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Informazioni
“Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale” di Mariana Mazzucato ti fa riflettere su una domanda fondamentale: cos’è davvero il valore economico? E chi lo crea nella nostra economia globale? Il libro non dà risposte scontate, ma ti porta in un viaggio attraverso la storia del pensiero economico, dai primi pensatori che cercavano di capire cosa rendesse ricca una nazione, fino alle teorie moderne. Scopri come la definizione di valore è cambiata radicalmente nel tempo, passando dall’essere legata a cose concrete come la terra o il lavoro, a un’idea più sfuggente basata sul prezzo di mercato. Mazzucato sostiene che questa visione moderna, che misura il valore principalmente con il PIL, non riesce più a distinguere chi crea ricchezza da chi si limita a estrarla, spesso sfruttando posizioni di potere. Il settore finanziario, ad esempio, viene analizzato non solo come motore ma anche come grande estrattore di valore, così come certe pratiche legate all’innovazione e ai brevetti. Allo stesso tempo, il libro mette in luce il ruolo cruciale, ma spesso invisibile o sottovalutato, dello stato nell’assumersi rischi e guidare l’innovazione, un vero e proprio stato imprenditoriale. Capire questa differenza tra creazione ed estrazione di valore è fondamentale per affrontare problemi come la crescente disuguaglianza e per orientare la crescita economica verso obiettivi che vadano oltre il semplice profitto, puntando a un valore collettivo più ampio.Riassunto Breve
La definizione di cosa sia valore economico e attività produttiva non è fissa, ma cambia nel tempo a seconda di come la società e l’economia si evolvono. All’inizio, pensatori come i mercantilisti vedevano il valore nell’accumulo di metalli preziosi tramite il commercio, mentre i fisiocratici lo trovavano solo nella terra e nell’agricoltura. Con la rivoluzione industriale, economisti come Smith e Ricardo misero il lavoro al centro, distinguendo tra lavoro che produce beni materiali (produttivo) e servizi o rendite (improduttivo). Marx sviluppò questa idea, definendo produttivo il lavoro che crea plusvalore per il capitalista, cioè un valore maggiore del salario pagato. Poi è arrivata l’economia neoclassica, che ha cambiato tutto: il valore non dipende più da quanto lavoro serve o da dove viene, ma da quanto un bene è utile e scarso per il consumatore, e questo si riflette nel prezzo di mercato. Con questa visione, quasi tutto ciò che ha un prezzo sul mercato legale viene considerato produttivo, e la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo scompare. Questa idea influenza ancora oggi come misuriamo la ricchezza di una nazione, ad esempio con il PIL. Il PIL include cose come l’affitto figurativo per i proprietari di casa ma esclude il lavoro domestico non pagato, e valuta il settore pubblico solo in base ai costi, non al valore che crea. Il settore finanziario è un esempio chiaro di come la definizione di valore cambi: un tempo visto come improduttivo, ora è incluso nel PIL e cresciuto enormemente, spesso estraendo valore invece di crearlo. Questo avviene tramite commissioni elevate, sfruttando posizioni di mercato dominanti, o con la gestione di patrimoni e il private equity, che spostano denaro e caricano le aziende acquisite di debiti invece di investire nella produzione reale. Anche l’innovazione, che spesso nasce da investimenti pubblici rischiosi (come Internet), viene poi privatizzata e sfruttata tramite brevetti che bloccano la concorrenza o permettono di chiedere prezzi altissimi, come nel caso dei farmaci. Nell’economia digitale, grandi piattaforme creano monopoli e guadagnano dai dati degli utenti, presentandosi come servizi gratuiti. Tutto questo mostra una disconnessione tra chi crea valore (spesso collettivamente, inclusi lavoratori e stato) e chi se ne appropria (privatamente). La visione dominante tende a considerare lo stato solo come un correttore dei problemi del mercato o un fornitore di