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Informazioni
“Jihad in Africa. Terrorismo e controterrorismo nel Sahel” di Edoardo Raineri ti porta nel cuore del Sahel, la regione africana che è diventata il nuovo centro del jihadismo globale dopo il declino dello Stato Islamico in Medio Oriente. Questo libro non si ferma alla superficie, ma scava a fondo per capire perché gruppi come quelli legati ad Al-Qaeda Sahel e ISIS Sahel riescono a radicarsi. Scoprirai che non è solo una questione di ideologia, ma di come questi movimenti sfruttano le fragilità locali: la mancanza dello stato, la povertà, le tensioni sociali e le lotte per risorse vitali come terra e bestiame, integrandosi nell’economia informale Sahel. Ma il libro analizza anche l’altra faccia della medaglia: il controterrorismo Sahel. Mostra come gli interventi internazionali Sahel, mossi da interessi diversi di potenze globali e regionali, spesso non riescano a risolvere l’instabilità Sahel, anzi, a volte la peggiorano, creando un quadro complesso dove terrorismo Africa, dinamiche locali e rivalità esterne si intrecciano continuamente. È una lettura essenziale per capire la crisi Mali e l’escalation della violenza in tutta la regione.Riassunto Breve
Il Sahel diventa un’area centrale per il jihadismo globale, spostando l’attenzione dal Medio Oriente dopo la perdita territoriale dello Stato Islamico. Al-Qaeda, radicata nel salafismo algerino, ha una forte presenza, mentre lo Stato Islamico opera tramite affiliazioni. L’implosione di stati come il Mali nel 2012, legata alle rivolte arabe, mostra il ruolo di gruppi affiliati ad Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) che destabilizzano la regione e attaccano obiettivi esterni. Il Sahel, percepito come una frontiera di crisi e minaccia per la sicurezza globale (migrazioni, jihadismo), riceve ingenti aiuti per la sicurezza da diverse potenze mondiali, nonostante la povertà. La violenza jihadista e la sua repressione aumentano e si espandono verso sud. Comprendere il jihadismo in Africa richiede di analizzare il rapporto tra Islam e politica, le narrazioni storiche, gli effetti sociali della liberalizzazione e l’economia delle rivolte, considerando anche l’impatto delle operazioni antiterrorismo internazionali. Il Sahel è lo spazio dove il jihadismo transnazionale si consolida.Il Sahel è storicamente definito da attori esterni come un’area di confine e alterità. La narrazione più recente lo descrive come “Sahelistan”, un’area intrinsecamente insicura e focolaio di terrorismo, specialmente dopo la crisi maliana del 2012. La diffusione del jihadismo non è scontata e le cause sono dibattute, tra estensione del jihad globale e problemi locali. La ricerca indica che il jihadismo saheliano è complesso, influenzato da fattori interconnessi come l’abuso statale, la corruzione e la marginalizzazione sociale. I gruppi sfruttano le economie informali e le tensioni locali, offrendo un’alternativa all’ordine statale percepito come ingiusto.Il radicamento dei gruppi jihadisti è strettamente legato alle dinamiche locali di gestione delle risorse naturali e alle trasformazioni socio-economiche. Nel bacino del Lago Ciad, la presenza jihadista si inserisce nella competizione per terre e pesca; gruppi come ISWAP controllano mercati e tassano, offrendo servizi dove lo stato è debole. In Mali, il jihadismo si lega al pastoralismo e alla pratica del *confiage* (affidamento del bestiame), integrandosi nelle reti sociali ed economiche locali. L’acquisto di bestiame da parte di élite urbane e la necessità di gestirlo fuori dal controllo statale trovano nel *confiage* jihadista un meccanismo efficace. Questo “jihad bovino” è una ristrutturazione sociale ed economica che risponde alla marginalizzazione di alcuni gruppi. La violenza armata afferma questo nuovo ordine e garantisce il controllo su risorse e mobilità.La crisi nel Sahel deriva da trasformazioni storiche che hanno indebolito le strutture sociali ed economiche. La marginalizzazione di gruppi come i Kel Tamasheq e la precarietà diffusa creano un contesto favorevole a movimenti armati. L’adesione a questi gruppi è spesso una risposta pratica alla mancanza di sicurezza, alle difficoltà economiche e all’assenza dello stato. Le persone si uniscono per necessità, paura o protezione. Mantenere diverse reti sociali (stato, movimenti locali, gruppi jihadisti) è una strategia di sopravvivenza. Le donne non sono solo vittime; svolgono ruoli attivi (logistica, informazioni, integrazione tramite matrimoni strategici), influenzate dalle norme di genere e dalla ricerca di sicurezza o status.Il Sahel diventa centrale per la sicurezza internazionale dopo l’11 settembre. Inizialmente, gli interventi mirano a rafforzare le capacità degli stati locali. Dopo la crisi in Mali