1. Il Nodo del Loto e il Mostro Acquatico nell’Arte Indiana
Il simbolismo è un aspetto essenziale e diffuso nell’arte e nella cultura dell’India, sia indù che buddhista. Non è un elemento secondario, ma fondamentale per comprendere a fondo le opere artistiche. Tra i simboli più importanti e studiati, la pianta del loto e le sue rappresentazioni artistiche offrono un esempio chiave per capire questo linguaggio visivo. Il loto è molto più di una semplice decorazione; porta con sé significati profondi legati alla purezza, alla creazione e all’elevazione spirituale, emergendo immacolato dal fango.La Pianta del Loto e il Makara
La pianta del loto cresce con un fusto sotterraneo, chiamato rizoma, che si sviluppa orizzontalmente nell’acqua o nel fango. Questo rizoma presenta dei segmenti distinti, noti come nodi o parvan. Da questi nodi si dipartono verso la superficie dell’acqua gli steli che sorreggono le grandi foglie rotonde e i magnifici fiori. Nell’arte, il loto viene spesso rappresentato in modo stilizzato e decorativo, con il rizoma sinuoso e i nodi messi in evidenza come elementi ornamentali.Accanto al loto, un’altra figura che appare frequentemente nell’arte indiana è il makara. Questa creatura è un mostro mitologico legato all’acqua. Viene spesso raffigurato con una testa che unisce caratteristiche di diversi animali acquatici e terrestri, come il coccodrillo, l’elefante, il delfino o altri esseri marini, creando un aspetto unico e potente. Il makara è un simbolo complesso, spesso associato alle acque, alla fertilità e talvolta considerato un guardiano.L’Equivalenza Simbolica tra Parvan e Makara
Nell’arte indiana e anche in quella indo-giavanese, si nota una forte connessione e un’equivalenza tra il nodo del loto (parvan) e la testa del makara. Le opere d’arte mostrano spesso teste di makara che prendono il posto dei nodi del loto, oppure che si fondono con essi lungo steli vegetali. Questa fusione non è casuale, ma deriva da una somiglianza visiva percepita: la forma segmentata e le squame che a volte vengono attribuite al parvan ricordano le fauci e la testa del makara.Questa identificazione porta a uno scambio di caratteristiche tra i due elementi. Il makara viene rappresentato con elementi vegetali, quasi come se fosse una parte della pianta stessa. Allo stesso tempo, il parvan assume tratti che richiamano il mostro acquatico, diventando più di un semplice nodo vegetale. Questo scambio rafforza il legame simbolico tra il mondo vegetale (il loto) e il mondo acquatico (il makara), entrambi fondamentali nella cosmologia indiana.Il Makara e il Toraṇa nell’Architettura
L’equivalenza tra parvan e makara si manifesta anche in elementi architettonici importanti, come il toraṇa. Il toraṇa è un arco monumentale, spesso usato come porta d’accesso a luoghi sacri. Questo arco è frequentemente sostenuto da figure di makara poste alla base o ai lati. L’arco stesso del toraṇa viene interpretato come lo stelo o il rizoma del loto che emerge dalle fauci del makara.Esistono due tipi principali di makara-toraṇa, che riflettono diverse stilizzazioni della pianta del loto. Nel tipo indiano, il makara sembra quasi inghiottire l’arco, come se lo stelo del loto emergesse dalla sua bocca. Nel tipo indo-giavanese, l’arco sembra spuntare dal retro della testa del makara. Queste due forme derivano dalla rappresentazione stilizzata di diverse parti del rizoma del loto che emergono dal parvan: il rizoma secondario nel caso indiano e il rizoma principale nel caso indo-giavanese. Anche la coda del makara, nel tipo indiano, può corrispondere alle piccole radichette che si trovano sul parvan.L’identificazione profonda tra il parvan del loto e il makara non è una semplice scelta estetica. Riflette una connessione simbolica che eleva il makara da semplice elemento decorativo a figura di grande importanza nell’arte indiana. Attraverso questa associazione, il makara diventa un potente simbolo dell’elemento acquatico e delle forze vitali ad esso connesse, strettamente legato alla simbologia di purezza e creazione del loto.Su quali basi, oltre la somiglianza visiva, si fonda l’asserita “identificazione profonda” tra il nodo del loto e il makara?