servizi base, ignorando il suo ruolo fondamentale nell’investire in innovazione e creare nuovi mercati. Le politiche di austerità e privatizzazione, basate su questa visione limitata, possono danneggiare l’economia. È necessario riconoscere che la creazione di valore è un processo collettivo e che lo stato, assumendosi rischi, dovrebbe anche partecipare ai benefici. La misurazione economica attuale non distingue bene tra creare valore ed estrarlo, portando a favorire attività speculative o basate sulla rendita. I mercati non sono naturali, ma sono plasmati da politiche e società. Per affrontare le sfide attuali, l’economia deve ripensare il concetto di valore, riconoscere il contributo di tutti gli attori e dirigere la crescita verso obiettivi condivisi, non solo verso l’aumento dei profitti privati.Riassunto Lungo
1. Le mutevoli definizioni di valore e produzione
Il significato di valore economico e di attività che genera ricchezza cambia molto nel tempo. Queste definizioni sono sempre influenzate da come è organizzata la società, dalle decisioni politiche e dalle condizioni economiche del momento. Già dal Seicento, gli studiosi hanno provato a capire cosa creasse davvero ricchezza e come distinguere il lavoro che produce valore da quello che non lo fa.I Mercantilisti
Nel Seicento, i mercantilisti credevano che il valore stesse nell’accumulare metalli preziosi come oro e argento. Per loro, si otteneva ricchezza soprattutto avendo più esportazioni che importazioni. Consideravano produttive tutte quelle attività che aiutavano ad aumentare questa ricchezza, come il commercio. I primi tentativi di misurare la ricchezza di una nazione, fatti da studiosi come Petty e King, cercavano di calcolare quanto una nazione produceva in totale. In questo modo, definivano implicitamente cosa fosse produttivo basandosi su quanto un’attività contribuiva al reddito nazionale o generava più entrate che spese.I Fisiocratici
Nel Settecento, un gruppo di pensatori chiamati fisiocratici, guidati da Quesnay, sostenevano un’idea diversa. Per loro, solo la terra e le attività legate alla natura, come l’agricoltura o l’estrazione di minerali, potevano creare nuovo valore. Vedevano l’industria e i servizi come attività “sterili”, capaci solo di trasformare qualcosa che aveva già valore, ma senza crearne di nuovo. Dividevano la società in classi: chi produceva (gli agricoltori), chi era sterile (artigiani e manifatturieri) e i proprietari terrieri (che vivevano delle rendite). Il valore generato dall’agricoltura era ciò che permetteva alle altre classi di vivere e al sistema di continuare a funzionare. Turgot, un altro fisiocratico, rese questa idea più precisa, distinguendo tra salari, profitti e rendite, ma confermando che la terra era la fonte principale di ogni valore.Gli Economisti Classici
Con l’arrivo della Rivoluzione industriale, economisti importanti come Smith e Ricardo spostarono l’attenzione sul lavoro come vera fonte di valore. Adam Smith definiva lavoro produttivo quello che portava alla creazione di un oggetto concreto e duraturo. Distingueva così le attività come l’agricoltura e la manifattura dai servizi, che considerava improduttivi perché non lasciavano un bene materiale. Smith criticava chi viveva di rendita e chi spendeva in modo improduttivo, incoraggiando invece a reinvestire i guadagni nella produzione per far crescere la ricchezza di tutti. David Ricardo riprese le idee di Smith ma si concentrò su come il valore prodotto veniva distribuito tra salari per i lavoratori, profitti per i capitalisti e rendite per i proprietari terrieri. Credeva che i salari tendessero a rimanere bassi, appena sufficienti per vivere, e che il profitto fosse il valore in più creato dai lavoratori oltre il loro salario. La rendita, secondo Ricardo, era un guadagno legato al possesso di risorse limitate come la terra più fertile, e la vedeva come qualcosa che riduceva i profitti e frenava gli investimenti e lo sviluppo. Per Ricardo, era fondamentale capire come il valore in più (il surplus) veniva usato: se investito in modo produttivo o speso in consumi non necessari o dallo stato.Karl Marx
