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Contenuti del libro
Informazioni
“La democrazia stanca. Nuovi pericoli e possibili soluzioni per tempi difficili” di Michael Sandel esplora le radici profonde del malcontento che agita la democrazia americana, rintracciandole in un progressivo allontanamento da un ideale di repubblicanesimo civico verso una forma di liberalismo procedurale. Il libro ripercorre la storia degli Stati Uniti, mostrando come la concezione di libertà sia cambiata: da un’idea legata all’autogoverno e alla coltivazione delle virtù civiche necessarie per la partecipazione attiva, a una visione che la identifica con la capacità individuale di scegliere i propri scopi, con il governo che si mantiene neutrale. Questa trasformazione ha influenzato profondamente il ruolo dell’economia, vista inizialmente come un ambito capace di formare il carattere dei cittadini (come nel dibattito tra Jefferson e Hamilton sulla virtù agraria), e poi sempre più orientata al consumo e all’efficienza, come si vede nel cambiamento di focus della politica antitrust o nella ridefinizione del lavoro libero da indipendenza a semplice contratto. L’avvento del capitalismo industriale, la globalizzazione e la finanziarizzazione hanno esacerbato le disuguaglianze e alimentato una meritocrazia che genera arroganza nei “vincenti” e umiliazione nei “perdenti”, contribuendo al malcontento populista e a un senso diffuso di perdita di controllo. Sandel suggerisce che per rivitalizzare la democrazia sia necessario riscoprire la dimensione civica della libertà e dell’autogoverno, affrontando le disuguaglianze non solo per giustizia, ma per ricostruire il tessuto comunitario e la possibilità di una partecipazione significativa.Riassunto Breve
Nella politica americana esistono due visioni principali di libertà. Una, chiamata repubblicana, lega la libertà all’autogoverno e alla partecipazione attiva dei cittadini, che devono possedere certe qualità morali e civiche. In questa visione, l’economia non serve solo a produrre beni, ma deve anche aiutare a formare cittadini capaci di autogovernarsi. L’altra visione, chiamata liberale o procedurale, vede la libertà come la capacità di ogni individuo di scegliere i propri obiettivi, e il governo deve rimanere neutrale rispetto alle diverse idee di “vita buona”, concentrandosi sulla protezione dei diritti individuali e sulla crescita economica per il consumo.Storicamente, il dibattito economico americano teneva conto delle conseguenze civiche. Figure come Thomas Jefferson pensavano che un’economia basata sull’agricoltura fosse migliore per creare cittadini indipendenti e virtuosi, mentre Alexander Hamilton, pur favorendo l’industria, riconosceva l’importanza di plasmare il carattere pubblico. Anche le discussioni su banche e tariffe riflettevano preoccupazioni sulla concentrazione di potere e sulla moralità dei cittadini.Con l’arrivo del capitalismo industriale, la natura del lavoro cambiò. L’ideale repubblicano vedeva il lavoro libero come indipendenza economica (possedere una fattoria o un’officina), necessaria per essere un cittadino attivo. Il lavoro salariato era visto come una fase temporanea. Tuttavia, il lavoro salariato divenne permanente per molti, portando a una visione della libertà basata sul semplice accordo volontario tra datore di lavoro e lavoratore. Movimenti operai come i Knights of Labor criticavano il lavoro salariato permanente come “schiavitù salariale” dannosa per la virtù civica, proponendo alternative come le cooperative. Altri movimenti accettarono il sistema salariale, concentrandosi solo su migliori condizioni materiali.Il focus della politica economica si spostò gradualmente dall’obiettivo di formare cittadini virtuosi a quello di soddisfare i cittadini come consumatori. Le riforme progressiste all’inizio del Novecento cercarono ancora di affrontare la concentrazione di potere per preservare l’autogoverno o forgiare un’identità nazionale, ma emerse una visione che poneva il consumo e l’abbondanza economica al centro. Le leggi antitrust, nate per proteggere i piccoli produttori e la democrazia, si trasformarono in strumenti per garantire prezzi bassi ai consumatori. Le politiche economiche, come quelle keynesiane, si concentrarono sulla gestione della domanda per la crescita, trattando l’economia come un meccanismo