Il capitolo descrive in modo efficace la ricorrenza della pianta del loto e del makara nell’arte indiana e indo-giavanese, e illustra come le rappresentazioni artistiche mostrino una fusione o sostituzione tra il nodo del loto (parvan) e la testa del makara. Tuttavia, l’argomentazione secondo cui questa fusione non sia una “semplice scelta estetica” ma rifletta una “connessione simbolica profonda” si basa principalmente sull’osservazione delle forme artistiche stesse. Per comprendere appieno la validità di questa “identificazione profonda”, sarebbe necessario esplorare le fonti testuali, i contesti rituali o le tradizioni orali che esplicitamente associano questi due simboli a un livello concettuale o cosmologico, al di là della loro rappresentazione visiva. Approfondire gli studi sull’iconografia indiana basati sui testi sacri e sui trattati d’arte (come i Śilpa Śāstra), oltre che sulla mitologia e sulla cosmologia induista e buddhista, potrebbe fornire le basi per confermare o contestare l’interpretazione proposta. Autori come Ananda K. Coomaraswamy o Stella Kramrisch hanno affrontato l’analisi del simbolismo nell’arte indiana attingendo a un vasto corpus di fonti, e la loro opera potrebbe offrire spunti cruciali.2. La Radice della Vita e il Mostro del Portale
L’elemento che si trova in cima al portale, chiamato toraṇa, è spesso una testa di mostro nota come kāla. Questa figura unisce caratteristiche animali e vegetali in modo sorprendente. Sul naso si possono vedere elementi che ricordano alberi, le sopracciglia sono fatte di foglie e le guance sembrano viticci rampicanti. Anche i denti a volte si trasformano in foglie e fiori, mostrando che la testa di kāla rappresenta un punto di passaggio tra la natura vegetale e quella animale. Altri elementi decorativi che si trovano sulla sommità dei portali, come quelli visibili a Barabuḍur, richiamano gioielli circondati da foglie e germogli. Si trovano anche antefisse con rampicanti alla base e vegetazione che cresce verso l’alto, sottolineando una chiara origine legata al mondo vegetale.
La radice di loto (padmamūla)
L’organo della pianta di loto che corrisponde per posizione e funzione all’elemento sommitale del toraṇa è la radice, chiamata padmamūla. Nell’arte indiana, questa radice è spesso raffigurata alla base da cui emerge lo stelo del loto, come si può osservare in molti rilievi antichi. Il padmamūla si presenta in varie forme, ma la più comune è quella che ricorda un gioiello, a volte mostrata anche in sezione per evidenziarne la struttura interna. Esistono inoltre raffigurazioni con forme asimmetriche o che richiamano direttamente un fiore.
Il legame tra portale e radice
Esiste una somiglianza notevole tra il padmamūla e alcuni degli elementi che decorano la sommità del toraṇa, in particolare il motivo che si trova a Barabuḍur. Anche la testa di kāla, pur avendo un aspetto mostruoso e animale, condivide elementi visivi con il padmamūla. Questa condivisione suggerisce una transizione o un legame tra la forma puramente vegetale della radice e quella più complessa e mostruosa del kāla. L’intero kāla-makara-toraṇa può essere interpretato come una rappresentazione stilizzata della pianta di loto. In questa interpretazione, il padmamūla corrisponde al kāla, gli steli curvi formano l’arco del toraṇa, e i nodi lungo gli steli, chiamati parvan, sono rappresentati dai makara.
Il loto come fonte di vita nell’arte
L’arte indiana antica, specialmente nei rilievi di luoghi come Bharhut e Sāñcī, utilizza questi motivi del loto non solo per semplice decorazione. Lo stelo del loto e i suoi nodi sono rappresentati come la fonte primaria da cui scaturiscono la vita, la fertilità, le ricchezze e persino il potere. Tutto ciò che è racchiuso all’interno delle curve dello stelo del loto sembra ricevere energia vitale direttamente da esso. Questo simbolismo potente sottolinea il ruolo centrale della pianta di loto come origine e nutrimento dell’esistenza.
L’origine della vita nei testi sacri
Le antiche scritture indiane, note come Veda, offrono una spiegazione sull’origine della vita che si lega a questi simboli. Descrivono la creazione come il risultato dell’unione tra un principio maschile, rappresentato dal soffio creativo (Prajāpati), e un principio femminile, simboleggiato dalle acque primeve. Da questa unione fondamentale nasce Hiraṇyagarbha, che significa il Germe d’Oro. Questo Germe d’Oro è considerato il principio da cui ha origine tutta la creazione. Hiraṇyagarbha è strettamente connesso a due divinità fondamentali: Agni, il dio del fuoco, e Soma, che rappresenta l’essenza vitale contenuta nelle acque. È l’essenza stessa di entrambi e unisce le loro nature apparentemente opposte in una dualità che è alla base dell’esistenza.
