerra. Autori come Renzo De Felice o Emilio Gentile offrono prospettive fondamentali per comprendere la complessità del fenomeno oltre la sola chiave economica.8. La fedeltà all’ideale socialista
Una direttiva arrivata da Mosca impone ai partiti socialisti di cambiare nome in Partito Comunista e di adottare un nuovo programma. Questa decisione dichiara che i vecchi partiti socialisti avrebbero tradito la classe operaia.Chi resta fedele
Chi sta uscendo dal partito socialista non sono coloro che mantengono fede all’ideale originale. Questi ultimi affermano con forza di non aver mai tradito la bandiera della classe operaia. Hanno mantenuto una posizione internazionalista anche durante la guerra, un momento in cui altri mostravano esitazione e incertezza. La loro coerenza dimostra la loro autentica adesione ai principi socialisti. Si sostiene che chi non è più veramente socialista dovrebbe essere quello a lasciare il partito, non chi è rimasto fedele ai principi fondanti e alla causa dei lavoratori.La storia del partito
All’interno del partito, non si sono mai create divisioni basate sulle diverse correnti di pensiero. Si è sempre data priorità all’azione concreta e al lavoro comune per raggiungere gli obiettivi del socialismo. Si è sempre agito con lealtà e disciplina, rispettando la volontà della maggioranza, anche nei momenti in cui prevaleva la linea massimalista. Questo dimostra un impegno costante e una dedizione alla causa comune. Si è combattuto con impegno per l’ideale socialista integrale, anche quando altri mostravano meno slancio o partecipazione attiva, dimostrando una fedeltà incrollabile.La questione della rivoluzione
Ci si interroga sull’opportunità di fare la rivoluzione immediatamente. Si osserva che molte persone si sono avvicinate al socialismo di recente, forse più per ragioni legate alla situazione di guerra o per interesse personale, piuttosto che per una profonda e sentita fede collettivista. Questa adesione opportunistica solleva dubbi sulla solidità della base rivoluzionaria. Nonostante questi dubbi, si dichiara piena obbedienza agli ordini della maggioranza riguardo alla decisione di fare la rivoluzione, se questa dovesse essere la scelta. Tuttavia, si rifiuta categoricamente di essere ritenuti responsabili o incolpati per eventuali fallimenti che potrebbero derivare da una rivoluzione affrettata o basata su un consenso non genuino.L’impegno e la permanenza
L’impegno principale è sempre stato rivolto alla formazione delle coscienze socialiste tra i lavoratori e alla conquista di miglioramenti economici e politici concreti per la classe operaia. Questo lavoro costante e dedicato è la vera essenza dell’azione socialista e l’obiettivo primario. Per tutte queste ragioni, non si lascerà il partito socialista. Rimanere all’interno è un atto di fedeltà all’ideale e alla storia del movimento, anche se si venisse spinti fuori da chi è arrivato solo di recente o da chi si limita a sostenere posizioni estreme solo a parole senza un reale impegno. La fedeltà si dimostra con l’azione e la permanenza nella lotta.Se la fedeltà all’ideale socialista viene ridefinita da una direttiva esterna che accusa il vecchio partito di tradimento, chi sono veramente i “fedeli”: coloro che restano ancorati alla vecchia struttura o quelli che abbracciano il nuovo corso imposto?
Il capitolo definisce la fedeltà all’ideale socialista in termini di permanenza nel partito, azione concreta e coerenza storica interna, contrapponendola a chi aderisce a nuove direttive o mostra posizioni “estreme” solo a parole. Tuttavia, ignora o minimizza il fatto che la direttiva da Mosca propone una nuova definizione di fedeltà, legata all’adesione al Partito Comunista e al nuovo programma, accusando esplicitamente i vecchi partiti socialisti di aver tradito la classe operaia. Questa contrapposizione tra due definizioni di fedeltà, una interna e una esterna/nuova, non viene adeguatamente analizzata, lasciando irrisolta la questione di quale sia la vera misura dell’adesione all’ideale in un momento di profonda ridefinizione politica e organizzativa. Per approfondire questa dinamica, sarebbe utile studiare la storia dei partiti politici in momenti di scissione e riallineamento ideologico, nonché le teorie sull’organizzazione partitica e la disciplina interna. Autori come Robert Michels offrono spunti fondamentali sulla vita interna dei partiti e le dinamiche di potere e ideologia.Abbiamo riassunto il possibile
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