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Contenuti del libro
Informazioni
“Il rapimento Moro. La storia e i misteri” di Carlo Mazzei ti porta dritto nel cuore degli anni di piombo italiani, partendo da quel terribile 16 marzo 1978 con l’agguato di via Fani e il rapimento di Aldo Moro. Questo libro non si ferma solo a raccontare cosa fecero le Brigate Rosse, ma scava a fondo nei misteri irrisolti che ancora oggi circondano uno degli eventi più drammatici della nostra politica italiana. Seguiamo la prigionia di Moro a Roma, la lotta tra la linea della fermezza e chi cercava una trattativa, e scopriamo come figure come Mario Moretti e le decisioni prese in quei giorni abbiano segnato la storia. Ma la cosa più interessante è come l’autore esplora le ombre: il possibile ruolo dei servizi segreti (italiani e stranieri) e della loggia P2, le anomalie nell’azione dei brigatisti, e tutti quei dettagli che fanno pensare che dietro le quinte ci fosse molto di più. È una lettura che ti fa capire quanto fosse complicato quel periodo e quanti segreti siano rimasti nascosti, rendendo la vicenda del rapimento Moro non solo storia, ma un vero e proprio enigma che ha cambiato per sempre il corso della nostra repubblica.Riassunto Breve
Il 16 marzo 1978, a Roma, un gruppo armato blocca e attacca il corteo di Aldo Moro in via Fani, uccidendo i cinque uomini della scorta e rapendo Moro. L’azione è rapida e violenta, con l’uso di auto per bloccare i veicoli e spari intensi. Moro viene portato in un appartamento a Roma, in via Montalcini, dove viene tenuto prigioniero in una cella improvvisata. I suoi carcerieri sono Anna Laura Braghetti, Germano Maccari e Prospero Gallinari, mentre Mario Moretti è l’unico a interrogarlo. Le Brigate Rosse rivendicano subito il sequestro. Aldo Moro è una figura politica centrale, presidente della Democrazia Cristiana e sostenitore di un accordo che include il Partito Comunista nel governo, un progetto osteggiato dagli Stati Uniti. Nonostante i rischi, a Moro non viene concessa un’auto blindata. Le BR presentano l’azione come un attacco al cuore dello stato, definendo Moro un simbolo del regime. L’obiettivo dichiarato è sottoporre Moro a un “processo popolare” per denunciare il sistema e rivelare segreti. Il rapimento provoca uno shock nel paese. La reazione dello stato è la linea della fermezza, sostenuta da quasi tutto il Parlamento e dagli Stati Uniti, che inviano un esperto, Steve Pieczenik, il quale suggerisce che le lettere di Moro non siano autentiche e prepara un piano per isolarlo. La fermezza mira a non riconoscere le BR come interlocutore politico e a prevenire altri sequestri. Moro cerca una trattativa, ma senza successo. La strategia delle BR cambia: invece di pubblicare le rivelazioni di Moro, puntano a uno scambio di prigionieri, per poi decidere la condanna a morte. Moro viene ucciso e il suo corpo lasciato in via Caetani. L’autopsia solleva dubbi sulla versione brigatista, indicando possibili altri luoghi di prigionia e un orario della morte diverso. Molti elementi suggeriscono un’influenza esterna sull’azione delle BR. L’agguato di via Fani presenta anomalie come la possibile presenza di tiratori professionisti non brigatisti, una moto sospetta legata a un agente dei servizi segreti (SISMI) e un black-out telefonico collegato a strutture del SISMI e a membri della loggia P2. L’appartamento di Moretti in via Gradoli, base delle BR, si trova in una zona controllata dai servizi e viene “scoperto” in modo plateale e ritardato, con una messinscena che include un falso comunicato delle BR. La tipografia delle BR usa macchine provenienti dai servizi. Il Memoriale di Moro, trovato in un covo, viene diffuso in versioni incomplete, minimizzando le accuse politiche. Figure come il giornalista Mino Pecorelli e il Generale Dalla Chiesa, che sembrano avere informazioni riservate sul Memoriale e su poteri occulti, vengono assassinati. La presenza di numerosi iscritti alla P2 nei comitati statali che gestiscono la crisi solleva dubbi sul reale interesse alla liberazione di Moro. Sembra che settori deviati dei servizi sapessero del piano e lo abbiano agevolato, forse anche durante la fuga. Le forze che inizialmente hanno agevolato le BR potrebbero aver cambiato atteggiamento, spingendole verso l’uccisione di Moro, forse a causa delle sue dichiarazioni. La mancata pubblicazione del Memoriale da parte delle BR potrebbe essere legata alla mancata cattura immediata. L’evento interrompe il processo politico di collaborazione tra DC e PCI. Rimane la sensazione che i veri responsabili dell’assassinio di Moro, legati a poteri occulti e servizi deviati, siano ancora impuniti.Riassunto Lungo