e l’aumento dei flussi migratori, l’intervento cambia, concentrandosi sulla “stabilizzazione” e sul rafforzamento militare dei governi locali, spesso tramite organizzazioni come il G5 Sahel. L’UE lega la sicurezza interna alla stabilità del Sahel. La regione è anche un teatro di competizione tra diverse potenze (Francia, USA, Cina, Turchia, Golfo, Algeria, Marocco) che perseguono i propri interessi strategici ed economici. Questa rivalità permette agli stati saheliani di ottenere risorse, ma rafforza sistemi di governo disfunzionali e repressivi. Gli interventi internazionali non affrontano le cause profonde dell’instabilità e, supportando governi deboli e violenti, alimentano la crisi e l’espansione dei gruppi jihadisti.L’intervento europeo contro il terrorismo nel Sahel è un insieme eterogeneo di iniziative (“patchwork”), legato alla percezione di una minaccia transnazionale e ai flussi migratori. La cooperazione è strategico-politica, organizzativa e procedurale. Francia e UE sono mediatori chiave. L’instabilità in Mali è legata a fragilità interne: il governo centrale non fornisce servizi e sicurezza, specialmente nel Nord, generando abbandono e discriminazione etnica. Le motivazioni per l’adesione a gruppi armati includono sopravvivenza, opportunità economiche e protezione in assenza statale. L’influenza esterna e le operazioni di controterrorismo sono viste con sospetto. L’analisi dei detenuti in Mali mostra che molti appartengono a gruppi etnici del Nord o a movimenti indipendentisti non strettamente jihadisti. La lotta al terrorismo rischia di criminalizzare il dissenso politico e le richieste di autonomia, usando la mancanza di una definizione univoca di terrorismo per consolidare il controllo statale.Nel paese Dogon, in Mali centrale, la gestione della terra causa conflitti che si intrecciano con la presenza di gruppi armati. Accordi tra villaggi e jihadisti trasferiscono l’amministrazione ai combattenti, che impongono tasse. Questo avviene in assenza dello stato, un vuoto che i gruppi (ISGS, Katiba Macina) sfruttano per radicarsi. I conflitti per la terra non sono nuovi, ma l’arrivo dei jihadisti cambia la situazione. Offrono un discorso che contesta le norme tradizionali di proprietà, promuovendo l’idea di proprietà divina delle risorse. Questo messaggio trova ascolto tra gruppi marginalizzati che vedono nel jihadismo un modo per sfidare le disuguaglianze e rinegoziare l’accesso a pascoli e acqua. L’adesione ai gruppi armati diventa una strategia per ottenere rispetto e potere. L’escalation della violenza è legata a dispute agrarie. Incidenti specifici portano alla formazione di milizie di autodifesa come Dan Nan Ambassagou. Sia i gruppi jihadisti che le milizie impongono il proprio controllo sul territorio e sulla popolazione, usando la violenza come strumento di governo. La questione agraria è centrale in questo complesso “ecosistema di conflitti”, dove diversi attori lottano per il potere e il controllo delle risorse.Riassunto Lungo
1. Il Sahel come nuova frontiera del jihadismo globale
L’Africa è diventata un’area fondamentale per la diffusione delle correnti jihadiste moderne, in particolare la regione del Sahel. Questo sposta l’attenzione che prima era rivolta principalmente al Medio Oriente, soprattutto dopo che lo Stato Islamico ha perso il controllo dei suoi territori. Anche se lo Stato Islamico ha avuto una presenza in Egitto, Libia e attraverso gruppi affiliati come Boko Haram in Nigeria, la minaccia più significativa in Africa è rappresentata dalla rete di Al-Qaeda. Questa rete si è consolidata partendo dal salafismo in Algeria e ha influenzato gruppi come gli Shabaab in Somalia.Le radici del conflitto nel Sahel
L’implosione del Mali nel 2012, avvenuta dopo le rivolte arabe del 2011, ha mostrato chiaramente il ruolo dei gruppi legati ad Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI). Questi gruppi hanno guidato l’insurrezione nel nord del Mali e hanno causato instabilità anche nel centro del paese, portando attacchi che hanno superato i confini nazionali e colpito obiettivi occidentali. A differenza dello Stato Islamico, Al-Qaeda dimostra di avere una strategia pensata per il lungo termine.Il Sahel come frontiera cruciale per la sicurezza
La regione del Sahel, che un tempo era considerata isolata e povera, è ora vista come una frontiera essenziale per la sicurezza a livello mondiale. È percepita come un’area di crisi e un luogo dove si sperimentano nuove politiche estere e di difesa. Nonostante la sua povertà, i paesi del Sahel investono molto nella difesa e ricevono aiuti per la sicurezza da diverse potenze globali, tra cui Europa, USA, Russia, Cina, Turchia e paesi del Golfo. La regione viene presentata come un confine chiave nella lotta contro fenomeni come le migrazioni e il jihadismo.L’espansione della violenza
