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Informazioni
“La nuova partita dell’innovazione. Il futuro dell’industria italiana” di Riccardo Varaldo è un libro che ti fa capire perché l’industria italiana fatica a crescere. Il problema principale è strutturale: spendiamo troppo poco in ricerca e sviluppo, la produttività è bassa e le nostre imprese sono spesso troppo piccole per affrontare la competizione globale. Questo rende difficile attrarre investimenti diretti esteri e limita la nostra competitività, anche nel famoso “made in Italy”. Il libro analizza come la dipendenza dal credito bancario e il ritardo tecnologico frenino l’innovazione, specialmente per le start-up che hanno bisogno di capitale di rischio. Varaldo però non si ferma ai problemi; propone una svolta necessaria. Serve una nuova politica industriale che punti su innovazione, capitale umano qualificato e una maggiore integrazione tra università, ricerca e imprese. Dobbiamo costruire un vero ecosistema dell’innovazione, valorizzando le filiere produttive e i distretti industriali, superando l’individualismo e favorendo la crescita dimensionale per giocare al meglio la partita del futuro.Riassunto Breve
L’industria italiana ha un problema di base che rende difficile crescere, legato soprattutto al fatto che non si investe abbastanza in tecnologia e innovazione. La spesa per la ricerca e lo sviluppo è ferma da tanto tempo ed è più bassa rispetto a quella di altri paesi. Questo rende le imprese meno capaci di cambiare e di competere, anche per i prodotti italiani famosi nel mondo. La produttività, cioè quanto si produce per ogni lavoratore, è bassa. Dalla nascita dell’euro, i costi per produrre sono aumentati più velocemente che altrove, mentre la produttività non è migliorata. Questo succede perché le imprese non si adattano bene alle nuove tecnologie e perché ci sono tante piccole aziende invece di grandi imprese innovative. Pochi soldi per i lavoratori e bassa produttività creano un circolo vizioso che riduce la voglia di comprare e di investire. Per essere più competitivi, specialmente fuori dall’Europa, bisogna abbassare i costi, aumentare la produttività e fare riforme. Anche se la qualità dei prodotti italiani è alta, serve essere competitivi anche sui costi per vendere di più all’estero. L’Italia attira pochi investimenti dall’estero e le aziende italiane più brave spesso investono fuori dal paese. Le aziende italiane di valore vengono comprate da stranieri perché faticano a diventare grandi e a trovare i soldi per competere nel mondo. La struttura industriale è fatta soprattutto di piccole imprese, mentre in altri paesi ci sono più aziende grandi. Questo modello, che una volta era un punto di forza, ora è un limite perché la competizione globale richiede aziende più grandi, che investono in tecnologia e hanno manager capaci. Le aziende medie vanno meglio, ma anche loro hanno difficoltà a crescere a livello internazionale e rischiano di essere comprate. Mancano grandi aziende innovative in settori tecnologici avanzati e non ci sono abbastanza persone qualificate, come ricercatori. Serve cambiare la struttura dell’industria per favorire la crescita delle aziende, l’unione tra loro e gli investimenti in innovazione e persone preparate. Le imprese italiane hanno pochi soldi propri e dipendono troppo dalle banche, molto più di quelle di altri paesi. Questo rende difficile finanziare la ricerca e l’innovazione. Forme di finanziamento diverse, come quelle che investono nelle nuove imprese rischiose, sono poco usate. La crisi ha peggiorato le cose, rendendo più difficile per le banche prestare soldi, soprattutto alle piccole e medie imprese. La mancanza di soldi blocca gli investimenti e lo sviluppo di nuove idee. Le aziende innovative, specialmente, fanno fatica a trovare finanziamenti perché sono rischiose e non hanno beni materiali da dare in garanzia. L’Italia è indietro tecnologicamente rispetto ad altri paesi. Si registrano meno brevetti e pochi stranieri chiedono brevetti in Italia, forse per problemi legali. L’industria italiana, legata a modelli vecchi e fatta di piccole aziende, fatica ad adattarsi alle nuove tecnologie che stanno cambiando il modo di produrre. Adattarsi richiede investimenti e cambiamenti difficili per la struttura attuale. La competizione nel mondo sta aumentando e la crescita si sposta