La radice cosmica e la dualità vitale
L’origine della vita descritta nei testi come Hiraṇyagarbha trova la sua rappresentazione visiva nell’arte attraverso il padmamūla. Questa radice del loto cosmico non è solo un simbolo, ma si ritiene che contenga l’elisir di vita, chiamato amṛta. Questo amṛta è considerato identico all’essenza duale di Agni e Soma, che rappresenta l’unione degli opposti necessari alla creazione. Da questa radice primordiale, la linfa vitale scorre attraverso l’intera pianta cosmica del loto. Questo flusso genera tutta la creazione e, nel farlo, trasmette a ogni essere vivente la fondamentale dualità di Agni e Soma, che anima l’esistenza.
Questa interpretazione simbolica è l’unica possibile, o si rischia di forzare un legame tra forme artistiche e concetti testuali?
Il capitolo propone un’interpretazione suggestiva, ma il rischio è quello di stabilire un legame troppo diretto e univoco tra forme artistiche complesse e concetti testuali specifici. L’iconografia indiana e del Sud-est asiatico è ricca e stratificata, e simboli come il kāla e il makara hanno spesso molteplici significati che variano nel tempo e nello spazio. Per comprendere appieno la questione, sarebbe opportuno approfondire gli studi sull’arte e l’architettura del Sud-est asiatico (in particolare Giava per Barabuḍur), esplorare le diverse teorie sull’origine e la funzione del kāla (non solo come radice cosmica, ma anche come divinità del tempo, guardiano, ecc.) e confrontare le metodologie di interpretazione iconologica. Autori come Stella Kramrisch o Joanna Williams hanno offerto prospettive diverse su questi temi.3. L’Albero Cosmico e l’Ordine del Mondo
Nella visione indiana, la creazione viene immaginata come un albero vivente, un vero albero cosmico. Questo albero nasce dall’incontro di due forze essenziali: il loto, che affonda le radici nella terra ed è legato all’acqua e al principio Soma, e il fico celeste, che ha le sue radici nel cielo ed è connesso al fuoco e al principio Agni. Mentre il loto tende a crescere verso l’alto, il fico celeste è spesso mostrato capovolto, con le radici rivolte verso l’alto e i rami che scendono verso il basso. Questa unione crea la struttura fondamentale del cosmo. Questa struttura particolare è la base su cui si costruisce l’intero universo secondo questa antica sapienza.Come l’albero organizza il cosmo
La forma di questo albero cosmico serve da modello per capire come è organizzato l’universo. Ogni cosa che esiste, dalle creature viventi ai pensieri più astratti, trova il suo posto all’interno di questo sistema. L’universo viene classificato seguendo due schemi principali. Un modo è ‘bidimensionale’: divide gli elementi che hanno le qualità di Agni (il fuoco) e li mette da un lato, mentre gli elementi con le qualità di Soma (l’acqua) vengono messi dall’altro lato, come se ci fosse una linea centrale. L’altro modo è ‘tridimensionale’: separa le cose che appartengono al cielo e le mette in alto, mentre quelle che sono terrestri o legate al mondo sotterraneo vengono poste in basso, come se ci fosse un piano orizzontale che divide tutto. Questi schemi aiutano a dare un ordine a tutta la realtà.Opposti e l’elisir di vita
Grazie a questi modi di classificare il mondo, si capiscono meglio le coppie di idee opposte che si trovano nel pensiero indiano. Si spiegano anche i conflitti tra forze diverse, come le battaglie tra gli dèi e gli asura, o quelle tra i Pandava e i Kaurava nelle storie antiche. Ma al centro di queste tensioni e nel cuore stesso dell’albero cosmico c’è un punto cruciale. Questo punto è dove si trova l’amṛta, che è l’elisir di vita. È proprio lì che le qualità del fuoco (Agni) e quelle dell’acqua (Soma) si uniscono e si fondono insieme, creando equilibrio e vitalità.L’albero cosmico nell’arte
Questo albero celeste, che viene anche chiamato albero dei desideri (kalpataru), ha una sua rappresentazione specifica nell’arte. Spesso si vede la sua radice a forma di triangolo posta in alto, sopra un tronco che a volte ricorda un pilastro. Questa immagine vuole mostrare che l’albero non cresce dalla terra nel modo usuale, ma ha un’origine alta, quasi come se ‘galleggiasse’ (la sua natura epifitica), con i suoi rami che si allungano verso il basso. La figura fondamentale di questo albero, che unisce la radice del fico celeste in alto con il tronco del loto in basso, simboleggia il livello più alto della creazione, il piano divino da cui tutto ha origine.Fino a che punto è lecito equiparare un organo sessuale, un pilastro e una montagna, o il corpo umano a un albero, senza perdersi in analogie suggestive ma prive di fondamento storico o logico rigoroso?