Tra il 2010 e il 2020, il crollo degli stati in Libia e Mali ha messo in luce lo stretto legame con l’attività jihadista. La violenza legata a questa insurrezione e ai tentativi di contrastarla è in aumento e si sta diffondendo verso sud. Questo coinvolge paesi come Niger, Burkina Faso, Costa d’Avorio e la regione del Golfo di Guinea. Intanto, nuove formazioni legate allo Stato Islamico stanno emergendo anche in altre parti del continente africano.Comprendere il jihadismo in Africa
Per studiare il jihadismo in Africa è necessario analizzare diversi aspetti. Bisogna considerare il rapporto tra la religione islamica e la politica, le narrazioni storiche del concetto di jihad e gli effetti sociali causati dalla liberalizzazione. È importante anche guardare all’economia che alimenta le rivolte. Inoltre, bisogna valutare l’impatto delle operazioni antiterrorismo internazionali, che in certi casi hanno addirittura preceduto l’inizio dell’insurrezione stessa. È fondamentale un’analisi critica che prenda in considerazione il contesto sociale locale, l’economia della regione, la gestione del potere (governance) e le rivalità internazionali che influenzano l’area. L’analisi si concentra sulle risorse sia materiali che ideologiche che i movimenti jihadisti utilizzano. L’Africa è il luogo dove il jihadismo che agisce su scala transnazionale si sta consolidando, con il Sahel che rappresenta il centro di questo processo e degli sforzi per contrastarlo.Definire il Sahel una “nuova frontiera del jihadismo globale” non rischia di semplificare eccessivamente dinamiche locali complesse, riducendo tutto a una minaccia transnazionale?
Il capitolo, pur menzionando fattori locali, pone un’enfasi preponderante sulla cornice del “jihadismo globale”. Per comprendere appieno la situazione, è fondamentale integrare questa prospettiva con analisi che mettano in luce le radici endogene dei conflitti, la fragilità statale, le tensioni socio-economiche e l’impatto, a volte controproducente, delle politiche esterne e di sicurezza. Approfondire studi di politologia, sociologia e antropologia focalizzati sull’Africa sub-sahariana, e leggere autori che criticano le narrazioni securitarie, può offrire un quadro più sfumato e completo.2. Il Sahel, uno spazio conteso tra narrazioni esterne e dinamiche interne del jihadismo
Il Sahel è stato spesso visto da chi sta fuori come una zona di confine, diversa dal resto dell’Africa. All’inizio era considerato la “riva” del deserto del Sahara, poi è diventato un’importante via di scambio. Durante il periodo coloniale francese, questa zona fu trattata in modo speciale, creando distinzioni basate su dove si trovava, la religione e l’origine delle persone. Più di recente, si è diffusa l’idea che il Sahel sia una regione sempre insicura e instabile, un luogo dove nascono i terroristi che minacciano la sicurezza di tutto il mondo, specialmente l’Europa. Questa visione è diventata molto forte dopo la crisi in Mali nel 2012 ed è legata alla presenza di gruppi armati legati al jihadismo.Le cause del jihadismo: un dibattito aperto
La diffusione del jihadismo nel Sahel non era affatto scontata e le ragioni sono molto discusse. Alcuni pensano che sia solo una parte del movimento jihadista globale che si è esteso. Altri invece credono che sia una conseguenza diretta dei problemi che esistono sul posto. Ci si chiede anche se le persone diventino estremiste per motivi legati alle idee religiose o per problemi sociali. Un altro punto di dibattito è se il jihadismo cresca perché gli stati della regione sono deboli o, al contrario, perché gli stati usano il loro potere in modo sbagliato. Infine, non è chiaro se questi gruppi siano principalmente mossi da obiettivi politici o se siano più simili a organizzazioni criminali.La realtà complessa sul campo
Le ricerche mostrano che il jihadismo nel Sahel è un fenomeno complicato, influenzato da tanti fattori che si legano tra loro. Gli abusi da parte dello stato, la corruzione e il fatto che alcune parti della popolazione siano lasciate ai margini creano molto malcontento. Questo malcontento rende più facile per i gruppi estremisti trovare persone disposte a unirsi a loro. I gruppi jihadisti sanno come sfruttare le attività economiche non ufficiali e le tensioni che già esistono tra le diverse comunità locali. Offrono un’alternativa a un sistema statale che molte persone vedono come ingiusto. Per capire davvero queste dinamiche, è fondamentale fare ricerche approfondite e specifiche sul posto, parlando con le persone e analizzando la situazione locale in modo dettagliato.Se le cause del jihadismo sono un ‘dibattito aperto’ e la realtà è ‘complessa’, non si rischia di restare intrappolati nelle stesse ‘narrazioni esterne’ che il capitolo critica?
