Contenuti del libro
Informazioni
“I miei ricordi. Scalate al limite del possibile” di Walter Bonatti ti porta dentro un’avventura incredibile, raccontando la vita di uno dei più grandi alpinisti di sempre attraverso le sue scalate più estreme. Non è solo un elenco di vette conquistate, ma un viaggio che parte dalle prime esperienze su roccia nelle Dolomiti e arriva a sfide epiche su pareti verticali e in inverno, come le Grandes Jorasses o il Cervino in solitaria. Il libro ti fa vivere le tempeste in alta quota, i bivacchi appesi nel vuoto, il gelo che morde e la lotta per superare i limiti umani, sia fisici che mentali, in luoghi selvaggi come il Mont Blanc o la remota Patagonia. Ma Bonatti va oltre la pura impresa atletica: riflette sul senso profondo dell’alpinismo tradizionale, sulla sua etica, sul confronto con la natura selvaggia e sulla ricerca di una verità che si trova lontano dalla vita di tutti i giorni. Non mancano i momenti cruciali, come la controversa spedizione al K2, dove l’autore chiarisce finalmente la verità sull’uso dell’ossigeno e sulle dinamiche che hanno segnato la storia di quella salita. È un libro che parla di coraggio, rinuncia, coerenza e del valore autentico dell’avventura, mettendo in discussione la crisi dei valori nell’alpinismo moderno.Riassunto Breve
L’alpinismo si sviluppa da un’attività fisica che inizia con l’imitazione su rocce facili e progredisce rapidamente verso grandi pareti alpine e sfide estreme in condizioni invernali, affrontando difficoltà tecniche, bivacchi precari e pericoli oggettivi come tempeste e valanghe. Le esperienze in alta quota e su pareti difficili spingono i limiti fisici e mentali, richiedendo resistenza, improvvisazione e la capacità di superare momenti di disperazione. Questa progressione porta l’alpinismo a diventare più di una semplice scalata; si trasforma in un confronto con se stessi, un dialogo con la natura e una ricerca di significato profondo, quasi un’espressione di eroismo moderno in contrasto con la banalità della vita quotidiana. Tuttavia, l’alpinismo contemporaneo mostra una crisi di valori, concentrandosi su sponsor, immagine, record e guadagno economico, allontanandosi dalla sua essenza etica e culturale. L’uso eccessivo di tecnologia e organizzazione riduce l’avventura autentica, che richiede ingegno e responsabilità di fronte all’ignoto. Un esempio lampante di questa crisi è la storia della prima salita italiana al K2 nel 1954, dove la versione ufficiale è stata falsificata per decenni, negando l’uso dell’ossigeno fino alla vetta da parte degli alpinisti di punta e diffondendo false accuse contro chi aveva portato le bombole e fu costretto a un bivacco d’emergenza a causa dello spostamento arbitrario del campo. Questa vicenda, corretta solo molto tempo dopo grazie a ricerche accurate, evidenzia come la ricerca del successo esterno e la mancanza di onestà possano corrompere anche le imprese più celebrate. L’alpinismo tradizionale, al contrario, sceglie di utilizzare mezzi tecnici limitati non per masochismo, ma per mantenere un legame con il passato e misurare le proprie capacità in modo autentico, preservando l’«impossibile» sulla parete, che stimola la crescita e il confronto con una forza superiore. La paura, il coraggio e la capacità di rinunciare diventano elementi cruciali di questo percorso interiore. L’alpinismo, nella sua forma più pura, è un mezzo per esprimere sé stessi e crescere, insegnando valori come onestà e coerenza, che sono difficili da applicare nel mondo esterno ma fondamentali per mantenere l’equilibrio interiore e dare senso all’attività.Riassunto Lungo
1. Sfide Verticali e Invernali