1. L’agguato di via Fani e il prigioniero scomodo
Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, ricopriva un ruolo centrale nella politica italiana. Era il principale sostenitore di un accordo storico che mirava a includere il Partito Comunista Italiano nel governo del paese. Questo progetto politico, noto come “compromesso storico”, incontrò una forte opposizione sia a livello nazionale che internazionale. Gli Stati Uniti, in particolare, espressero con forza la loro contrarietà, e il segretario di stato americano Henry Kissinger comunicò direttamente a Moro il dissenso di Washington. L’ostilità americana era accresciuta anche dal rifiuto dell’Italia di concedere le proprie basi militari per rifornire Israele, un punto di tensione nelle relazioni bilaterali. Moro era pienamente consapevole dei gravi rischi personali legati alla sua posizione e alle sue scelte politiche. Nonostante le sue richieste e quelle del capo della sua scorta, il maresciallo Leonardi, non gli fu concessa un’auto blindata, ufficialmente per “esigenze di bilancio”, mentre altri personaggi pubblici meno esposti ne disponevano. La mattina stessa dell’agguato, Moro si stava recando in Parlamento per la presentazione del nuovo governo Andreotti, un esecutivo monocolore DC che per la prima volta nella storia repubblicana avrebbe ottenuto la fiducia del PCI. Sui giornali del mattino di quel giorno, comparve una notizia di provenienza americana che identificava Moro con il nome in codice “Antelope Kobbler”, un dettaglio che aggiungeva un ulteriore livello di tensione al clima politico già incandescente.L’Agguato di via Fani
Il 16 marzo 1978, la città di Roma fu teatro di un evento drammatico e violento. Un commando armato bloccò e attaccò il corteo di automobili che trasportava Aldo Moro in via Fani. L’azione era stata pianificata nei minimi dettagli, con un segnale convenuto dato da Rita Algranati per avviare l’operazione. Furono utilizzate diverse auto per intrappolare efficacemente quelle di Moro e della sua scorta, impedendo ogni via di fuga. Quattro membri del commando, travestiti con finte divise della compagnia aerea Alitalia, aprirono il fuoco. Spararono quasi cento colpi in una manciata di secondi, una dimostrazione di forza brutale e rapidità esecutiva. L’obiettivo primario era la scorta: i cinque uomini che proteggevano Moro persero la vita in quell’attacco. Morirono Riccardo Palma, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi e Domenico Ricci. Aldo Moro, invece, fu risparmiato secondo gli ordini precisi impartiti ai brigatisti. Fu trascinato fuori dalla sua automobile e preso in ostaggio dal commando.La Prigionia e la Rivendicazione
Subito dopo essere stato catturato, Aldo Moro fu trasferito rapidamente via furgone dal luogo dell’agguato. Per occultarlo ulteriormente durante il trasporto, fu nascosto all’interno di una cassa di legno. La sua destinazione finale fu un appartamento situato a Roma, in via Montalcini 8. Questo immobile era stato acquistato specificamente per lo scopo, utilizzando fondi ottenuti in precedenza tramite un sequestro di persona. All’interno dell’appartamento, fu allestita una cella improvvisata per detenere il prigioniero. Era uno spazio piccolo, angusto e privo di finestre, destinato a diventare il luogo della sua lunga prigionia. I suoi carcerieri diretti erano Anna Laura Braghetti, Germano Maccari e Prospero Gallinari, che si alternavano nella sorveglianza. L’unico membro del commando autorizzato a interrogarlo fu Mario Moretti, che si presentava sempre a viso coperto per non essere riconosciuto. Poco tempo dopo l’attacco e il sequestro, le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica responsabile dell’azione, rivendicarono ufficialmente il rapimento di Aldo Moro, comunicando al paese e al mondo di averlo nelle loro mani.Come è possibile che un uomo politico così esposto, consapevole dei rischi, sia stato lasciato così vulnerabile?