verso i paesi emergenti. Tecnologia e ricerca sono fondamentali. L’Italia spende poco in ricerca e sviluppo, molto meno della media europea e di paesi come la Germania. Questo ritardo è aumentato nel tempo. La spesa delle aziende private è bassa, anche per via della struttura con tante piccole imprese. Gli ostacoli all’innovazione sono i costi alti, la mancanza di persone qualificate e i problemi di soldi. L’innovazione che si fa è spesso piccola, non cambia le cose in modo radicale. Questo limita la capacità dell’Italia di usare i risultati della ricerca pubblica e di competere in settori ad alta tecnologia. Mentre altri paesi investono di più in ricerca e favoriscono la collaborazione tra università e imprese, l’Italia ha ridotto i soldi pubblici per l’innovazione delle aziende. Serve una nuova politica per l’industria, che guardi al futuro e punti a creare aziende innovative e nuovi posti di lavoro, invece di mantenere quello che c’è. Bisogna rendere le aziende più forti, investire di più in tecnologia e innovazione, migliorare il legame tra università e industria e aiutare le aziende a vendere all’estero, soprattutto nei mercati emergenti. L’industria che produce oggetti è ancora molto importante per l’innovazione e le vendite all’estero, e bisogna agire per non farla diminuire. La spesa delle aziende private italiane in ricerca è sotto la media europea, riducendo la loro capacità di competere. Aumentano i soldi che arrivano dall’estero per la ricerca, spesso da programmi europei. L’Italia non riesce a tenere i suoi ricercatori e ad attirarne dall’estero, segno che l’ambiente per la ricerca non è favorevole. Manca una strategia chiara per ricerca e innovazione. I soldi pubblici sono sparsi e non portano risultati perché mancano le condizioni per farli diventare qualcosa di utile per l’economia. L’innovazione funziona bene solo se pubblico e privato collaborano in modo efficace. Le università italiane producono tante ricerche, ma hanno poco impatto sull’economia e sulla società. C’è distanza tra università e industria; le università pensano spesso solo a sé stesse e le aziende faticano a usare le conoscenze che vengono da fuori. Il sistema universitario, pensato per tanti studenti, non aiuta le eccellenze né il rapporto con il mondo del lavoro. L’industria italiana, fatta soprattutto di piccole aziende, fa innovazioni piccole invece di quelle che cambiano tutto. È difficile trasformare le scoperte in prodotti industriali veri e propri. Le nuove imprese innovative incontrano problemi come la mancanza di soldi, la resistenza al cambiamento nelle aziende esistenti e poca richiesta di prodotti innovativi da parte dello Stato. Questo fa perdere occasioni in settori tecnologici nuovi e porta a comprare prodotti innovativi dall’estero. Non c’è una buona collaborazione tra i diversi soggetti che si occupano di innovazione. Gli incentivi hanno aiutato molto le energie rinnovabili in Italia, ma l’incertezza delle regole e i tagli hanno bloccato gli investimenti, mostrando i limiti di una politica che non ha sostenuto le industrie tecnologiche di base. Le aziende italiane devono ora puntare a vendere all’estero, ma sono troppo piccole rispetto ai concorrenti globali. Servirebbero unioni tra aziende, ma non fa parte della tradizione italiana. L’esperienza nelle rinnovabili rischia di essere un’occasione persa per creare un’industria nazionale forte, a causa di scelte fatte in fretta e pochi investimenti in ricerca. Serve cambiare le regole e l’ambiente economico per favorire l’innovazione. Questo significa rendere più facile creare nuove aziende, migliorare il sistema finanziario e i soldi disponibili per le start-up rischiose, proteggere le idee nuove, combattere le attività che non producono e mantenere i mercati aperti e competitivi. Altri paesi hanno dimostrato che si possono creare industrie innovative anche partendo indietro. L’economia moderna si basa sulla creazione di nuove idee e aziende dal basso, in ambienti che trasformano queste idee in prodotti. Le start-up tecnologiche sono importanti per usare e applicare le conoscenze, spesso sfruttando i brevetti meglio delle grandi aziende. La creatività delle persone è fondamentale, aiutata da una buona formazione scientifica e tecnologica. Le grandi aziende vecchie spesso non sono più l’ambiente giusto per le innovazioni radicali e per tenere le