L’alpinismo si sviluppa come una progressione costante di difficoltà e impegno crescente. All’inizio, si impara osservando gli altri scalatori e provando i movimenti su rocce poco impegnative. La prima vera scalata importante, su un pinnacolo chiamato Campaniletto nel 1948, accade quasi per caso, affrontando un passaggio difficile con attrezzatura non adatta. Questa prima esperienza porta a una crescita molto veloce, portando ad affrontare in meno di un anno grandi pareti alpine con nomi noti come il Croz dell’Altissimo, il Badile, l’Aiguille Noire e le Grandes Jorasses. Questa rapida successione di salite segna l’inizio di un percorso intenso.La Sfida del Grand Capucin
Le sfide si fanno più grandi con la Parete Est del Grand Capucin. Un primo tentativo nel 1950 non riesce a causa del cattivo tempo. Un secondo tentativo l’anno dopo, nel 1951, affronta difficoltà estreme, con tratti molto verticali e strapiombanti, una sete fortissima e notti passate appesi alle corde mentre infuria una tormenta. La discesa, fatta con le doppie lungo il lato nord, che non era conosciuto e reso pericoloso dalle corde rigide e dal buio, presenta momenti molto difficili, come rimanere bloccati a testa in giù appesi alla corda. Nonostante tutte queste difficoltà, la parete viene salita con successo.Le Imprese Invernali sulle Cime di Lavaredo
Un passo successivo è l’idea di affrontare le Pareti Nord delle Cime di Lavaredo durante l’inverno. Questa sfida richiede una preparazione molto specifica, con allenamenti che includono bivacchi notturni all’aperto su pareti difficili per abituarsi al freddo intenso e alle condizioni estreme. L’avvicinamento alle Cime di Lavaredo nel pieno inverno del 1953 è molto faticoso, dovendo portare materiale pesante nella neve alta. La salita della Parete Nord della Cima Ovest, mai tentata prima in inverno, presenta temperature bassissime, fino a -25°C, difficoltà tecniche su roccia e ghiaccio, punti di ancoraggio poco sicuri e una notte passata appesi a chiodi instabili, combattendo contro il gelo, la sete e la stanchezza. Dopo aver superato un punto critico su una sporgenza di neve non stabile, si arriva in cima. Pochi giorni dopo, viene salita anche la Parete Nord della Cima Grande in inverno, completando così questa grande impresa.Data la descrizione di rischi estremi e condizioni al limite, non sarebbe più interessante capire perché l’alpinista cerca una progressione così rapida e pericolosa, piuttosto che solo come l’ha affrontata?
Il capitolo eccelle nel narrare le sfide fisiche e tecniche affrontate, descrivendo con efficacia la progressione delle difficoltà e i pericoli superati. Tuttavia, la narrazione appare lacunosa nel momento in cui non esplora a fondo le motivazioni psicologiche ed esistenziali che spingono un individuo a un’escalation così rapida e rischiosa, mettendo a repentaglio la propria vita in condizioni estreme. Per colmare questa lacuna e comprendere più a fondo la spinta dietro queste imprese, sarebbe fondamentale approfondire la psicologia dell’avventura e del rischio, o leggere le riflessioni di alpinisti-filosofi che hanno cercato di dare un senso a questa attrazione verso l’estremo.2. Sfida al limite umano
Si raccontano esperienze estreme vissute in alta montagna. Sul K2, a 7627 metri di quota, una spedizione punta alla vetta. Mancano però un campo base avanzato e le bombole di ossigeno, rimaste più in basso. Due membri del gruppo scendono per recuperare l’ossigeno necessario.Intanto, i compagni che puntano alla vetta si posizionano fuori dalla via prevista e più in alto del previsto. Questa situazione li costringe a un bivacco non pianificato a oltre 8100 metri, nel mezzo di una tormenta di neve. Si trovano senza un riparo adeguato e uno dei compagni è in stato confusionale.La notte è terribile: freddo intenso, vento forte e neve che copre continuamente il piccolo spazio che sono riusciti a scavare. Chiedono aiuto, ma i compagni non intervengono subito. La possibilità di sopravvivere dipende solo dalla loro forza fisica e mentale.La solitaria sul Pilastro del Dru
