1. Giustizia negata e leggende di vendetta
Durante il viceregno di Ettore Pignatelli, conte di Monteleone, all’inizio del Cinquecento, la giustizia ufficiale mostrava gravi carenze. Nonostante alcune descrizioni lo presentino come un uomo giusto, i resoconti dell’avvocato fiscale Antonio Montalto all’imperatore Carlo V dipingono un quadro molto diverso. Il viceré era considerato troppo indulgente verso i nobili e il fenomeno del banditismo, permettendo che la legge venisse applicata quasi esclusivamente alle persone comuni. Baroni e conti potevano commettere delitti gravi, inclusi omicidi e la protezione di fuorilegge, ma ricevevano perdoni gratuiti o multe di valore insignificante. La giustizia appariva “bassa e disreputata”, e i testimoni erano spesso intimiditi, rendendo difficile perseguire i crimini. L’isola era pervasa da violenza e oppressione, mentre i potenti godevano di quasi totale impunità.L’Origine della Leggenda: Sicari e Segreti
In un periodo di grandi cambiamenti politici, nel 1841, la leggenda dei Beati Paoli inizia a prendere forma letteraria. Vincenzo Linares pubblica informazioni sulla presunta setta, basandosi sugli appunti del marchese di Villabianca. Secondo quanto riportato da Villabianca, i Beati Paoli sarebbero stati i successori dei Vendicosi, un gruppo nato nel 1185. Questa setta era descritta come composta da sicari che si riunivano in segreto in cripte sotterranee a Palermo. Il loro scopo era organizzare delitti su commissione, soprattutto per conto di borghesi che non avevano i mezzi economici per assoldare squadre di bravi, come invece potevano fare i nobili. Villabianca menziona due persone condannate a morte nei primi anni del Settecento, Giuseppe Amatore (impiccato nel 1704) e Girolamo Ammirata (impiccato nel 1723), che egli riteneva appartenenti a questa setta misteriosa. Descriveva anche il luogo dove si tenevano le riunioni segrete: una grotta situata sotto una casa nel rione del Capo, collegata ad altre cavità sotterranee presenti nel sottosuolo della città.La Trasformazione nel Romanzo: Giustizieri Incappucciati
Nei primi anni del Novecento, lo scrittore Luigi Natoli diede una nuova immagine ai Beati Paoli attraverso un popolare romanzo storico. Nella sua narrazione, le figure dei Beati Paoli cambiano radicalmente: da semplici sicari su commissione, diventano giustizieri mascherati. Questi personaggi incappucciati si dedicano a vendicare i soprusi commessi dai potenti nella Palermo del Settecento, agendo dai loro nascosti tribunali sotterranei. Questa versione romanzata, grazie alla sua grande popolarità, finisce per sostituire la memoria storica nella percezione comune. I Beati Paoli diventano così un simbolo, sinonimo di paladini dei diseredati, figure che intervengono per ristabilire un senso di diritto e giustizia laddove le istituzioni ufficiali falliscono. Questa immagine si radica profondamente nella memoria popolare siciliana, rappresentando una forma di resistenza all’ingiustizia subita.Ma la “storia” dei Beati Paoli raccontata nel capitolo è la storia di un gruppo reale o piuttosto la storia di una leggenda letteraria?