Il capitolo evidenzia come Aldo Moro fosse pienamente cosciente dei “gravi rischi personali” legati al suo ruolo e alle sue scelte politiche, e come, nonostante le sue richieste e quelle della sua scorta, gli sia stata negata un’auto blindata per presunte “esigenze di bilancio”, mentre altri meno a rischio ne disponevano. Questa palese contraddizione tra la percezione del pericolo e le misure di sicurezza adottate (o meglio, non adottate) rappresenta una lacuna argomentativa significativa nel racconto degli eventi. Per comprendere meglio questa falla clamorosa nella protezione di una figura chiave dello Stato, sarebbe opportuno approfondire lo studio del contesto politico e istituzionale dell’epoca, le dinamiche interne agli apparati di sicurezza italiani negli anni ’70 e le diverse interpretazioni storiche che hanno cercato di spiegare questa negligenza, o presunta tale. Autori come Sergio Flamigni o Miguel Gotor hanno affrontato a lungo questi temi, offrendo spunti critici sulla gestione della sicurezza di Moro.2. L’attacco al cuore dello Stato
La cosiddetta “campagna di primavera” delle Brigate Rosse, iniziata il 16 marzo, segna un cambiamento radicale, diventando un attacco diretto contro lo stato. Prima di questo periodo, le BR colpivano obiettivi meno centrali, agendo soprattutto nel nord Italia. Le loro attività includevano ferimenti, omicidi, rapine per autofinanziarsi e sequestri. Allo stesso tempo, portavano avanti la loro propaganda nelle grandi fabbriche per trovare nuovi membri e sostegno. Nel momento di massima espansione, si stima che avessero circa trecento persone armate attive e un migliaio di fiancheggiatori.Il cambiamento di strategia sotto Mario Moretti
Dopo l’arresto dei capi storici, Mario Moretti assume un ruolo di primo piano. La sua intenzione è chiara: aumentare il livello dello scontro armato. Sotto la sua guida, le Brigate Rosse si riorganizzano. Un’azione importante prima del 1978 è il sequestro del magistrato Mario Sossi, che porta a un risultato parziale nelle trattative, seguito poi dall’omicidio del procuratore Francesco Coco, coinvolto nel blocco dello scambio.La preparazione dell’attacco a Roma
Moretti decide di spostare l’attenzione su Roma, vista come il luogo ideale per le azioni future. Fonda la colonna romana, riunendo membri provenienti da diversi gruppi di estrema sinistra, con l’obiettivo di preparare un’azione che avesse un grande impatto. Per avere i soldi necessari all’acquisto di armi e per allestire le basi segrete, organizza il sequestro dell’armatore Costa, ottenendo una somma importante. Stabilisce la sua base principale a Roma in un appartamento in via Gradoli, usato anche da altri brigatisti.L’obiettivo: Aldo Moro
La scelta di colpire Aldo Moro viene fatta in questo contesto. Anche se Moretti sostiene che la decisione sia stata presa insieme da tutto il gruppo dirigente, la scelta è attribuita principalmente alla sua volontà. Lo scopo dichiarato è colpire la Democrazia Cristiana, considerata il centro del “sistema dello stato imperialistico delle multinazionali”, di cui Moro è presidente e una figura fondamentale. La sua posizione come ispiratore del coinvolgimento del Partito Comunista Italiano nel governo non viene ritenuta importante dalle BR. L’azione viene pianificata per molti mesi. Il giorno del sequestro, che coincide con la presentazione del nuovo governo, viene definito casuale. Il posizionamento del corpo di Moro dopo l’omicidio, tra le sedi della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano, è un atto di sfida simbolico.Le motivazioni e gli obiettivi