persone creative, che preferiscono mettersi in proprio. Le università, specialmente i laboratori di ricerca migliori, sono luoghi adatti a formare nuovi imprenditori tecnologici. È importante che le università aiutino a creare nuove aziende nate dalla ricerca e a farle diventare economicamente importanti. Un sistema finanziario che funziona è vitale per le start-up, che hanno bisogno di soldi rischiosi, soprattutto all’inizio quando il rischio è alto. Le start-up creano tanti nuovi posti di lavoro. Le politiche per il lavoro dovrebbero quindi aiutare le nuove imprese, specialmente quelle che crescono velocemente. L’Italia ha persone capaci di creare imprese innovative, ma questo potenziale non viene usato bene e le aziende faticano a crescere. Mancano una politica industriale mirata e un ambiente per l’innovazione che funzioni. Le università italiane hanno difficoltà a trasferire la ricerca all’industria e ad aiutare le nuove aziende nate dalla ricerca, che spesso rimangono piccole e fanno solo consulenza. La mancanza di un mercato dei capitali di rischio sviluppato e di grandi aziende innovative limita le possibilità di crescita. Per superare questi problemi, è fondamentale aiutare le nuove imprese innovative a integrarsi nel sistema produttivo, anche collaborando con aziende già esistenti. L’economia italiana ha bisogno di un modello che unisca le grandi aziende con le nuove realtà innovative per essere più dinamica. Le grandi aziende possono aiutare le start-up con soldi e risorse, mentre le start-up portano innovazione e servizi specifici. Questa collaborazione può creare lavoro qualificato e vantaggi per tutti. Lo sviluppo economico dipende dalla capacità di promuovere le imprese innovative, superando un sistema industriale che non vuole cambiare. È fondamentale creare un ambiente favorevole, con meno burocrazia, accesso ai soldi iniziali, protezione delle idee nuove, rispetto delle regole e concorrenza. I luoghi dove si concentra l’innovazione sono importanti per unire conoscenze, talenti e soldi. A differenza dei vecchi distretti industriali basati sul “saper fare”, questi nuovi luoghi richiedono il “saper inventare” e forti legami con l’esterno. L’Italia ha zone industriali storiche con poche nuove imprese e zone universitarie con potenziale, ma che rischiano di rimanere isolate. Le politiche devono scegliere i luoghi con vero potenziale e creare collegamenti tra le diverse aree per aiutare le nuove imprese a crescere oltre i confini locali. L’innovazione aperta, che usa idee e tecnologie che vengono da fuori, è utile per l’industria italiana, specialmente per le piccole e medie imprese, facilitando la collaborazione con università e start-up. Le aziende nate dalle università possono fare da ponte tra ricerca e industria. La competizione globale si basa sempre più sull’innovazione all’interno delle catene di produzione, dove la collaborazione tra aziende specializzate sostituisce il fare tutto da soli. La politica industriale deve considerare questo. Per sviluppare l’ambiente innovativo italiano, servono unioni tra pubblico e privato, un sistema nazionale efficace e il rafforzamento dei poli locali con collegamenti strategici. Le nuove imprese innovative hanno bisogno di aiuto per superare l’essere solo locali e diventare importanti a livello nazionale e internazionale. I sistemi produttivi moderni si dividono il lavoro tra aziende, creando catene di produzione. Questo favorisce l’innovazione fatta insieme, dove le aziende collaborano con partner esterni per avere conoscenze e fare prodotti. Questo riduce i costi e aumenta la capacità di innovare, creando opportunità anche per le piccole e medie imprese specializzate. L’industria italiana, in settori come l’aeronautica e il Made in Italy, usa questa struttura di filiera. Grandi aziende lavorano con fornitori specializzati di diverse dimensioni, garantendo alta qualità. I distretti industriali italiani, nati dalla divisione del lavoro, sono un esempio di questa struttura. La loro forza sta nei prodotti innovativi e nei fornitori locali specializzati che garantiscono qualità e stile. La vicinanza tra chi fornisce e chi assembla stimola l’innovazione. Nonostante in passato si sia spostata la produzione all’estero per risparmiare, molte aziende di alta gamma stanno riportando la produzione in Italia, valorizzando la qualità e la flessibilità