Storia

Gli eroi di Via Fani. I cinque agenti della scorta di Aldo Moro

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1. L’Ombra Incombente: Storia di un Servitore Silenzioso

Oreste Leonardi: una figura chiave nell’Italia degli anni ’70

Oreste Leonardi è una figura centrale in un periodo storico di grande tensione politica e minaccia terroristica in Italia. La sua vita si intreccia profondamente con quella di Aldo Moro, diventando rappresentativa di un’epoca molto difficile per il paese.

La formazione e l’incontro con Aldo Moro

Leonardi proviene da una famiglia con una forte tradizione militare e incarna i valori di dedizione e disciplina. La sua carriera nell’Arma dei Carabinieri lo porta a diventare la guardia del corpo di Aldo Moro, un politico di primo piano che cercava la mediazione in un contesto internazionale segnato dalla Guerra Fredda e da forti divisioni interne.

Un rapporto di fiducia e timori crescenti

Il rapporto tra Leonardi e Moro va oltre la semplice relazione professionale, trasformandosi in un legame di fiducia e rispetto reciproco. Leonardi diventa l’ombra silenziosa di Moro, testimone e custode delle sue preoccupazioni. Queste preoccupazioni aumentano soprattutto dopo incontri inquietanti, come quello con Kissinger, che lascia presagire scenari oscuri per la politica italiana.

L’escalation della minaccia terroristica

Negli anni ’70, la minaccia terroristica in Italia si fa sempre più forte, con eventi drammatici come la strage di Piazza Fontana e l’attentato all’Italicus. Questi episodi, insieme ad altri segnali di pericolo e ai crescenti timori per la sicurezza di Moro e della sua famiglia, creano un clima di grande paura.

La percezione del pericolo e il tragico epilogo

Leonardi, grazie alla sua professionalità e al suo intuito, si rende conto del pericolo imminente. La sua storia personale, segnata anch’essa dalla violenza, si unisce al destino politico di Moro. La tensione cresce fino al tragico evento di via Fani. La vicenda umana di Leonardi si lega così alla storia italiana, diventando simbolo del dramma di quegli anni e del sacrificio silenzioso di chi ha servito lo Stato con grande impegno.

Ma la narrazione del capitolo non rischia di enfatizzare eccessivamente il ruolo di singoli “incontri inquietanti” come quello con Kissinger, quasi fossero presagi di un destino ineluttabile, trascurando le più ampie e complesse dinamiche politiche e sociali che caratterizzarono gli anni ’70 in Italia?
Il capitolo, pur delineando efficacemente il clima di tensione, potrebbe beneficiare di un approfondimento delle analisi storiografiche che contestualizzano il periodo. Per comprendere appieno le radici della minaccia terroristica e le dinamiche politiche dell’epoca, sarebbe utile esplorare le opere di storici e politologi che hanno studiato gli “anni di piombo” in Italia, analizzando le strategie della tensione, il ruolo dei servizi segreti e le complesse interazioni tra politica interna e scenari internazionali. Approfondire autori come specialisti di storia contemporanea italiana potrebbe offrire una visione più completa e sfaccettata degli eventi narrati.


2. Presagi Inascoltati

Inquietudine di Oreste Leonardi

Già nell’inverno tra il 1977 e il 1978, Oreste Leonardi, responsabile della scorta di Aldo Moro, avvertiva un pericolo crescente. Questa sensazione si manifestava attraverso diversi segnali inquietanti. Leonardi notava movimenti strani e sospetti attorno a lui e percepiva chiaramente di essere seguito. Queste percezioni lo турбували profondamente, tanto da spingerlo a esprimere ripetutamente le sue preoccupazioni ai colleghi. Leonardi chiedeva con insistenza rinforzi per la scorta e mezzi più adeguati per proteggere Moro.

Richieste di rinforzi ignorate

Leonardi non si limitava a chiedere genericamente più protezione. Entrando nello specifico, insisteva per avere una scorta più numerosa e composta da agenti meglio addestrati. Si lamentava in particolare della mancanza di esercitazioni di tiro, fondamentali per mantenere alta la preparazione della scorta. Inoltre, sottolineava l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione, evidenziando soprattutto l’assenza di un’auto blindata per proteggere Aldo Moro durante i suoi spostamenti. Nonostante le insistenze di Leonardi, supportate da testimonianze di familiari e colleghi che confermavano le sue preoccupazioni, le sue richieste rimasero completamente inascoltate.

Segnali premonitori e mancata prevenzione

La Fiat 130 utilizzata per gli spostamenti di Moro non era blindata, un fatto ancora più grave alla luce delle crescenti preoccupazioni per la sicurezza. Nei giorni immediatamente precedenti all’attentato, furono segnalate diverse anomalie che avrebbero dovuto allertare le autorità. Ad esempio, la presenza di un furgone sospetto nei pressi dell’ufficio di Moro fu notata e segnalata, ma anche questa segnalazione non portò ad alcun intervento concreto per aumentare la sicurezza. Perfino Aldo Moro stesso, consapevole del clima di tensione e delle crescenti minacce, aveva chiesto rinforzi specifici per la vigilanza del suo ufficio. Anche questa richiesta, come quelle di Leonardi, rimase senza risposta.