Il capitolo identifica correttamente la distanza tra le ‘narrazioni esterne’ semplicistiche e la ‘realtà complessa’ del jihadismo nel Sahel, sottolineando come le cause siano ancora oggetto di un ‘dibattito aperto’. Tuttavia, questa stessa apertura e complessità, se non adeguatamente esplorate, rischiano di lasciare il lettore senza gli strumenti necessari per superare le visioni riduttive che il capitolo critica. Per comprendere appieno le dinamiche in gioco e distinguere tra percezioni esterne e realtà sul campo, è fondamentale approfondire lo studio delle relazioni stato-società nel contesto africano post-coloniale, esplorare le ricerche antropologiche e sociologiche che analizzano le tensioni locali e le motivazioni individuali, e consultare studi basati su ricerche approfondite sul campo nella regione.3. Jihad e Controllo: Economie Informali e Bestiame nel Sahel
Il modo in cui gruppi come Boko Haram, ISWAP e quelli attivi in Mali si sono radicati è strettamente connesso a come vengono gestite le risorse naturali in quelle zone e alle trasformazioni della società e dell’economia locale. Questo fenomeno si osserva in diverse aree del Sahel, con dinamiche specifiche che variano a seconda del contesto. Due esempi importanti sono il bacino del Lago Ciad e il Mali, dove il legame tra gruppi armati, economie informali e controllo territoriale è particolarmente evidente. Comprendere queste connessioni è fondamentale per capire la persistenza e l’evoluzione del jihadismo in queste regioni. Si vede chiaramente come la lotta per le risorse e l’adattamento alle strutture economiche locali siano elementi centrali nella strategia di questi gruppi.Controllo Economico nel Bacino del Lago Ciad
Nel bacino del Lago Ciad, la presenza di questi gruppi si inserisce in un’area dove c’è molta competizione per le terre fertili e le zone di pesca. Questa competizione è peggiorata dalla divisione amministrativa e dallo sfruttamento intenso delle risorse. Gruppi come ISWAP prendono il controllo regolando i mercati e chiedendo tasse. Offrono servizi e una forma di giustizia dove lo Stato o le autorità tradizionali sono deboli o corrotte. Questo crea una situazione in cui l’accesso alle opportunità economiche, come vendere pesce o bestiame, dipende dai legami con i gruppi armati.Jihadismo e Bestiame in Mali: La Pratica del Confiage
In Mali, il legame è forte con l’allevamento di bestiame che si sposta da un posto all’altro. Qui è importante la pratica del confiage, che consiste nell’affidare il proprio bestiame a pastori di fiducia. I gruppi jihadisti usano questa pratica storica per entrare nelle reti sociali ed economiche locali. Molte persone ricche delle città comprano grandi quantità di bestiame e hanno bisogno di qualcuno che lo gestisca in zone lontane, spesso dove lo Stato non ha controllo. Il confiage gestito dai jihadisti diventa un modo efficace per farlo. Inoltre, la diffusione di uno stile di vita legato al Salafismo tra pastori e capi pastori cambia le vecchie alleanze tra famiglie e il modo di accedere ai pascoli. Questo fenomeno, chiamato “jihad bovino”, non è solo violenza. È una vera e propria riorganizzazione della società e dell’economia. Risponde alle difficoltà create dall’integrazione delle aree di pascolo nello Stato moderno e dalla marginalizzazione di alcuni gruppi. La violenza armata serve a imporre questo nuovo ordine e ad assicurare il controllo su risorse e spostamenti.È davvero ‘terrorismo’ o repressione politica mascherata da sicurezza?