Il capitolo descrive efficacemente la nascita letteraria della leggenda dei Beati Paoli nel XIX e XX secolo, partendo dagli appunti di Villabianca. Tuttavia, resta poco chiaro quanto ci sia di storicamente accertato sull’esistenza e l’attività di un gruppo organizzato con queste caratteristiche nei secoli precedenti, in particolare dal XII al XVIII secolo, come suggerito dalla leggenda stessa. Per discernere meglio tra fatto storico e costruzione narrativa, sarebbe fondamentale esaminare criticamente le fonti citate (come gli appunti di Villabianca) e cercare eventuali riscontri in documenti d’epoca indipendenti. Approfondire gli studi sulla storia della criminalità e della giustizia in Sicilia, sulle società segrete o confraternite e sulla genesi delle leggende popolari può aiutare a contestualizzare meglio il fenomeno. Autori che si sono occupati di storia sociale siciliana o di storia delle tradizioni popolari possono offrire spunti essenziali.2. Mercanti e Ospedali: La Via Palermitana al Potere
Nei primi anni del Cinquecento, Palermo fu teatro di intense tensioni sociali, economiche e di accese lotte per il potere tra i gruppi che contavano in città. Molti dei protagonisti di questi scontri, inclusi i moti contro il viceré Moncada e la congiura degli Imperatore, provenivano da una potente borghesia mercantile e finanziaria con forti radici pisane. Questo gruppo non si limitava a dominare il commercio e la finanza, ma ambiva a entrare a pieno titolo nella nobiltà cittadina. La presenza pisana a Palermo aveva origini antiche, risalendo addirittura alla conquista normanna, e si era consolidata nel tempo con l’istituzione di proprie aree commerciali e centri d’affari. L’arrivo di ulteriori pisani dopo la conquista fiorentina di Pisa, in particolare nel 1509, rafforzò ulteriormente questo gruppo. Essi non erano una semplice comunità straniera, ma divennero il cuore pulsante della borghesia palermitana, controllando le leve finanziarie e inserendosi progressivamente nelle cariche pubbliche, spesso stringendo alleanze strategiche con famiglie già potenti come i Bologna.L’Ospedale Grande come Strumento di Potere
Uno strumento fondamentale che questa élite borghese utilizzò per la propria scalata sociale e per rafforzare il proprio potere fu l’amministrazione delle istituzioni assistenziali pubbliche. Tra queste, l’Ospedale Grande rivestiva un’importanza cruciale. Fondato nel 1431, l’Ospedale accumulò nel tempo un patrimonio immenso grazie a copiose donazioni di terre, rendite e persino abbazie. Questo gli garantì non solo ricchezza, ma anche importanti privilegi, come l’esenzione da determinate giurisdizioni e un posto riservato in Parlamento per la figura dell’Ospedaliere.Gestione, Conflitti e Famiglie Dominanti
Gestire l’Ospedale e altre opere pie offriva opportunità economiche enormi, derivanti dalla gestione diretta dei vasti beni, dalla riscossione delle rendite e dal controllo sul personale. Per questo motivo, le cariche di rettore e ospedaliere divennero estremamente ambite e furono di fatto monopolizzate da un numero ristretto di famiglie. Tra queste spiccavano quelle di origine pisana, come gli Alliata, gli Ajutamicristo e i del Tignoso, affiancate dai loro potenti alleati, tra cui i Bologna e i Branciforte. Le lotte intestine all’oligarchia palermitana ruotavano in gran parte attorno al controllo di queste cariche redditizie e di altri uffici pubblici. Famiglie come i Bologna e gli Alliata seppero sfruttare i periodi di disordine e le confische che ne derivavano per espandere i propri feudi, acquisire titoli nobiliari e garantirsi uffici chiave, consolidando così la loro posizione dominante. Anche famiglie che partivano da una situazione economica meno solida, come i Branciforte, riuscirono ad accumulare ricchezze e prestigio sfruttando l’amministrazione dell’Ospedale e intessendo alleanze strategiche. Purtroppo, la gestione dell’Ospedale stesso fu segnata da episodi di furto e malversazioni da parte di chi lo amministrava.Ma se l’Ospedale era uno strumento di potere e malversazione, chi pagava il prezzo di questa “via palermitana”?