tecnico neutrale, non come qualcosa che forma il carattere civico.Dopo la Seconda guerra mondiale, la visione liberale procedurale, con il suo focus sui diritti individuali e la prosperità economica, divenne dominante. Nonostante un iniziale successo, questa impostazione portò a un crescente scontento, un senso di perdita di controllo sulle proprie vite e l’indebolimento delle comunità. La politica, concentrata su diritti e welfare state, non riusciva a rispondere al desiderio di autogoverno e appartenenza.Negli ultimi decenni, il capitalismo globale e finanziario ha accentuato questi problemi. La globalizzazione ha favorito il capitale rispetto al lavoro, aumentando la disuguaglianza. La finanziarizzazione ha spostato l’attenzione dalla produzione alla speculazione, creando instabilità e sfiducia. La crisi del 2008 ha rafforzato il potere finanziario e alimentato il populismo.La disuguaglianza economica estrema danneggia la democrazia permettendo ai ricchi di influenzare la politica e facendo sentire i cittadini comuni impotenti. L’ideale della meritocrazia, che suggerisce che il successo dipenda solo dal merito individuale, non risolve la disuguaglianza dovuta a opportunità diseguali e crea arroganza nei “vincenti” e umiliazione nei “perdenti”. L’enfasi sull’istruzione superiore come unica via per il successo ha ignorato la maggior parte della popolazione e spostato la colpa dell’insuccesso sugli individui. La pandemia ha mostrato che l’azione politica può mobilitare risorse e che l’economia non è una forza naturale immutabile. La sfida attuale è reclamare la sovranità politica per deliberare sul modo migliore di vivere insieme e sul valore delle cose, invece di lasciare che siano solo i mercati a deciderlo.Riassunto Lungo
1. Dalla virtù agraria alla repubblica procedurale
Il malcontento che si osserva oggi nella politica americana nasce in parte dalla filosofia che ne sta alla base. Questa filosofia è una forma di liberalismo che vede la libertà come la possibilità di scegliere i propri obiettivi nella vita. Secondo questa idea, il governo non deve favorire una particolare visione di “vita buona”, ma deve solo creare un sistema di diritti per i singoli cittadini. In questo contesto, l’economia serve principalmente al consumo, e il suo successo si misura dalla crescita economica generale e da come la ricchezza viene distribuita.La visione repubblicana: libertà e partecipazione civica
Esiste però un’altra importante tradizione politica, quella repubblicana, che lega la libertà all’essere capaci di governare sé stessi e al partecipare attivamente alla vita della comunità. Questa prospettiva richiede che i cittadini abbiano certe qualità, come la virtù civica, e che la politica aiuti a sviluppare queste qualità. Per i repubblicani, l’economia non è solo consumo; deve anche favorire l’autogoverno. Questo significa che l’organizzazione del lavoro e la struttura produttiva dovrebbero sostenere la partecipazione attiva dei cittadini.Il dibattito storico in America
Nella storia americana, soprattutto all’inizio, si discuteva molto di come l’economia potesse influenzare il carattere dei cittadini. Thomas Jefferson, ad esempio, credeva che l’agricoltura fosse la base migliore per formare cittadini indipendenti e virtuosi, adatti a governarsi da soli. Per questo, non vedeva di buon occhio le grandi fabbriche, temendo che potessero creare dipendenza e corrompere la moralità delle persone. Anche Alexander Hamilton, pur sostenendo lo sviluppo dell’industria e della finanza per rendere la nazione forte, riconosceva l’importanza di plasmare il carattere pubblico. Durante l’epoca di Andrew Jackson, i dibattiti su temi come le banche e le tasse mostravano ancora queste preoccupazioni repubblicane: si discuteva non solo di ricchezza e giustizia, ma anche della concentrazione di potere e della moralità dei cittadini. Con il tempo, però, questa attenzione a come l’economia forma il carattere civico è diminuita. Ha preso il sopravvento una visione più liberale, dove il governo cerca di essere neutrale e si concentra soprattutto sulla crescita economica e su una distribuzione equa della ricchezza.Ma è sufficiente imputare il ‘malcontento’ odierno a una mera questione filosofica, o manca un’analisi concreta di come l’economia moderna, al di là delle filosofie, modelli (o deformi) il cittadino?