Un’altra esperienza riguarda una scalata in solitaria sul Pilastro del Dru. Qui si incontrano difficoltà tecniche estreme, con passaggi molto esposti e grandi strapiombi. Si cerca di superare una sezione particolarmente complessa usando delle traversate a pendolo.Questo tentativo porta a trovarsi in una posizione isolata sulla parete, senza possibilità di continuare o tornare indietro a causa di una curva inaspettata nella roccia. La situazione genera disperazione, ma la necessità di sopravvivere spinge a trovare una soluzione immediata e improvvisata.Si decide di usare una tecnica molto rischiosa: lanciare una corda per cercare di agganciare delle sporgenze di roccia e poi issarsi. Dopo aver superato questo passaggio pericoloso, si scopre che la via che si pensava di seguire in realtà non esiste.La salita continua su roccia molto difficile. È necessario usare un precario cuneo di legno e, in un punto cruciale, rinunciare all’autoassicurazione. La roccia si rivela sorprendentemente fragile, ma permette comunque di piantare piccoli chiodi per creare un ancoraggio, anche se debole. Questa esperienza estrema non solo spinge oltre i limiti fisici e mentali, ma aiuta anche a superare una difficoltà interiore legata a fatti accaduti in passato.La spedizione in Patagonia
Un’altra avventura si svolge in Patagonia. Una spedizione ha come obiettivo il Cerro Torre, ma l’arrivo di un altro gruppo li spinge a cambiare piano e puntare all’inesplorato versante ovest. L’avvicinamento è lungo e molto faticoso, circa 60 chilometri attraverso ghiacciai e montagne, portando attrezzatura pesante e con poche scorte.Durante l’avvicinamento e i primi tentativi, si stabiliscono campi in condizioni difficili e poco sicure. Il tentativo di salire il Cerro Torre fallisce. La parete ovest si rivela più difficile del previsto e manca l’equipaggiamento necessario per affrontare una salita così lunga.Nonostante il fallimento sul Cerro Torre, il gruppo decide di tentare la salita del vicino Cerro Mariano Moreno, una cima ancora inviolata. La salita inizia di notte, attraversando un grande ghiacciaio. Hanno un tempo limitato, solo 35 ore, e pochissime risorse a disposizione. Raggiungono la vetta proprio mentre infuria una bufera di neve.Il ritorno dalla cima è estremamente faticoso, segnato dalla fame, dalla stanchezza e dalle difficoltà nel trovare la strada. Dopo questa impresa, il gruppo scala il Cerro Adela e altre vette del Cordon Adela. Lo fanno in un’unica, lunga traversata, affrontando gli ostacoli velocemente e inventando sul momento tecniche per scendere su ghiaccio vivo.Ma quali sono le ragioni profonde, al di là della sete di vetta o dell’istinto di sopravvivenza, che guidano scelte così rischiose, a volte apparentemente irrazionali?
Il capitolo, pur offrendo resoconti avvincenti di imprese estreme, si concentra sulla descrizione degli eventi e delle difficoltà fisiche, lasciando in ombra le complesse dinamiche psicologiche e decisionali che si attivano in situazioni di vita o di morte. Comprendere perché si prendono certe decisioni apparentemente illogiche (come deviare dalla via, ritardare i soccorsi, o cambiare obiettivo con risorse limitate) o come un’impresa fisica possa risolvere un conflitto interiore richiede un’analisi più approfondita. Per esplorare questi aspetti, sarebbe utile approfondire discipline come la psicologia del rischio e delle decisioni in condizioni estreme, la sociologia delle dinamiche di gruppo in ambienti isolati, e le riflessioni filosofiche sul rapporto tra limite umano e significato. Approfondire il pensiero di autori che hanno studiato la resilienza, la motivazione intrinseca e l’impatto dell’esperienza estrema sulla psiche umana può offrire chiavi di lettura fondamentali.3. Vette Conquistate, Tempeste Affrontate