dei fornitori interni. Le filiere che funzionano meglio hanno fornitori ben integrati, aiutati dalle aziende principali e capaci di proporre soluzioni nuove. Per sostenere l’industria dei distretti, bisogna aiutare le competenze artigianali e favorire la collaborazione tra piccole imprese, anche con strumenti legali. È anche fondamentale rendere più forti le aziende medie, capaci di competere nel mondo e di guidare le catene di fornitura. Questo richiede di cambiare modo di pensare per superare l’individualismo. La politica industriale dovrebbe puntare a rafforzare le catene di produzione per non spostare la produzione all’estero solo per il prezzo. La tendenza a riportare la produzione in patria, vista in altri paesi, conferma il valore di mantenere le filiere sul territorio nazionale.Riassunto Lungo
1. La sfida strutturale dell’industria italiana
L’industria italiana affronta un problema di struttura che rende difficile uscire dalla crisi. L’economia fatica a crescere perché non riesce a innovare abbastanza dal punto di vista tecnologico e perde competitività. La spesa in Ricerca e Sviluppo è ferma da anni a livelli più bassi rispetto ad altri paesi avanzati. Questo limita la capacità di adattarsi ai cambiamenti globali e di competere in modo efficace, anche per i prodotti “made in Italy”. La bassa produttività del lavoro è una conseguenza diretta di questa mancanza di innovazione. Da quando è nato l’euro, i costi del lavoro per ogni prodotto sono aumentati più velocemente che in Germania e Francia, mentre la produttività è rimasta ferma o è diminuita. Questo dipende dal fatto che le imprese non si sono adeguate ai cambiamenti tecnologici e dalla struttura industriale frammentata, con pochi settori ad alta produttività. La situazione di bassi salari e bassa produttività riduce la domanda interna e gli investimenti.Perché è difficile competere
Essere competitivi è fondamentale, soprattutto per le esportazioni al di fuori dell’eurozona. Il costo effettivo delle merci italiane è aumentato rispetto a paesi come la Germania. Per recuperare competitività, è necessario abbassare i costi unitari del lavoro, aumentare la produttività, ridurre le tasse che pesano sul lavoro e realizzare riforme strutturali. Anche se la qualità dei prodotti italiani è un punto di forza riconosciuto, è necessario recuperare competitività sui costi per riuscire ad aumentare i volumi di merce esportata.La struttura delle imprese e gli investimenti esteri
L’Italia attrae pochi investimenti diretti dall’estero (IDE) rispetto ad altri paesi europei. Lo stock di IDE rispetto al PIL è molto più basso. Le imprese italiane più vivaci tendono a investire all’estero, mentre il paese fatica ad attirare nuovi investimenti o a mantenere quelli che ci sono già. Le acquisizioni di imprese italiane di eccellenza da parte di capitali stranieri stanno aumentando, soprattutto nel settore del lusso. Questo succede perché le imprese italiane fanno fatica a crescere di dimensioni e a dotarsi delle risorse necessarie per competere a livello globale. La struttura industriale italiana è dominata da piccole imprese, a differenza di Germania e altri paesi avanzati dove le grandi imprese hanno un peso maggiore. Questo modello, che un tempo era considerato un punto di forza (i distretti industriali, l’idea che “piccolo è bello”), è diventato un limite nella competizione globale. Per competere oggi servono dimensioni maggiori, investimenti in tecnologia e manager preparati. Le medie imprese, a volte chiamate “quarto capitalismo”, mostrano maggiore dinamismo e capacità di innovazione, ma anche loro incontrano limiti nel proiettarsi a livello internazionale e sono spesso soggette ad acquisizioni da parte di aziende estere.La necessità di cambiare
La mancanza di grandi imprese innovative in settori ad alto contenuto tecnologico e la scarsa presenza di personale qualificato (come i ricercatori) penalizzano ulteriormente la crescita. L’Italia ha bisogno di un cambiamento profondo nella sua struttura industriale. Questo cambiamento deve favorire la crescita delle imprese, la loro unione (aggregazione) e un forte investimento in innovazione e capitale umano. Solo così sarà possibile affrontare le sfide del mercato globale.Ma siamo sicuri che il problema sia solo la dimensione, o il capitolo ignora altri fattori cruciali per la competitività globale?