Il capitolo presenta efficacemente il contrasto tra due visioni filosofiche e la loro evoluzione storica, ma la connessione tra il prevalere della visione liberale e il “malcontento” attuale appare più affermata che dimostrata nel dettaglio pratico. Per comprendere appieno come l’economia influenzi il carattere civico e la partecipazione, sarebbe utile approfondire discipline come la sociologia economica e l’economia politica, esplorando autori che analizzano le strutture concrete del capitalismo moderno (come la natura del lavoro, la precarietà, la concentrazione di ricchezza) e il loro impatto sul tessuto sociale e sulla capacità di autogoverno, al di là della pura cornice filosofica.2. La Trasformazione del Lavoro Libero
L’ideale repubblicano del lavoro e della cittadinanza
La tradizione repubblicana americana lega strettamente l’autogoverno alle qualità morali e civiche dei cittadini. In questa visione, l’organizzazione economica di una società viene giudicata in base alla sua capacità di promuovere queste virtù. Gruppi politici come i Whigs e i Jacksoniani, pur partendo da questo principio comune, avevano idee diverse su quali virtù fossero fondamentali e su come l’economia potesse favorirle. I Whigs, ad esempio, erano convinti che lo sviluppo economico a livello nazionale e la creazione di istituzioni pubbliche fossero strumenti essenziali per migliorare il carattere dei cittadini e rafforzare l’unità del paese.Il lavoro salariato: una nuova realtà
Con l’arrivo del capitalismo industriale, sorse una domanda cruciale: il lavoro salariato era compatibile con l’idea di libertà? Secondo la visione repubblicana tradizionale, essere un lavoratore libero significava godere di indipendenza economica, tipicamente possedendo una fattoria o una propria bottega artigianale. Gli artigiani, in particolare, vedevano il lavoro salariato solo come una tappa temporanea nel percorso verso questa indipendenza, un passaggio necessario per potersi considerare cittadini a pieno titolo e partecipare attivamente alla vita pubblica.Due visioni di libertà a confronto
Tuttavia, per un numero crescente di persone, il lavoro salariato divenne una condizione permanente, non più una fase transitoria. Questa trasformazione portò allo sviluppo di due diverse concezioni di libertà. La prima, una libertà “civica”, continuava a legare la libertà individuale all’indipendenza economica, vista come requisito indispensabile per esercitare pienamente la cittadinanza. La seconda, una libertà “volontaristica”, definiva la libertà in modo più semplice, come il risultato di un accordo volontario tra le parti coinvolte in un rapporto di lavoro.Le reazioni al lavoro dipendente
Di fronte a questa nuova realtà, diversi movimenti e pensatori presero posizione. Movimenti operai come i Knights of Labor consideravano il lavoro salariato permanente una vera e propria “schiavitù salariale”, ritenendola dannosa per le virtù civiche e per la capacità di autogoverno dei cittadini. Per contrastarla, proponevano modelli alternativi come le cooperative di lavoratori. Gli abolizionisti, pur lottando contro la schiavitù, spesso adottavano una visione più volontaristica della libertà, concentrandosi sul diritto dell’individuo di vendere liberamente il proprio lavoro. Anche i difensori della schiavitù nel Sud criticavano il lavoro salariato del Nord, ma lo facevano per giustificare il loro sistema basato sulla schiavitù. Abraham Lincoln, dal canto suo, difendeva l’ideale repubblicano originario del lavoro libero come percorso che conduceva all’indipendenza economica.Dalla virtù al contratto: l’evoluzione legale