Il capitolo descrive con precisione come l’élite mercantile e finanziaria di Palermo utilizzasse l’amministrazione dell’Ospedale Grande per consolidare il proprio potere e arricchirsi, arrivando persino a episodi di furto e malversazione. Tuttavia, l’analisi si concentra quasi esclusivamente sui beneficiari di tale sistema (le famiglie dominanti) e sulle meccaniche della loro ascesa sociale ed economica. Manca quasi del tutto la prospettiva di coloro che, in teoria, avrebbero dovuto essere i beneficiari dell’istituzione: i poveri, i malati, i bisognosi della città. Per colmare questa lacuna e comprendere appieno le implicazioni sociali di tale gestione, sarebbe fondamentale indagare l’impatto concreto di queste pratiche sull’effettiva erogazione dell’assistenza. Si potrebbe approfondire la storia sociale di Palermo nel Cinquecento, studiando le condizioni di vita delle classi subalterne e l’evoluzione delle politiche assistenziali. Utile sarebbe consultare lavori di storici che si occupano di storia della povertà, storia della medicina e delle istituzioni ospedaliere in età moderna, e storia urbana del Meridione.3. La fusione mancata: Nuove fortune e vecchi poteri in Sicilia
Nel Cinquecento in Sicilia, una nuova classe sociale stava prendendo forza. Era composta da mercanti, banchieri, avvocati e funzionari, persone che avevano accumulato ricchezze. Questa borghesia emergente iniziò a comprare terre e feudi dai baroni, che spesso erano pieni di debiti. Possedere la terra non era solo un investimento, ma un modo per salire nella scala sociale, ottenere titoli nobiliari e incarichi importanti nel governo. Per rafforzare la loro posizione, queste nuove famiglie ricche organizzavano matrimoni tra i loro figli e quelli dell’antica aristocrazia.Conflitti tra vecchio e nuovo potere
Questa situazione creò tensioni e conflitti. La vecchia nobiltà feudale non accettava facilmente l’ascesa dei borghesi, anche se questi ultimi erano loro vassalli. Usavano la prepotenza per mantenere il loro dominio. Molti borghesi, non più disposti a subire passivamente, chiesero aiuto e protezione direttamente al re.La rivolta baronale del 1516
La morte del re Ferdinando il Cattolico nel 1516 scatenò una rivolta guidata dai baroni contro il rappresentante del re in Sicilia, il viceré Moncada. I baroni ribelli, per lo più membri dell’antica nobiltà, speravano di ottenere maggiori privilegi dal nuovo re, Carlo V. Anche alcuni borghesi, spinti dalle proprie ambizioni, si unirono a questa rivolta.L’intervento della Chiesa e l’ordine ristabilito
In questo momento di crisi, la Chiesa intervenne in modo significativo. A Palermo, in una chiesa, venne “trovata” un’immagine religiosa che raffigurava la battaglia tra angeli fedeli e angeli ribelli. Questa immagine, quella dei Sette Angeli, fu molto pubblicizzata e divenne oggetto di grande devozione sia tra la gente comune che tra i nobili. L’immagine veicolava un messaggio chiaro: la fedeltà all’autorità (come gli angeli fedeli a Dio) era giusta, mentre la ribellione (come gli angeli ribelli) era sbagliata. Questo messaggio influenzò figure importanti, come Pietro Cardona, conte di Collesano, che decise di tornare a sostenere il re.L’esito: integrazione senza trasformazione
La crisi si concluse con l’ingresso della borghesia emergente nella classe dirigente che già esisteva. Tuttavia, questa integrazione non portò a un vero cambiamento nella società siciliana. I nuovi nobili adottarono lo stesso stile di vita e gli stessi interessi della vecchia nobiltà feudale. Si concentrarono sull’ottenere rendite dalla terra e sugli incarichi pubblici, usandoli per il proprio tornaconto invece di promuovere nuove attività economiche. Il viceré Pignatelli consolidò il potere di questa nuova classe dirigente mista. La Sicilia perse così l’opportunità di una trasformazione profonda e di uno sviluppo diverso.Il capitolo si chiude con i tentativi di riforma del viceré Olivares e l’inquietante incendio dei documenti. Ma il lettore resta con il dubbio: questa oligarchia fu davvero scalfita, o l’incendio fu solo l’ennesima dimostrazione della sua intoccabilità?