Il capitolo presenta queste equivalenze simboliche come un dato di fatto, ma non esplora le basi metodologiche di tale interpretazione, né considera le possibili obiezioni o le variazioni storiche e regionali di questi simboli. Per approfondire criticamente questo approccio, sarebbe utile esplorare la storia delle religioni, l’iconografia comparata e l’antropologia simbolica. Autori come Mircea Eliade, Carl Jung, o studiosi specifici dell’arte e delle religioni indiane come Stella Kramrisch o Heinrich Zimmer possono offrire prospettive diverse e strumenti critici per valutare la validità e i limiti di queste interpretazioni simboliche.7. La Forma Vegetale del Divino nell’Arte Indiana
L’arte e l’iconografia indiana mostrano una profonda connessione tra la figura umana o divina e le piante cosmiche. Il corpo umano è spesso paragonato a un albero o una pianta. Il torso diventa il tronco, la testa la base o radice (chiamata brahmamūla), e le braccia i rami laterali. Le braccia e le mani sono identificate con parti vegetali, descritte come lisce e morbide, simili ai rami del loto o alla proboscide di un elefante, anch’essa vista come un gambo di loto. Le mani possono generare attributi divini come se fossero frutti o fiori che spuntano da una pianta, trasformando la divinità in un albero dei desideri umano che produce beni preziosi.La distribuzione degli attributi
La distribuzione degli oggetti tenuti dalle divinità segue un sistema basato sulla dualità cosmica. Gli oggetti maschili, appuntiti o caldi, come armi o fiamme, si trovano tipicamente nella mano destra. Al contrario, gli oggetti femminili, concavi o freddi, come coppe, vasi, o elementi naturali come piante e fiori, sono posti nella mano sinistra. Sebbene questa regola sia comune, il sistema non è sempre rigido e può essere influenzato da altri modi di classificare o dai cambiamenti nell’arte nel corso del tempo.Due stili nell’arte
Nell’arte si manifestano due stili principali legati a questa simbologia vegetale. Lo “stile del loto” usa forme morbide, rotonde e aggraziate, che richiamano la natura del loto cosmico, spesso associato alla divinità Soma. Lo stile “vanaspati”, che significa “Signore della Foresta”, rappresenta figure robuste, compatte e talvolta demoniche, legate all’albero cosmico e associato ad Agni. Inizialmente, lo stile vanaspati era più comune, anche per figure importanti come il Buddha. Con il tempo, però, lo stile del loto divenne dominante per la maggior parte delle divinità, mentre il tipo demonico mantenne le caratteristiche vanaspati.La dualità nel teatro
Questa dualità tra le forze di Agni e Soma si ritrova anche nella letteratura e nelle arti performative. Un esempio è la storia giavanese di Bubukṣa e Gagang-aking, che incarnano queste forze opposte. Nel teatro delle ombre giavanese, chiamato wayang, un’immagine dell’albero cosmico, il gunungan, è posta tra i gruppi di marionette che rappresentano queste forze in contrasto. Il gunungan simboleggia il principio divino centrale che unisce i contrasti e da cui scaturisce l’amṛta, l’elisir di vita. L’atto rituale di far “fiorire” il gunungan all’inizio dello spettacolo trasforma l’albero in uno strumento che sparge l’amṛta, riportando in vita gli eroi del passato e le loro gesta.Ma il capitolo non fa un salto logico nel passare dall’arte indiana al teatro giavanese?
Il capitolo presenta il teatro delle ombre giavanese (wayang) come un esempio della dualità cosmica Agni-Soma e della simbologia dell’albero cosmico, temi trattati in relazione all’arte e all’iconografia indiana. Tuttavia, non viene spiegato il nesso storico o culturale che lega queste due tradizioni artistiche e geografiche distinte. Per comprendere appieno come i concetti e i simboli indiani si siano manifestati e adattati nel contesto giavanese, sarebbe utile approfondire la storia della diffusione culturale indiana nel Sud-est asiatico. Discipline come la storia dell’arte del Sud-est asiatico, gli studi culturali e la storia delle religioni possono fornire il contesto necessario. Autori che si sono occupati dell’indianizzazione del Sud-est asiatico o della cultura giavanese e delle sue radici indiane possono offrire spunti preziosi.Abbiamo riassunto il possibile
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