Dopo la Guerra Civile, la rapida crescita industriale rese la dipendenza dal salario una condizione diffusa per la maggior parte della popolazione. Il dibattito sulla libertà del lavoro cambiò orientamento: ci si concentrò meno sulla virtù civica e più sulle condizioni concrete che rendevano un contratto di lavoro realmente libero. I tribunali, specialmente durante l’era nota come Lochner, iniziarono a interpretare la libertà del lavoro quasi esclusivamente come libertà di stipulare contratti, spesso annullando le leggi che miravano a proteggere i lavoratori. Allo stesso tempo, i riformatori sociali e politici chiedevano l’introduzione di normative per garantire una reale parità di potere negoziale tra datori di lavoro e dipendenti. Questo periodo storico segna in modo netto il passaggio da una concezione basata sulla virtù civica a una visione prevalentemente volontaristica del lavoro libero nel pensiero e nella legge americana.Se il capitolo descrive un passaggio da una libertà legata alla virtù e all’indipendenza a una basata sul mero contratto, non è forse quest’ultima una libertà illusoria, priva di significato concreto per chi non ha potere negoziale?
Il capitolo descrive efficacemente il passaggio storico da una concezione della libertà del lavoro legata all’indipendenza economica e alla virtù civica a una basata prevalentemente sull’accordo contrattuale. Tuttavia, non affronta a sufficienza la questione cruciale: può una libertà definita unicamente dal contratto essere considerata reale e significativa in contesti caratterizzati da profonde disuguaglianze di potere tra lavoratore e datore di lavoro? Per esplorare questa lacuna e comprendere le critiche a una visione puramente ‘volontaristica’ della libertà del lavoro, è fondamentale approfondire la filosofia politica, l’economia del lavoro e la storia sociale. Autori come Karl Polanyi, o pensatori contemporanei che si occupano di teoria critica del diritto e di economia politica, offrono strumenti per analizzare come le strutture di potere influenzino la nozione stessa di ‘libertà’ nel mercato del lavoro.3. Dalla Virtù Civica alla Soddisfazione Economica
Il modo di pensare la politica economica in America ha subito un grande cambiamento. All’inizio, l’idea di libertà era legata al lavoro visto come un’attività che rendeva i cittadini capaci di governarsi da soli e virtuosi. Era un ideale civico, dove il lavoro non era solo un modo per guadagnare, ma formava il carattere delle persone. Poi si è passati a un’idea diversa, più volontaristica. In questa nuova visione, il lavoro libero significava semplicemente accettare di scambiare il proprio tempo e le proprie capacità per ricevere un salario. Questo cambiamento si è visto anche nei movimenti dei lavoratori. Gruppi come i Knights of Labor volevano trasformare l’industria per creare cittadini-produttori, persone che avessero un ruolo attivo e consapevole nella società grazie al loro lavoro. Invece, l’American Federation of Labor accettava il sistema basato sul salario e puntava a ottenere miglioramenti pratici ed economici per chi lavorava.Le Sfide del Ventesimo Secolo e le Risposte Progressiste
All’inizio del Novecento, la crescita enorme delle grandi aziende e l’indebolimento dei legami nelle comunità tradizionali misero in pericolo l’idea che i cittadini potessero governarsi da soli. Di fronte a questa situazione, i riformatori progressisti proposero due soluzioni principali. Alcuni, tra cui figure come Brandeis e Wilson, credevano fosse meglio ridurre il potere delle grandi concentrazioni economiche. Pensavano che decentrare l’economia avrebbe aiutato a mantenere il controllo democratico a livello locale e a favorire la crescita di cittadini indipendenti e responsabili. Volevano preservare l’ideale civico e la possibilità per le persone di partecipare attivamente alla vita pubblica e economica della loro comunità.Regolare l’Economia o Cambiare la Prospettiva?