Karl Marx portò avanti la teoria che il valore nasce dal lavoro, ma la elaborò in modo nuovo. Definì lavoro produttivo quello che genera “plusvalore” per il capitalista. Il plusvalore è la differenza tra il valore totale creato dal lavoratore e quello che riceve come salario, che è appena sufficiente per la sua sopravvivenza. Marx analizzò come i capitalisti, possedendo le fabbriche e gli strumenti di lavoro, potessero appropriarsi di questo plusvalore, creando così sfruttamento. Distinse diversi tipi di capitale: quello produttivo, che crea direttamente plusvalore; quello commerciale, che serve a vendere i prodotti e trasformare il plusvalore in denaro; e quello che genera interessi, guadagnando dal plusvalore altrui. Identificò anche i guadagni derivanti dal controllo esclusivo di certi beni (come la rendita da monopolio). La lotta tra le classi sociali, secondo Marx, influenzava direttamente come il valore prodotto veniva diviso.Perché un capitolo che si ferma al diciannovesimo secolo ignora completamente come l’economia moderna definisce il valore, specialmente nel settore dei servizi?
Il capitolo offre una carrellata storica interessante, ma fermandosi a Marx lascia un vuoto enorme sull’evoluzione del concetto di valore e produzione nell’economia contemporanea. La distinzione rigida tra attività “produttive” e “sterili” o la focalizzazione esclusiva sul lavoro o sulla terra non riflettono le teorie economiche attuali, dove il valore è spesso legato all’utilità, alla scarsità e ai meccanismi di mercato, e dove i servizi e i beni immateriali giocano un ruolo preponderante. Per colmare questa lacuna e comprendere le definizioni moderne, è fondamentale approfondire l’economia neoclassica e le teorie del valore basate sull’utilità marginale. Un buon punto di partenza può essere leggere autori come Alfred Marshall.2. Il valore cambia volto
Nella visione di Marx, il valore è considerato produttivo solo se riesce a generare plusvalore per il capitale produttivo, che è il motore centrale del sistema capitalistico. Il limite di ciò che è considerato produzione dipende strettamente da come si riesce a generare profitto all’interno di un contesto capitalista. Solo le imprese che operano secondo logiche capitalistiche riescono ad accumulare plusvalore necessario per espandere la loro produzione. Attività come la semplice circolazione del capitale o il guadagno derivante dagli interessi non sono viste come creatrici di valore, sebbene siano riconosciute come necessarie per il funzionamento e la riproduzione del capitale stesso. La rendita, sia per Marx che per Ricardo, non rappresenta una creazione di nuovo valore, ma piuttosto una ridistribuzione di valore già esistente, e la sua esistenza tende a ridurre il profitto generato dall’attività produttiva.Un Nuovo Approccio: L’Economia Neoclassica
Successivamente, emerge una nuova e influente corrente di pensiero economico, conosciuta come economia neoclassica o marginalista, che si sviluppa anche per rispondere alle critiche rivolte al capitalismo. Questa teoria propone un cambiamento radicale nell’origine del valore, spostandola dalle condizioni oggettive legate alla produzione, come il lavoro, a concetti più soggettivi come l’utilità percepita e la scarsità di un bene. Il valore di un bene viene quindi misurato in base alla sua utilità per il consumatore, e questa utilità tende a diminuire man mano che aumenta la quantità del bene posseduta (fenomeno noto come utilità marginale decrescente). Al contrario, la scarsità di un bene ne aumenta l’utilità marginale. Il prezzo di un bene sul mercato viene visto come un riflesso diretto di questa utilità marginale e della sua scarsità.Produzione, Lavoro e Redditi