Le Brigate Rosse affermano di non essere interessate a fermare l’avvicinamento tra i due partiti principali; considerano questa politica di compromesso estranea ai loro obiettivi. Il vero scopo è mettere sotto accusa il sistema attraverso Moro, costringerlo a rivelare segreti e renderli pubblici per spingere il popolo alla lotta armata e alla conquista del potere. Nel loro primo comunicato, descrivono Moro come un “gerarca”, un “teorico” e uno “stratega” del regime democristiano e il “padrino politico” della “controrivoluzione imperialista”. La realtà, però, suggerisce che l’obiettivo principale è colpire chi aveva costruito le “convergenze parallele”. Molti brigatisti che partecipano all’azione sono in realtà strumenti inconsapevoli di un piano più vasto.Se, come suggerisce il capitolo, molti brigatisti erano ‘strumenti inconsapevoli di un piano più vasto’, qual era il vero ‘cuore dello Stato’ che si intendeva colpire?
Il capitolo introduce l’idea che l’attacco fosse diretto al “cuore dello Stato” e che l’obiettivo dichiarato fosse mettere sotto accusa il “sistema” attraverso Aldo Moro. Tuttavia, la successiva affermazione che molti brigatisti fossero “strumenti inconsapevoli di un piano più vasto” introduce una significativa ambiguità. Questa prospettiva, che allude a possibili livelli di lettura o influenze esterne non esplicitate nel capitolo, mina la chiarezza sulle reali motivazioni e sull’autonomia decisionale delle Brigate Rosse, lasciando irrisolta la questione di chi o cosa rappresentasse il vero obiettivo di questo “piano più vasto”. Per approfondire queste complesse dinamiche e le diverse interpretazioni storiche, è utile consultare studi sulla storia del terrorismo italiano e sul caso Moro, leggendo autori come Miguel Gotor o Sergio Luzzatto, che analizzano il contesto politico e le controversie storiografiche.3. La Fermezza e le Ombre Nascoste
Il rapimento di Aldo Moro sconvolge profondamente il paese, provocando reazioni intense e il timore diffuso di disordini. Le Brigate Rosse vedono l’azione come un colpo riuscito contro lo stato, ma la reazione del Partito Comunista Italiano li delude: il PCI si schiera con decisione per la linea della fermezza e chiede l’adozione di leggi più severe. Anche l’estrema sinistra sceglie una posizione di distanza, riassunta nello slogan “né con le Br né con lo stato”.La Risposta dello Stato
La reazione dello stato appare inizialmente confusa, ma ottiene un risultato non previsto dalle Brigate Rosse: compatta la Democrazia Cristiana e costringe il PCI ad appoggiare la linea del governo. La formazione del governo Andreotti avviene con grande rapidità. Per gestire la crisi e coordinare le ricerche, viene istituito un Comitato politico-tecnico-operativo, presieduto dal Ministro degli Interni Cossiga. Viene anche diffuso un “Piano zero” che prevede una mobilitazione generale, ma la sua messa in pratica risulta disordinata. A Roma vengono organizzati posti di blocco e perquisizioni. Vengono creati anche un Comitato interministeriale per la sicurezza (CIS) e un Comitato Informazione per raccogliere dati.L’indagine giudiziaria, affidata al sostituto procuratore Infelisi, viene condotta con impegno ma in condizioni di isolamento e senza mezzi adeguati. Spesso l’inchiesta viene superata dalle iniziative politiche o da quelle dei servizi segreti, che operano senza un vero coordinamento. Un aspetto importante emerso in seguito riguarda la presenza di molti iscritti alla loggia P2 all’interno dei comitati e delle forze che si occupano della crisi. Questa presenza solleva dubbi sul reale interesse a ottenere la liberazione di Moro.La Linea della Fermezza e le Influenze Esterne