Altri riformatori, come Roosevelt e Croly, avevano un’idea diversa. Accettavano che l’economia fosse sempre più concentrata nelle mani di poche grandi imprese. La loro proposta era quella di regolare queste grandi aziende a livello nazionale, non di smantellarle. Cercavano di creare un forte senso di identità civica che unisse tutti i cittadini a livello nazionale, superando i legami locali che si stavano indebolendo. Nonostante le differenze, entrambe queste visioni progressiste condividevano un obiettivo importante: volevano ancora che la politica economica contribuisse a formare il carattere morale e civico delle persone. Credevano che l’economia dovesse servire a rendere i cittadini migliori e più partecipi.L’Emergere del Cittadino-Consumatore
Accanto a queste idee, ne nacque una terza, che spostava l’attenzione su un nuovo ruolo per il cittadino: quello di consumatore. Questa prospettiva, ben rappresentata da Walter Weyl, vedeva la possibilità di creare un legame tra le persone non più nel lavoro o nell’identità nazionale, ma nell’esperienza condivisa del consumo. L’obiettivo principale della democrazia non era più formare cittadini virtuosi o promuovere l’autogoverno. Diventava invece quello di garantire a tutti l’abbondanza economica e di distribuirla in modo equo. Le riforme politiche non puntavano più a migliorare il carattere delle persone, ma a soddisfare al meglio i desideri e le preferenze dei cittadini visti come semplici consumatori.Le Conseguenze del Nuovo Ideale
Questo cambiamento segnò un allontanamento deciso dall’idea più antica, quella repubblicana, che voleva che la politica e l’economia avessero un ruolo educativo e formativo per i cittadini. La politica economica iniziò a concentrarsi sempre di più sulla crescita generale dell’economia e su come dividere la ricchezza prodotta in modo che fosse percepita come più giusta. Anche la legge antitrust, che era nata con l’idea di dividere le grandi concentrazioni di potere economico per favorire la libertà e l’indipendenza, cambiò scopo. Divenne uno strumento per assicurare che i prezzi per i consumatori fossero bassi grazie alla concorrenza. Allo stesso tempo, movimenti sociali che erano legati all’ideale civico, come quelli che si opponevano alle catene di negozi per difendere i commercianti indipendenti, persero forza e finirono per scomparire.Ma come possono la distribuzione del potere e l’impegno civico affrontare la forza soverchiante della finanza globale?
Il capitolo descrive un quadro in cui il potere si è spostato verso la finanza globale, lasciando i cittadini disorientati e impotenti. Le soluzioni proposte, come la distribuzione del potere su più livelli e la promozione dell’impegno civico, sembrano concentrarsi principalmente sulla sfera politica tradizionale o locale. Sorge spontaneo chiedersi se questi strumenti siano sufficienti a contrastare una forza, quella finanziaria, che opera su scala globale e con logiche diverse da quelle della politica democratica classica. Per approfondire questa tensione, potrebbe essere utile esplorare le analisi della political economy contemporanea e le teorie critiche sulla globalizzazione e la finanziarizzazione. Autori che studiano il rapporto tra capitalismo e democrazia nell’era globale possono offrire spunti su come (o se) sia possibile riequilibrare il potere tra sfera economica e sfera civica.7. Disuguaglianza e la Crisi della Meritocrazia
Le ragioni che hanno portato all’elezione di Donald Trump vanno oltre la semplice intolleranza. Ci sono state lamentele concrete, alimentate da una forte rabbia popolare. Questo sentimento è nato in un contesto di estrema disuguaglianza di reddito e ricchezza, creata da quattro decenni di globalizzazione guidata dalla finanza. La maggior parte degli aumenti di reddito è andata solo al 10% più ricco della popolazione, mentre la metà più povera non ha visto quasi nessun miglioramento. Il reddito medio degli uomini in età lavorativa è addirittura diminuito.Come la disuguaglianza danneggia la democrazia