Con l’avvento del marginalismo, il confine di ciò che è considerato produzione diventa molto più flessibile e ampio: qualsiasi cosa che abbia un prezzo stabilito sul mercato legale è ora considerata produttiva. La netta distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, centrale nella visione precedente, scompare quasi del tutto in questo nuovo quadro teorico. Tutti i redditi percepiti, inclusi i salari dei lavoratori, i profitti degli imprenditori e le rendite derivanti dalla terra o da altre proprietà, sono interpretati come ricompense per l’attività produttiva svolta. Questi redditi sono considerati determinati dalla produttività marginale dei diversi fattori di produzione impiegati, come il lavoro, il capitale e la terra. Anche fenomeni come la disoccupazione possono essere reinterpretati, a volte visti come una scelta volontaria da parte dell’individuo che cerca di massimizzare la propria utilità tra il tempo dedicato al lavoro e quello libero.Equilibrio e Ruolo della Rendita
Un concetto fondamentale che assume una posizione centrale in questa nuova teoria è quello di equilibrio, spesso mutuato dai principi della fisica. Si postula che i mercati, operando in condizioni di concorrenza perfetta, tendano naturalmente verso un punto di equilibrio. In questo stato di equilibrio, l’allocazione delle risorse all’interno dell’economia è considerata ottimale, nel senso che nessuno degli agenti economici può migliorare la propria situazione senza peggiorare quella di qualcun altro (un concetto vicino all’efficienza paretiana). All’interno di questo schema concettuale, la rendita non è più vista come un reddito non guadagnato o una forma di parassitismo economico, ma piuttosto come un’indicazione di un’imperfezione nel funzionamento del mercato o semplicemente come il rendimento specifico attribuito a un particolare fattore di produzione. L’intervento da parte dello stato nell’economia viene generalmente giustificato solo ed esclusivamente in presenza dei cosiddetti “fallimenti del mercato”, ovvero situazioni in cui il libero mercato non riesce a raggiungere un’allocazione efficiente delle risorse. Questo approccio al valore, basato sulla soggettività, rende intrinsecamente più complesso misurare la ricchezza totale effettivamente creata all’interno di un sistema economico e ha avuto un’influenza profonda sul modo in cui viene calcolato e interpretato il reddito nazionale complessivo.Se la rendita, da Marx a Ricardo vista come prelievo o ridistribuzione di valore esistente, diventa nella visione neoclassica un semplice “rendimento” o “imperfezione”, non si rischia di nascondere le sue implicazioni sociali e distributive?
Il capitolo mette in luce un cambiamento radicale nel modo di concepire la rendita. Passare da una visione che la identifica come un reddito non guadagnato o un prelievo sul valore prodotto (con potenziali implicazioni sulla disuguaglianza e il potere dei proprietari) a una che la considera un normale rendimento di un fattore produttivo o un segnale di inefficienza di mercato, merita un approfondimento critico. Per comprendere meglio le diverse prospettive e le loro conseguenze, è utile esplorare la storia del pensiero economico, in particolare le critiche alla teoria neoclassica e le analisi delle dinamiche distributive. Autori come Thorstein Veblen o Piero Sraffa offrono spunti preziosi per analizzare criticamente il concetto di rendita e le sue implicazioni nel sistema economico.3. Il Valore Economico e la Sua Misura Convenzionale
Misurare la ricchezza di una nazione, come avviene con il prodotto interno lordo (PIL), non si basa su regole fisse e immutabili come quelle della fisica. Dipende invece da accordi sociali e da come, nel tempo, le diverse teorie economiche hanno definito cosa crea valore. La storia del pensiero economico mostra come questa definizione sia cambiata. Oggi, per decidere se un’attività rientra nel calcolo del PIL, si guarda principalmente se esiste un prezzo di mercato per quella attività.Cosa viene incluso (e cosa no)