L’alpinismo di alta quota mette gli scalatori di fronte a pericoli estremi che vanno ben oltre il semplice raggiungimento della cima. Affrontare montagne altissime significa misurarsi con condizioni ambientali spietate e imprevisti che possono trasformare l’impresa in una lotta per la sopravvivenza.La lotta per la vita sul Gasherbrum IV
Un esempio lampante è la spedizione italiana del 1958 sul Gasherbrum IV, una vetta di 7952 metri nota per la sua estrema difficoltà. La cima viene raggiunta il 6 agosto da Carlo Mauri e un compagno, ma la gioia della conquista dura poco. Subito dopo, il tempo peggiora drasticamente: vento fortissimo e gelo intenso si abbattono sugli alpinisti. La discesa si trasforma immediatamente in una drammatica fuga, una battaglia per la sopravvivenza in mezzo a una violenta tormenta di neve. La visibilità è quasi annullata, le rocce sono coperte da uno strato insidioso di ghiaccio e neve, e il rischio di slavine è costante. Durante la discesa, un membro della spedizione cade per circa duecento metri, ma l’abbondante neve fresca attutisce l’impatto e gli salva la vita. Il ritorno al campo base diventa un’odissea che richiede tre lunghi giorni, trascorsi a lottare contro il maltempo implacabile.La forza delle personalità e del team
In queste situazioni estreme, le caratteristiche personali degli alpinisti diventano fondamentali. L’unione di temperamenti diversi, come la forza d’animo quasi istintiva di Carlo Mauri e la prudenza calcolata unita a una resistenza fisica e mentale eccezionale di Walter Bonatti, permette di formare squadre efficaci e capaci di affrontare le avversità. Bonatti, in particolare, dimostra una capacità di tenuta superiore, mantenendo lucidità e forza anche quando i compagni sono allo stremo delle forze. Queste qualità umane e la capacità di fare squadra sono essenziali per superare i momenti più critici e per trovare la via d’uscita dalle situazioni più disperate in alta montagna.La tempesta elettrica sul Monte Bianco
Un’altra ascensione che evidenzia i pericoli affrontati è quella del Pilastro Rosso di Brouillard sul massiccio del Monte Bianco nel 1959. Già durante l’avvicinamento, la montagna mostra la sua pericolosità: una caduta di ghiaccio ferisce uno dei compagni. La salita del Pilastro è impegnativa ma viene completata. Un bivacco notturno in quota è segnato dalla sensazione che il tempo stia per cambiare. La ripartenza avviene nel freddo pungente e con il vento che inizia a farsi sentire. Improvvisamente, una violentissima tempesta si scatena con grandine, neve fitta e fenomeni elettrici impressionanti, come fulmini che colpiscono la roccia e i fuochi di Sant’Elmo che danzano sulle piccozze. L’aria è satura di elettricità, rendendo pericolosissimo l’uso degli attrezzi metallici e provocando sensazioni fisiche intense e inquietanti. Orientarsi verso la vetta del Monte Bianco diventa estremamente difficile a causa della visibilità quasi nulla e della neve alta, con il pericolo costante di precipitare nel vuoto. La cima viene raggiunta dopo ore di lotta estenuante contro gli elementi e la disorientazione. A quel punto, l’unica priorità è trovare rapidamente un rifugio sicuro per scampare alla furia della tempesta.Come è stato possibile che una versione dei fatti smentita da prove e persino da una sentenza di tribunale sia rimasta ‘ufficiale’ per decenni, sostenuta da un’istituzione come il CAI?