Questa forte disuguaglianza non fa bene alla democrazia. Permette a chi ha più soldi di influenzare il governo, limitando la possibilità per i cittadini comuni di far sentire la propria voce. Il denaro condiziona le elezioni e l’accesso a chi decide le regole dell’economia. Diversi studi mostrano che i cittadini con un reddito medio hanno pochissima influenza sulle decisioni politiche importanti a livello nazionale, rispetto invece ai ricchi e ai gruppi di interesse. Sentire di non contare nulla nella vita politica alimenta un profondo scontento tra le persone.Il mito della meritocrazia e i suoi effetti
Un’altra conseguenza della disuguaglianza è la diffusione dell’idea che il successo dipenda solo dal merito personale. Chi raggiunge posizioni elevate tende a credere di meritare pienamente le proprie ricchezze, mentre chi rimane indietro viene considerato responsabile del proprio destino. Questo concetto di meritocrazia, apparentemente giusto, in realtà non risolve la disuguaglianza. Le opportunità di partenza non sono uguali per tutti, e i gradini della scala sociale sono sempre più lontani l’uno dall’altro. Inoltre, questa visione genera arroganza in chi si considera un “vincente” e senso di umiliazione in chi si sente un “perdente”. Questo rende molto difficile accettare l’idea di ridistribuire la ricchezza in modo più equo. Le élite politiche hanno spesso proposto l’istruzione universitaria come la soluzione principale alla disuguaglianza, dicendo ai lavoratori che dovevano andare al college per avere successo nell’economia globale. Questo messaggio non teneva conto che la maggior parte degli americani non ha una laurea e suggeriva implicitamente che il loro mancato successo fosse colpa loro. Questo modo di pensare, che dà troppa importanza ai titoli di studio, si vede anche negli scarsi investimenti nella formazione per mestieri pratici e nella mancanza di rappresentanza delle classi lavoratrici in politica.Il cambiamento della politica e la divisione sociale
Oggi, la divisione politica più forte non è solo tra destra e sinistra, ma tra chi ha una laurea e chi no. I partiti che un tempo rappresentavano i lavoratori si sono avvicinati sempre più alle élite istruite, mentre i partiti di destra hanno attratto gli elettori con meno istruzione. Questo cambiamento nel panorama politico ha contribuito a non affrontare in modo efficace la crescente disuguaglianza sociale ed economica.La recente pandemia ha mostrato che i meccanismi del mercato non sono leggi naturali immutabili. Ha dimostrato che è possibile usare grandi quantità di risorse finanziarie attraverso decisioni politiche, mettendo in discussione l’idea che l’economia sia qualcosa al di fuori del controllo umano. La politica non dovrebbe solo gestire il commercio, ma discutere e decidere insieme il modo migliore di vivere e cosa consideriamo davvero importante. Lasciare che siano solo i mercati a decidere il valore delle cose evita questo dibattito pubblico, permettendo di fatto ai ricchi e ai potenti di prendere queste decisioni. La sfida che abbiamo davanti è riprendere il controllo politico sul nostro futuro economico e sociale.È sufficiente attribuire l’elezione di Trump e la crescente frattura sociale unicamente alla disuguaglianza economica generata dalla globalizzazione finanziaria?
Il capitolo presenta una visione forte e coerente, ma la relazione causale tra disuguaglianza economica e fenomeni politici complessi come l’elezione di un presidente o la ridefinizione delle fratture sociali è oggetto di dibattito. Altri fattori, come le dinamiche culturali, le questioni identitarie, l’impatto della tecnologia e i cambiamenti demografici, giocano un ruolo significativo e interagiscono con le forze economiche in modi non sempre lineari. Per approfondire queste interconnessioni, può essere utile esplorare studi in sociologia politica, economia comportamentale e scienze della comunicazione. Autori come Thomas Piketty, Francis Fukuyama o Manuel Castells offrono prospettive diverse che possono arricchire la comprensione di questi fenomeni complessi.Abbiamo riassunto il possibile
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