Il capitolo pone l’accento sulla dimensione delle imprese e sulla spesa in Ricerca e Sviluppo come cause principali della scarsa competitività italiana. Tuttavia, la competitività di un sistema economico è un fenomeno complesso influenzato da una pluralità di fattori che vanno oltre la mera dimensione aziendale. Aspetti come la qualità delle istituzioni, l’efficienza della burocrazia, la certezza del diritto, la flessibilità del mercato del lavoro, la qualità delle infrastrutture e la capacità di integrarsi nelle catene del valore globali giocano un ruolo cruciale. Concentrarsi quasi esclusivamente sulla dimensione rischia di semplificare eccessivamente un problema multidimensionale. Per approfondire questi aspetti e comprendere meglio la complessità della competitività, è utile esplorare i campi dell’economia istituzionale e della political economy, magari leggendo autori come Daron Acemoglu.2. I nodi strutturali tra capitale e innovazione
Le conseguenze della scarsa innovazione
L’economia italiana mostra debolezze profonde che rendono difficile avanzare in settori nuovi e innovativi. La mancanza di imprese orientate all’innovazione significa meno posti di lavoro e stipendi più bassi per chi ha studiato molto, come laureati e dottori di ricerca. Questo rende le imprese più deboli e più esposte al rischio di spostare la produzione all’estero. Inoltre, investire nella formazione delle persone ha un effetto minore sulla ricchezza totale (PIL) in Italia rispetto ad altri paesi.Le difficoltà nell’accesso al capitale
Le imprese italiane hanno pochi capitali propri e dipendono troppo dai prestiti delle banche. Circa il 70% dei loro debiti finanziari è verso le banche, una percentuale molto più alta rispetto a paesi come Francia, Germania e Regno Unito. Questa forte dipendenza rende difficile trovare i soldi necessari per fare ricerca e innovazione. Altre forme di finanziamento, come quelle fornite da fondi di investimento specializzati (private equity e venture capital), sono poco diffuse. La crisi economica ha peggiorato la situazione, aumentando i prestiti che le banche non riescono a recuperare e spingendole a dare soldi con più difficoltà, soprattutto alle piccole e medie imprese. La mancanza di capitale frena gli investimenti e blocca lo sviluppo di nuove attività innovative. Le imprese che puntano sull’innovazione, in particolare, fanno fatica a ottenere finanziamenti esterni perché sono considerate più rischiose, non hanno beni materiali da offrire come garanzia e c’è poca fiducia tra loro e le banche.Il divario tecnologico
L’Italia è indietro rispetto ad altri paesi per quanto riguarda la tecnologia. Si registrano meno brevetti rispetto a Germania e Francia, e la distanza dai paesi leader nel mondo e dalla Cina, che cresce molto velocemente, è enorme. Anche le richieste di brevetti da parte di aziende straniere in Italia sono poche, segno che il mercato non è molto attraente e forse ci sono problemi nel sistema legale che protegge le idee innovative. L’industria italiana, basata su modelli vecchi e fatta di tante piccole imprese, trova difficile adattarsi alle nuove tecnologie come nanotecnologie, robotica e stampa 3D, che stanno cambiando il modo di produrre (“terza rivoluzione industriale”). Adattarsi a questi cambiamenti richiede investimenti e riorganizzazioni che la struttura attuale delle imprese rende complicati.Ma è davvero solo la struttura finanziaria a frenare l’innovazione italiana?