Nonostante un’apparente attività, l’azione dello stato è segnata da un sostanziale immobilismo e dalla mancanza di una guida unica e forte. Fin dall’inizio, prevale la linea della fermezza, appoggiata dalla quasi totalità del Parlamento. Le ragioni principali di questa scelta sono chiare: evitare di riconoscere le Brigate Rosse come un interlocutore politico e impedire che il successo del sequestro portasse a una serie di rapimenti futuri.La linea della fermezza riceve un forte sostegno dagli Stati Uniti, che inviano in Italia l’esperto Steve Pieczenik. Questi interpreta l’obiettivo delle Brigate Rosse come un tentativo di dividere la Democrazia Cristiana e scatenare una guerra civile, ritenendo quindi fondamentale mantenere il partito unito. Pieczenik influenza la valutazione delle lettere scritte da Moro durante la prigionia, suggerendo che non rappresentino il suo vero pensiero. Viene anche preparato un “piano Victor” per isolare Aldo Moro nel caso in cui fosse stato liberato. Anni dopo, Pieczenik dichiarerà che il suo scopo era impedire l’ingresso del PCI nel governo e che la morte di Moro fu una conseguenza di questo obiettivo.La Strategia delle Brigate Rosse e il Tragico Epilogo
Aldo Moro cerca in ogni modo di avviare una trattativa per la sua liberazione, rivolgendo un appello anche a Papa Paolo VI. L’intervento del Papa, tuttavia, si limita a una richiesta di rilascio senza condizioni.La gestione del sequestro da parte delle Brigate Rosse si sviluppa in due fasi distinte. Inizialmente, le Br dichiarano di voler sottoporre Moro a un “processo popolare” per denunciare il sistema politico. Interrogano Moro in modo sistematico, e lui collabora fornendo informazioni che potrebbero essere dannose per molti. Tuttavia, la strategia cambia in modo inatteso. Invece di diffondere pubblicamente le rivelazioni di Moro, le Brigate Rosse modificano il loro obiettivo, puntando a ottenere la liberazione di alcuni prigionieri in cambio dell’ostaggio. Questo cambiamento di rotta, che abbandona il progetto iniziale più ambizioso, fa pensare che qualcosa abbia costretto le Br a cambiare piano. La decisione finale è la condanna a morte di Aldo Moro, annunciata nel comunicato numero 6. La fase discendente delle Brigate Rosse inizia proprio con l’uccisione di Moro, suggerendo che l’intera vicenda abbia servito interessi diversi dai loro.Data la ricchezza di “indizi” e “ombre” presentati nel capitolo, non si rischia di scambiare la semplice presenza di anomalie per la prova di un complotto orchestrato, trascurando la complessità e la potenziale casualità di alcuni eventi?
Il capitolo elenca meticolosamente una serie di anomalie e coincidenze che, prese singolarmente o insieme, appaiono inquietanti. Tuttavia, la semplice presenza di elementi inspiegati o di attori con legami ambigui (servizi, P2, criminalità organizzata) non dimostra automaticamente l’esistenza di un unico piano coordinato per facilitare l’azione brigatista o eliminare Moro. La complessità degli eventi e la sovrapposizione di interessi diversi (intelligence che monitora, gruppi eversivi che agiscono, criminalità che sfrutta) possono generare “ombre” senza necessariamente configurare una “regia” univoca. Per valutare criticamente questa prospettiva, è fondamentale approfondire la storia dei servizi segreti italiani, le dinamiche del terrorismo negli anni di piombo e le metodologie dell’analisi storiografica e giudiziaria. Autori come M. Fasanella o M. Clementi offrono diverse chiavi di lettura su questi temi.5. Ciò che Resta nell’Ombra
Aspetti del sequestro Moro rimangono oscuri, specialmente per il ruolo dei servizi segreti italiani e stranieri e della loggia P2, gruppi molto presenti ai vertici delle forze di sicurezza. Accanto alla trattativa ufficiale, c’era una negoziazione nascosta sul destino di Moro.Le anomalie di Via Fani