Il capitolo evidenzia un ritardo sorprendente nel riconoscimento della verità. Questo solleva interrogativi sui meccanismi che permettono a una narrazione non veritiera di persistere, anche di fronte a prove schiaccianti e decisioni legali. Per comprendere meglio come ciò possa accadere, è utile approfondire non solo i fatti specifici della spedizione, ma anche i processi storici e sociologici che influenzano la costruzione e il mantenimento delle ‘verità’ ufficiali. Letture che presentano diverse prospettive sull’evento, come quelle di Bonatti, Desio, o le analisi successive di autori come Messner, possono offrire spunti cruciali. Approfondire la storia dell’alpinismo e il ruolo delle sue istituzioni può altresì fornire il contesto necessario.10. Ossigeno e Bugie sulla Vetta del K2
La storia ufficiale della salita al K2 nel 1954 presenta aspetti che non corrispondono alla realtà dei fatti. Secondo questa versione, Compagnoni e Lacedelli avrebbero lasciato il campo IX molto presto, tra le 4:30 e le 5:00 del mattino. Si racconta anche che avrebbero raggiunto la cima senza l’uso dell’ossigeno, perché le bombole si sarebbero svuotate a circa 8400 metri di quota. Questa narrazione sostiene che, da quel punto, avrebbero impiegato solo due ore per arrivare in vetta, pur continuando a trasportare le bombole ormai vuote.La realtà documentata
I documenti storici e le testimonianze offrono un quadro diverso di quella giornata cruciale. Compagnoni e Lacedelli iniziarono la loro salita più tardi rispetto a quanto dichiarato, probabilmente tra le 6:30 e le 7:00 del mattino. Raggiunsero le bombole d’ossigeno che erano state lasciate da Bonatti e Mahdi intorno alle 8:00. Le riserve di ossigeno portate da Bonatti e Mahdi erano integre e piene al loro arrivo. Queste bombole furono fondamentali per il successo dell’impresa, perché senza di esse la vetta non sarebbe mai stata raggiunta dai due alpinisti.Bonatti e Mahdi non poterono utilizzare l’ossigeno, poiché non disponevano delle maschere necessarie per collegarlo alle bombole. Compagnoni e Lacedelli, invece, usarono l’ossigeno per tutta la parte finale della salita, fino a raggiungere la cima del K2. La salita totale dalla quota dove presero le bombole durò circa nove ore e trenta minuti, iniziando intorno alle 8:30 e terminando verso le 18:00. L’affermazione che l’ossigeno si sia esaurito non è credibile, considerando il lungo periodo di tempo in cui venne effettivamente utilizzato.
Riconoscimento storico e attenzione mediatica
Questi fatti accertati correggono la versione ufficiale e mettono in luce il ruolo essenziale svolto da Bonatti e Mahdi nel permettere la riuscita della spedizione. È noto che Bonatti subì ingiuste accuse e fu costretto a un bivacco di fortuna a una quota estremamente elevata. Il Club Alpino Italiano, attraverso pubblicazioni recenti, ha finalmente riconosciuto la verità storica degli eventi. Questo riconoscimento ha permesso di correggere gli errori del passato e di restituire il giusto valore a ciò che accadde quel giorno.
Il lavoro di ricerca di studiosi come i professori Annibale Salsa e Luigi Zanzi è stato determinante per arrivare a questa correzione storica. La stampa nazionale ha riportato spesso la notizia di questo riconoscimento. Tuttavia, l’attenzione si è concentrata principalmente sulla “riabilitazione” della figura di Bonatti. Spesso i giornali non hanno dato il giusto risalto al fatto fondamentale che la correzione principale riguarda la menzogna sull’uso continuo dell’ossigeno durante l’intera salita finale.
Visto che la “verità storica” sull’uso dell’ossigeno è stata accertata, quali interessi hanno spinto a costruire e mantenere per decenni una versione ufficiale basata su “bugie”?
Il capitolo espone con chiarezza i fatti accertati che smentiscono la versione ufficiale sulla salita finale del K2, in particolare riguardo all’uso dell’ossigeno. Tuttavia, non approfondisce le ragioni profonde e gli interessi che portarono alla creazione e alla perpetuazione di una narrazione diversa dalla realtà dei fatti. Per comprendere appieno questa complessa vicenda, è fondamentale esplorare il contesto storico, le dinamiche interne alla spedizione, le personalità dei protagonisti e le pressioni esterne (nazionali, mediatiche) che potrebbero aver influenzato la stesura del racconto ufficiale. Approfondire la storia dell’alpinismo e le specifiche ricerche storiche sull’impresa del K2, come quelle condotte da studiosi quali Annibale Salsa e Luigi Zanzi, può aiutare a far luce sui motivi dietro le discrepanze tra la storia ufficiale e la “verità storica” finalmente riconosciuta.Abbiamo riassunto il possibile
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