Il capitolo solleva un punto cruciale: la lotta al terrorismo nel Sahel, come descritto, sembra confondersi con la repressione del dissenso politico e delle rivendicazioni autonomiste. Questa ambiguità, favorita dalla mancanza di una definizione univoca di terrorismo, suggerisce che l’intervento esterno e le azioni dello stato maliano possano non affrontare le cause profonde dell’instabilità, ma piuttosto etichettare come “terrorismo” fenomeni che hanno radici sociali, economiche e politiche. Per comprendere meglio questa dinamica e distinguere tra legittime rivendicazioni e minacce reali, sarebbe utile approfondire discipline come la scienza politica (in particolare gli studi sui conflitti e sulla fragilità statale) e la sociologia politica. Autori come Mahmood Mamdani offrono prospettive critiche sull’uso del termine “terrorismo” e sul rapporto tra potere, identità e violenza nei contesti post-coloniali.7. La Terra Contesa e la Nascita delle Milizie
Nel paese Dogon, nel Mali centrale, la gestione della terra provoca tensioni che si legano alla presenza di gruppi armati. Lo stato e i suoi servizi, inclusa la giustizia, sono spesso assenti in queste aree rurali. Questa mancanza permette a gruppi jihadisti, come ISGS e Katiba Macina, di radicarsi nel territorio. Essi sfruttano il vuoto di potere per imporre il proprio controllo. Stringono accordi con i villaggi, come è avvenuto tra il 2020 e il 2021, trasferendo di fatto l’amministrazione del territorio ai combattenti. Questi ultimi impongono poi tasse sull’accesso ai campi coltivati. Le dispute sulla terra non sono nuove, ma l’arrivo dei jihadisti dal 2015 ha cambiato profondamente la situazione. Questi gruppi diffondono un’idea che mette in discussione le regole tradizionali di proprietà e le autorità locali, come capi terra e capi villaggio. Promuovono invece il concetto che le risorse appartengano solo a Dio. Questo messaggio trova ascolto tra le persone che si sentono messe da parte, come alcuni pastori Toleebe. Essi vedono nel jihadismo un modo per sfidare le ingiustizie sociali ed economiche. Sperano così di ottenere un accesso migliore a pascoli e acqua. Unirsi ai gruppi armati diventa quindi una strategia per guadagnare rispetto e potere all’interno della comunità.L’Escalation della Violenza e la Nascita delle Milizie
L’aumento della violenza è strettamente legato alle liti per la terra. Un episodio significativo è avvenuto a Yangassadiou nel 2015. I jihadisti sono intervenuti in una disputa tra agricoltori e pastori, uccidendo sette contadini. Questo mostra come la presenza armata trasformi i conflitti locali in eventi sanguinosi. Un altro caso è quello di Gondo Oguru nel 2017. È iniziato con un furto di bestiame ed è finito con l’uccisione di un cacciatore da parte dei jihadisti. La reazione immediata è stata la formazione del movimento di autodifesa Dan Nan Ambassagou. Questo gruppo si ispira ai cacciatori tradizionali (Dana) ed è nato per proteggere la popolazione, i beni e le pratiche religiose locali. La loro azione è una risposta diretta alla minaccia jihadista e all’assenza dello stato.Il Controllo del Territorio e la Lotta per le Risorse
Sia i gruppi jihadisti che le milizie di autodifesa esercitano il proprio controllo sul territorio e sulla popolazione. Entrambi usano la violenza come strumento per governare. I jihadisti, come ISGS, cercano di imporre una visione rigida dell’Islam. Tentano anche una “riforma agraria” che limita l’agricoltura per favorire l’allevamento. Dan Nan Ambassagou, invece, controlla strettamente gli abitanti. A volte arriva a sfidare le autorità tradizionali e statali, se sospettate di collaborare con i jihadisti. In questo complesso scenario di conflitti, la questione della terra rimane fondamentale. Diversi attori lottano per il potere e il controllo delle risorse, usando metodi violenti.Affermare che lo Stato è semplicemente ‘assente’ non ignora forse le dinamiche più sottili del potere e della governance in contesti fragili?
Il capitolo, pur evidenziando correttamente il legame tra l’assenza statale e il radicamento dei gruppi armati, potrebbe beneficiare di un’analisi più approfondita sulle cause e le forme di tale “assenza”. Lo Stato non è sempre uniformemente assente, ma la sua presenza può essere debole, selettiva o contestata, interagendo in modi complessi con le autorità locali e i nuovi attori armati. Per comprendere meglio queste dinamiche, sarebbe utile esplorare gli studi sulla statualità e la governance in contesti post-coloniali e fragili, magari leggendo autori che si occupano di antropologia politica o di scienze politiche focalizzate sul Sahel.Abbiamo riassunto il possibile
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