Questo modo di calcolare porta a risultati che possono sembrare strani. Ad esempio, il lavoro che si fa in casa senza essere pagato, come cucinare o pulire per la propria famiglia, non viene contato nel PIL. Al contrario, l’affitto che un proprietario “paga” a se stesso per vivere nella propria casa (l’affitto figurativo) viene incluso. Anche il settore pubblico, che offre servizi fondamentali come sanità e istruzione senza venderli a prezzo di mercato, viene valutato solo in base a quanto costa produrli. Questo significa che il suo reale contributo all’economia e al benessere viene spesso sottovalutato.Il caso del settore finanziario
Il settore della finanza è un esempio molto chiaro di come la definizione di valore sia cambiata nel tempo. In passato, chi si occupava di finanza era visto a volte come qualcuno che non produceva ricchezza, ma piuttosto la “estrasse” da altre attività. Col tempo, però, questo settore è stato sempre più incluso nel calcolo del PIL. Questo è avvenuto in parte grazie a metodi di calcolo specifici, come quello per i servizi di intermediazione finanziaria (FISIM). Questa maggiore inclusione è andata di pari passo con una minore regolamentazione del settore finanziario, che ha visto una crescita molto rapida e, a volte, sproporzionata rispetto all’economia reale. I profitti della finanza sono aumentati, specialmente quelli legati ai prestiti alle famiglie. Questo aumento è stato anche alimentato dalla crescente differenza tra ricchi e poveri, che ha spinto molte famiglie a chiedere più prestiti per arrivare alla fine del mese.Confusione tra creazione ed estrazione di valore
Il sistema che usiamo oggi per misurare la ricchezza nazionale è il risultato di un insieme di teorie economiche e di aggiustamenti pratici fatti nel tempo. Questo sistema fa fatica a distinguere in modo netto tra chi crea valore (cioè fa profitti producendo qualcosa di nuovo) e chi invece “estrae” valore (cioè guadagna da rendite o posizioni di potere, senza creare nuova ricchezza). Questa difficoltà è particolarmente evidente nel settore finanziario. Non riuscire a fare questa distinzione in modo chiaro nel modo in cui misuriamo l’economia può darci un’idea sbagliata di come stanno realmente le cose e influenzare in modo errato le decisioni prese dai governi.Se lo Stato è il vero creatore di valore e si assume i rischi maggiori, perché i meccanismi attuali di tassazione e brevetti non riescono a catturare adeguatamente questo contributo pubblico, e quali modelli alternativi funzionerebbero davvero?
Il capitolo solleva un punto cruciale nel sottolineare il ruolo attivo e spesso sottovalutato dello Stato nella creazione di valore e nell’assunzione di rischi in settori chiave dell’innovazione. Tuttavia, pur evidenziando la disconnessione tra rischi pubblici e profitti privati, la critica ai meccanismi esistenti (tasse, brevetti) e l’auspicio di una distribuzione più equa lasciano aperte domande fondamentali su come, concretamente, si possa misurare il contributo statale e implementare sistemi che garantiscano un ritorno adeguato alla collettività senza disincentivare l’innovazione privata. Per approfondire queste tematiche, è utile esplorare i lavori di autori come Mariana Mazzucato, che analizzano in dettaglio il ruolo imprenditoriale dello Stato, e confrontarsi con diverse scuole di pensiero nell’economia dell’innovazione e nella finanza pubblica, per comprendere le complessità legate all’attribuzione del valore e alla progettazione di strumenti fiscali e regolatori efficaci.7. Il Valore Collettivo e la Direzione della Crescita
Le idee comuni sul ruolo dello stato nell’economia sono spesso troppo limitate. Si pensa che lo stato debba solo correggere i problemi del mercato o fornire beni pubblici essenziali. In realtà, l’investimento pubblico è un motore potente per l’innovazione e crea nuove opportunità, come si è visto in settori come internet o le energie rinnovabili. Le politiche che si basano unicamente su incentivi fiscali per le imprese non bastano a stimolare investimenti veri o a generare nuovo valore per la società. L’obiettivo principale della politica economica dovrebbe essere aumentare gli investimenti complessivi, non solo i profitti per pochi.La Creazione Collettiva di Valore