Il capitolo descrive un momento di tensione tra il potere viceregio e l’oligarchia locale, ma non chiarisce l’esito di questo scontro. Per comprendere se i tentativi di riforma abbiano avuto un impatto reale o se l’incendio dei documenti rappresenti la definitiva affermazione dell’intoccabilità oligarchica, è indispensabile approfondire la storia politica della Sicilia spagnola nel periodo successivo al viceregno di Olivares. È necessario studiare le dinamiche di potere tra la Corona, i viceré e le élite locali, analizzando come le istituzioni venissero piegate agli interessi privati. Un approccio basato sulla storia istituzionale e sulla storia politica, consultando autori che si sono dedicati alla Sicilia in età moderna, può fornire gli strumenti per rispondere a questo cruciale interrogativo.6. Tracce e Silenzi di una Fazione
Prima che la letteratura li trasformi in leggenda, i Beati Paoli non sono un mistero completo per chi studia la storia. Sono conosciuti come una fazione con scopi politici e militari, e si sa in quale periodo hanno agito. Una delle prime prove della loro esistenza si trova in una testimonianza letteraria del 1536, scritta da Pietro l’Aretino, che li menziona esplicitamente, dimostrando che erano attivi già prima di quella data. La scomparsa di documenti ufficiali risalenti al 1518-19 suggerisce inoltre che eventuali indagini o processi a loro carico potrebbero essere stati rapidamente insabbiati o coperti.Tracce nel tempo
Nel Settecento, una tradizione orale raccolta dal viaggiatore Hermann von Riedesel racconta di una setta simile, chiamata di San Paolo, che sarebbe stata attiva a Trapani nel Cinquecento. Passando all’Ottocento, prima che i romanzi li rendano celebri, il nome Beati Paoli viene usato da diversi gruppi politici segreti. Queste sette ottocentesche mettono in atto strategie di tensione e disordine, come dimostra un episodio avvenuto a Buccheri nel 1840, dove si pianificano disordini e incendi. Questi gruppi ottocenteschi utilizzano anche luoghi sotterranei per i loro incontri, come quelli presenti sotto la chiesa dei Santi Quaranta Martiri a Palermo, un luogo già legato a una confraternita pisana documentata fin dal Duecento.Interpretazioni e realtà storica
Il marchese di Villabianca, uno storico del Settecento, offre un’interpretazione specifica, affermando che l’Inquisizione avrebbe accusato i Beati Paoli di eresia, collegandoli ai Fraticelli, un gruppo ereticale. Villabianca sostiene inoltre che fossero sicari al soldo della “gente mezzana”, ovvero la borghesia o i ceti intermedi. Tuttavia, un’analisi più attenta dei documenti storici del Cinquecento rivela un quadro diverso. In quel periodo, è il ceto aristocratico, le famiglie nobili e potenti, a servirsi frequentemente di sicari per eliminare avversari politici, testimoni scomodi o nemici personali. Esempi noti includono i casi che coinvolsero i conti Abatellis e de Luna, il principe Lanza e il conte Del Carretto. Questi episodi dimostrano chiaramente come nobili di alto rango ordinassero omicidi e, grazie alle loro connessioni e al loro potere, riuscissero spesso a sfuggire alle conseguenze legali e alla giustizia.Il silenzio della storia ufficiale
Fino all’inizio dell’Ottocento, nonostante le varie testimonianze sulla loro esistenza, non si registra una grande curiosità o un interesse approfondito da parte degli storici ufficiali nei confronti dei Beati Paoli. Gli storici dell’epoca, spesso legati da rapporti di dipendenza o vicinanza alle potenti famiglie nobiliari, tendono a evitare di affrontare l’argomento. Questo silenzio non è casuale, ma è dovuto al rischio concreto di esporre e mettere in cattiva luce le stesse potenti famiglie aristocratiche, i cui antenati potrebbero essere stati coinvolti, direttamente o indirettamente, con la fazione. Questa riluttanza a criticare apertamente il potere costituito è evidente anche in figure come il poeta Giovanni Meli, che scrive satire pungenti contro il governo del tempo ma sceglie di non pubblicarle durante la sua vita, per timore di ritorsioni o per prudenza.Ma siamo sicuri che le ‘tracce nel tempo’ siano quelle di un’unica fazione, o non piuttosto la storia di un nome leggendario riutilizzato da gruppi diversi in epoche successive?
Il capitolo presenta una serie di indizi che attraversano i secoli, ma la connessione diretta tra la fazione del Cinquecento e le sette che ne adottarono il nome nell’Ottocento non è chiaramente dimostrata. Per colmare questa lacuna, sarebbe necessario approfondire la ricerca sulle fonti primarie di ciascun periodo, analizzando criticamente la natura e gli scopi dei gruppi menzionati. Lo studio della formazione delle leggende popolari e del loro impatto sulla storia sociale, così come l’analisi delle dinamiche delle società segrete ottocentesche, potrebbero fornire il contesto necessario. Approfondire autori che hanno studiato la storia della criminalità e delle organizzazioni segrete in Sicilia è fondamentale.Abbiamo riassunto il possibile
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