Il capitolo pone l’accento sulla dipendenza dal debito bancario come causa principale della difficoltà di finanziare l’innovazione. Tuttavia, questa prospettiva rischia di semplificare eccessivamente un problema complesso. Per comprendere appieno le dinamiche, sarebbe utile esplorare discipline come la sociologia economica, che analizza il ruolo della fiducia e delle reti nel sistema economico, o la storia economica, per capire come si sono evoluti i modelli di finanziamento e industriali in Italia rispetto ad altri paesi. Autori come Carlo Trigilia o studiosi della finanza d’impresa e dei sistemi di innovazione potrebbero offrire spunti cruciali per valutare se il problema sia solo la disponibilità di capitale o anche la capacità del sistema di valutarlo e impiegarlo efficacemente, o persino la propensione al rischio degli imprenditori stessi.3. La svolta necessaria per l’industria italiana nell’era globale
La competizione economica mondiale si sta facendo sempre più intensa, con una crescita che si sposta in modo significativo verso i paesi emergenti, soprattutto in Asia. In questo scenario, la tecnologia e gli investimenti in ricerca e sviluppo diventano elementi fondamentali. A livello globale, si assiste a un aumento degli investimenti in questo settore e a una convergenza tecnologica che riduce le differenze tra paesi avanzati ed emergenti.Il Ritardo dell’Italia
L’Italia, in questo contesto, mostra un notevole ritardo. La spesa in ricerca e sviluppo è bassa, raggiungendo solo l’1,27% del PIL nel 2012, un dato molto inferiore alla media europea e a quello di paesi come la Germania, che investe il 2,98%. Questo divario si è allargato nel tempo. La spesa da parte delle aziende private è particolarmente ridotta, in parte a causa della struttura industriale italiana, dominata da piccole imprese che faticano a investire. Tra gli ostacoli all’innovazione ci sono i costi elevati, la mancanza di personale con le giuste competenze e problemi di accesso ai finanziamenti. L’innovazione che si riesce a realizzare è spesso di tipo incrementale, non radicale.Le Conseguenze e la Necessità di Cambiamento
Questa situazione limita la capacità dell’Italia di sfruttare i risultati della ricerca pubblica e di competere nei settori ad alta tecnologia. Mentre altri paesi avanzati aumentano gli investimenti in ricerca e sviluppo e promuovono la collaborazione tra università e industria, l’Italia ha addirittura diminuito i contributi pubblici destinati alle imprese per l’innovazione. È quindi necessaria una nuova politica industriale.Una Nuova Politica Industriale Strategica
Questa politica deve essere strategica e guardare al futuro, puntando a sviluppare imprese innovative e a creare nuovi posti di lavoro, invece di limitarsi a mantenere le strutture esistenti. Serve un rafforzamento della struttura delle imprese, maggiori investimenti in tecnologia e innovazione, un legame più stretto tra università e industria, e un supporto all’internazionalizzazione strategica verso i mercati emergenti. L’industria manifatturiera mantiene un ruolo fondamentale per l’innovazione e le esportazioni, e il calo del suo peso sull’economia richiede un’azione decisa per invertire questa tendenza.Davvero basta “semplificare le regole” e “scegliere con attenzione” per far fiorire l’innovazione, o il capitolo ignora la complessità delle dinamiche socio-economiche e istituzionali?
Il capitolo elenca una serie di ingredienti desiderabili per un ecosistema dell’innovazione, ma la loro effettiva realizzazione è un processo enormemente complesso che va oltre la mera “semplificazione” o una selezione dall’alto. Ignora le profonde resistenze istituzionali, le dinamiche di potere, la necessità di costruire fiducia e cultura collaborativa, e i criteri concreti (e spesso controversi) per “scegliere” dove investire. Per comprendere meglio queste sfide, è utile approfondire gli studi sull’economia istituzionale e la geografia economica, leggendo autori che si sono occupati dei sistemi di innovazione regionali e nazionali, come ad esempio Richard Nelson o Bengt-Åke Lundvall, o chi ha analizzato le politiche di sviluppo locale.7. La Rete Produttiva: Dalla Disintegrazione alla Collaborazione
La Disintegrazione Verticale e l’Innovazione Collaborativa