La creazione di valore non è un processo che riguarda solo le imprese private, ma è un’azione collettiva che coinvolge diversi attori, tra cui i lavoratori e lo stato stesso. La teoria economica tradizionale non riconosce appieno il valore che lo stato contribuisce a creare, ad esempio attraverso la formazione di capitale umano o lo sviluppo di tecnologia di base. Poiché lo stato investe risorse e si assume rischi significativi nello sviluppo di nuove aree economiche, è giusto che partecipi anche ai benefici dei successi che ne derivano. Purtroppo, oggi si assiste a una situazione in cui i rischi vengono socializzati, ma le ricompense rimangono private. L’idea sbagliata che il prezzo di un bene o servizio ne stabilisca automaticamente il valore porta a conseguenze negative, favorendo attività che semplicemente “estraggono” valore esistente, come la speculazione finanziaria o le rendite da brevetti, invece di quelle che lo creano attivamente. Questo modo di pensare svaluta il lavoro svolto nel settore pubblico e confonde chi prende le decisioni politiche, spingendolo a favorire misure che aumentano i profitti per pochi senza stimolare investimenti produttivi per la collettività.Rimodellare i Mercati con le Politiche Pubbliche
È importante capire che i mercati non nascono in modo spontaneo e naturale, ma vengono creati e modellati attivamente dalla società e dalle scelte di politica pubblica. Le politiche economiche non sono semplici interventi esterni su un mercato preesistente, ma sono parte integrante del processo che dà forma ai mercati stessi. Per questo motivo, è necessario ripensare il modo in cui funzionano le collaborazioni tra settore pubblico e privato, affinché siano basate sulla collaborazione e sul vantaggio reciproco, piuttosto che sulla semplice esternalizzazione di servizi. Il concetto di valore pubblico è molto più ampio di quello di bene pubblico; implica una visione condivisa e la volontà di usare le politiche per orientare i mercati verso il raggiungimento di obiettivi sociali desiderati da tutta la comunità.Orientare la Crescita verso Obiettivi Comuni
Per affrontare efficacemente le sfide del nostro tempo, l’economia deve concentrarsi non solo sulla velocità con cui cresce, ma soprattutto sulla direzione che questa crescita prende. Questo richiede investimenti pubblici coraggiosi e ambiziosi, guidati da “missioni” chiare e definite che puntino a risolvere grandi problemi sociali o tecnologici. Queste missioni devono promuovere attivamente la collaborazione tra settori diversi e tra tutti gli attori coinvolti nell’economia. Un nuovo approccio che riconosca il valore come frutto di un’azione collettiva e che metta tutti i partecipanti al centro del processo di creazione è fondamentale per costruire un futuro economico che sia più equo, inclusivo e sostenibile per tutti.Va bene dire che lo stato crea valore e si assume rischi, ma come si garantisce che la sua ‘partecipazione ai benefici’ non si traduca in inefficienza, distorsioni del mercato o, peggio, corruzione, invece di stimolare davvero la crescita per tutti?
Il capitolo, pur offrendo una visione stimolante del ruolo dello stato come creatore di valore e non solo correttore di fallimenti, non approfondisce a sufficienza i meccanismi pratici e le potenziali insidie della sua partecipazione ai benefici derivanti dagli investimenti pubblici. Questa è una questione cruciale che richiede un’analisi più sfumata. Per comprendere meglio le sfide legate all’intervento statale e alla gestione delle risorse pubbliche, è utile esplorare la teoria della Public Choice, che analizza i comportamenti degli attori nel settore pubblico, e le critiche all’intervento statale sviluppate da autori come Buchanan o Hayek, che mettono in luce i rischi di fallimento del governo e le difficoltà nella gestione centralizzata.Abbiamo riassunto il possibile
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