Fatti precisi sollevano molti interrogativi sull’agguato di via Fani. I brigatisti presenti erano nove o dieci, ma diversi testimoni parlarono di più sparatori, facendo pensare alla presenza di un professionista esterno. C’erano anche due persone su una moto Honda che spararono, ma i brigatisti hanno sempre negato che fossero dei loro. Vicino al luogo dell’agguato si trovava il colonnello Guglielmi del Sismi, che non intervenne. Questo fa pensare che settori deviati dei servizi segreti fossero a conoscenza del piano e lo abbiano facilitato, forse aiutando anche nella fuga. Questo suggerisce una sorveglianza o un’infiltrazione all’interno delle Brigate Rosse.La base segreta e il cambio di rotta
La base usata dalle Br in via Gradoli era conosciuta anche fuori dal gruppo, persino dal giornalista Pecorelli. Dopo perquisizioni che non portarono a nulla, l’appartamento fu “trovato” il 18 aprile con una messinscena, come una finta perdita d’acqua, mentre un falso comunicato cercava di confondere le ricerche. Questo fa pensare a un’azione esterna organizzata. Tra il 16 marzo e il 18 aprile, le forze che all’inizio avevano aiutato le Br cambiarono idea. Invece di puntare al salvataggio di Moro, le spinsero verso la sua uccisione. Questo cambiamento potrebbe essere collegato alle cose che Moro disse nel Memoriale, suggerendo che i suoi interrogatori fossero controllati, forse da qualcuno “superiore”. Le Br non pubblicarono il Memoriale, forse perché in cambio non furono subito catturate. Sapere dove si trovava la base di via Gradoli significava sapere dove Moro era prigioniero. Era possibile fare un blitz per liberarlo, ma non fu fatto. Questa situazione permise alle Br di uccidere Moro e di rimanere libere per un certo tempo. Questioni ancora aperte legate al Memoriale riguardano gli omicidi di Mino Pecorelli e forse la rimozione e poi l’uccisione del generale Dalla Chiesa. Entrambi avevano informazioni o parti del Memoriale.La verità nascosta e le conseguenze politiche
Le Brigate Rosse negano che ci siano state interferenze esterne, per mantenere la loro versione ufficiale dei fatti. Ma l’idea che il rapimento non fosse collegato alla posizione di Moro riguardo al Partito Comunista Italiano non è vera. Il momento e il modo in cui Moro morì ebbero un forte impatto politico. Questo evento fermò il “compromesso storico”, portando a meno voti per il PCI e più per la Democrazia Cristiana nelle elezioni dopo. Portò anche al “preambolo” del 1980, che impediva alleanze con il PCI.Le “anomalie” e le presunte “azioni esterne organizzate” citate nel capitolo bastano davvero a dimostrare che settori deviati dello Stato abbiano prima “aiutato” le Brigate Rosse e poi “spinto” per l’omicidio di Aldo Moro?
Il capitolo presenta una tesi forte sul ruolo di forze esterne e deviati apparati statali nella vicenda del sequestro Moro, basandosi su una serie di fatti definiti “anomalie”. Tuttavia, l’inferenza che queste “anomalie” provino un’azione organizzata esterna volta a facilitare il sequestro e poi a impedire la liberazione di Moro è una conclusione che richiede un’analisi molto più approfondita delle prove disponibili e delle diverse interpretazioni storiche e giudiziarie. La narrazione di un cambio di rotta delle presunte forze esterne, da un iniziale aiuto a una successiva spinta verso l’uccisione, è particolarmente complessa e controversa. Per valutare la solidità di queste affermazioni, è indispensabile studiare a fondo gli atti delle commissioni parlamentari d’inchiesta, i processi giudiziari e la vasta letteratura storiografica sul caso Moro, considerando anche le posizioni di autori che offrono letture alternative o critiche rispetto alla tesi del complotto e della deviazione di Stato. Autori come Flamigni o Galli della Loggia rappresentano diverse prospettive su questi eventi.Abbiamo riassunto il possibile
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