I sistemi produttivi moderni si stanno trasformando verso una divisione del lavoro più marcata tra le diverse imprese, un fenomeno che viene chiamato disintegrazione verticale. Questo modo di organizzare la produzione favorisce molto l’innovazione che nasce dalla collaborazione e dall’apertura, dove le aziende non lavorano più da sole ma cercano e usano conoscenze e idee anche da partner esterni per sviluppare nuovi prodotti. Questo approccio aiuta a ridurre i costi e allo stesso tempo aumenta la capacità di innovare, creando opportunità interessanti anche per le imprese più piccole e medie che sono specializzate in settori specifici. L’industria italiana, in particolare in settori importanti come quello aerospaziale e in tutto ciò che rientra nel Made in Italy, si basa fortemente su questa struttura di filiera. Le aziende più grandi collaborano strettamente con una rete di fornitori specializzati, di diverse dimensioni, e questa collaborazione è fondamentale per garantire standard di alta qualità. Nel settore aerospaziale italiano, ad esempio, si uniscono competenze che arrivano da tutto il mondo lungo l’intero ciclo di vita di prodotti molto complessi; qui, grandi aziende come Boeing lavorano insieme a partner strategici internazionali.I Distretti Industriali Italiani: Un Modello di Successo e le Sue Caratteristiche
Un esempio molto chiaro e radicato in Italia di questa disintegrazione verticale sono i distretti industriali, nati storicamente dalla divisione del lavoro tra artigiani. La loro forza competitiva sul mercato si fonda sulla capacità di proporre prodotti sempre nuovi e sull’esistenza di una fitta rete di fornitori locali specializzati, che sono essenziali per assicurare la qualità e lo stile distintivo dei prodotti. La vicinanza fisica tra chi fornisce i componenti e chi assembla il prodotto finale è un fattore chiave che stimola continuamente l’innovazione. Anche se per un periodo molte imprese hanno scelto di spostare la produzione all’estero per ridurre i costi, una tendenza nota come delocalizzazione, oggi notiamo che molte aziende, soprattutto quelle che producono beni di fascia alta, stanno riportando la produzione in Italia, un fenomeno chiamato reshoring. Questa scelta è motivata dal riconoscimento del valore della qualità, della flessibilità e della competenza offerte dai fornitori interni. Analizzando il commercio internazionale, emerge che un maggiore contributo alla creazione di valore all’interno del paese (valore aggiunto domestico) contribuisce a migliorare la bilancia commerciale. Inoltre, i distretti che investono maggiormente nell’innovazione dimostrano una maggiore resilienza e capacità di affrontare le crisi economiche. Le filiere produttive che hanno successo si distinguono perché i fornitori sono ben integrati nel processo, ricevono supporto dalle aziende capofila e sono attivi nel proporre soluzioni e miglioramenti. Il distretto toscano della concia, pelletterie e calzature rappresenta un esempio concreto di questo modello di filiera integrata e vincente.Sostenere la Filiera Produttiva: Politiche e Sfide Future
Per garantire un futuro solido all’industria dei distretti, è fondamentale investire nel mantenimento e nello sviluppo delle competenze artigianali che ne sono la base e promuovere attivamente la collaborazione tra le piccole imprese. Strumenti legali come i contratti di rete possono essere molto utili a questo scopo. È altrettanto cruciale rafforzare le medie imprese, poiché sono quelle che hanno la struttura e le capacità per competere efficacemente sui mercati globali e per fungere da motore per le filiere di fornitura. Per raggiungere questi obiettivi, è necessario un cambiamento culturale che aiuti a superare l’individualismo e favorisca una mentalità più collaborativa. La politica industriale dovrebbe orientarsi in modo deciso verso il rafforzamento delle filiere produttive sul territorio nazionale, come strategia per contrastare la tendenza a spostare la produzione all’estero basandosi unicamente sulla ricerca del prezzo più basso. La crescente tendenza al reshoring che si osserva sia negli Stati Uniti che in Europa conferma che mantenere le filiere produttive vicine è una scelta strategica che porta valore.Ma la ‘resilienza’ dei distretti è una caratteristica intrinseca o dipende da fattori specifici non sempre replicabili?
Il capitolo accenna alla resilienza dei distretti, ma non ne esplora a fondo le cause. La capacità di resistere alle crisi non è automatica e varia enormemente tra diversi contesti locali. Per capire meglio, sarebbe utile approfondire gli studi di economia regionale e geografia economica, che analizzano i fattori specifici (sociali, istituzionali, culturali, oltre a quelli economici) che determinano il successo o il fallimento di un distretto. Autori come Becattini o Porter hanno offerto diverse prospettive su questi temi.Abbiamo riassunto il possibile
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