L’attentato di via Fani e le vittime

Il 16 marzo 1978, la scorta di Aldo Moro partì per recarsi a Montecitorio. Ancora oggi non è chiaro quale fosse il percorso stabilito per quel giorno, poiché i brogliacci del Viminale, che avrebbero dovuto registrarlo, risultarono irreperibili. Mentre transitava in via Fani, l’auto su cui viaggiava Moro fu improvvisamente bloccata da un commando armato. I terroristi aprirono immediatamente il fuoco contro le auto della scorta, annientandola in pochi istanti. Nell’attacco persero la vita tutti gli uomini della scorta, tra cui lo stesso Oreste Leonardi e Domenico Ricci, l’autista personale di Aldo Moro.

Il dolore delle famiglie e il silenzio istituzionale

La tragedia di via Fani ebbe conseguenze devastanti per le famiglie di Oreste Leonardi e Domenico Ricci. Il dolore per la perdita dei loro cari si sommò al peso del silenzio delle istituzioni, che non fornirono mai risposte chiare e complete su quanto accaduto. Questo silenzio segnò profondamente le loro vite, tanto che i figli di Leonardi e Ricci scelsero di allontanarsi dall’Italia, cercando rifugio in altri paesi. Nonostante il riconoscimento formale del sacrificio compiuto dagli agenti della scorta, il vuoto lasciato dalla loro scomparsa rimase incolmabile. Le mancate risposte sui mandanti dell’attentato e sulle precise dinamiche che portarono alla strage continuarono a rappresentare ferite aperte per i familiari.

La disparità di trattamento e la speranza nel futuro

Negli anni successivi alla strage, si verificò una dolorosa disparità di trattamento: mentre ai carnefici venne data voce e spazio per raccontare la loro versione dei fatti, il silenzio delle vittime e dei loro familiari divenne assordante. Questa disparità rese ancora più difficile e doloroso il percorso di elaborazione della memoria per i familiari delle vittime. Nonostante le sofferenze e le mancate verità, la speranza di un futuro migliore oggi si incarna nei nipoti di Leonardi e Ricci. Sono loro gli eredi di una storia tragica, segnata dal sacrificio e dalla continua ricerca di verità e giustizia.

È davvero esaustivo attribuire la tragedia di via Fani unicamente ai “presagi inascoltati”, o tale semplificazione rischia di oscurare dinamiche sistemiche e responsabilità politiche più ampie che concorsero all’attentato?
Il capitolo, pur evidenziando la gravità delle mancate risposte alle richieste di Leonardi, sembra concentrarsi eccessivamente sulla dimensione individuale delle premonizioni ignorate. Per una comprensione più completa, sarebbe opportuno ampliare l’analisi, includendo un approfondimento del contesto storico-politico dell’epoca, le dinamiche interne agli apparati di sicurezza dello Stato, e le specifiche strategie eversive delle organizzazioni terroristiche. Approfondimenti di autori esperti di storia italiana contemporanea e di sociologia politica potrebbero fornire strumenti interpretativi più adeguati per rispondere in modo esaustivo alla domanda posta.


3. I semi lo sentono

Le radici familiari e l’infanzia

La storia di Raffaele Iozzino inizia nel Sud Italia, in una famiglia profondamente legata alla terra e segnata dalla povertà. Raffaele nasce a Casola di Napoli e cresce in un contesto rurale, dove la vita è scandita dal duro lavoro nei campi e dai sacrifici quotidiani. Il padre, Pasquale, uomo provato dalla guerra e dalla prigionia, incarna i valori della famiglia unita e della capacità di resistere alle avversità, valori che trasmette con forza ai suoi figli.

Il desiderio di riscatto e la scelta della Polizia

Nonostante le ristrettezze economiche, Raffaele nutre un forte desiderio di migliorare la propria condizione e di costruire un futuro migliore per sé e per la sua famiglia. Questa aspirazione lo spinge a prendere una decisione importante: arruolarsi in Polizia. Questa scelta rappresenta una svolta nella sua vita, allontanandolo dalla sua terra natale e proiettandolo verso nuove realtà, fino a Roma, proprio negli anni più difficili e violenti della storia italiana, gli anni di piombo.

Il servizio scorte e la tragedia di via Fani

Entrato nel servizio scorte, Raffaele viene incaricato di proteggere Aldo Moro. Si distingue subito per la sua dedizione e professionalità, dimostrando un forte senso del dovere. Il destino però lo pone di fronte a un evento tragico e sconvolgente. Il 16 marzo 1978, in via Fani, Raffaele Iozzino perde la vita durante l’attacco terroristico delle Brigate Rosse, sacrificandosi per difendere Aldo Moro.

Il dolore della famiglia e la forza di reagire

La morte di Raffaele segna profondamente la vita della famiglia Iozzino, gettandola in un dolore immenso e difficile da superare. Nonostante la sofferenza, la famiglia reagisce con grande dignità e forza d’animo. I suoi membri si uniscono ancora di più, si sostengono a vicenda e cercano di ricostruire il loro futuro, portando avanti i valori di unità e resilienza trasmessi dal padre. I fratelli di Raffaele, pur segnati dalla perdita, onorano la sua memoria impegnandosi nel lavoro e nella famiglia. Alcuni di loro compiono un gesto ancora più grande, trovando la forza di perdonare i responsabili di quella terribile tragedia, intraprendendo un percorso difficile e coraggioso di elaborazione del lutto e di riconciliazione umana. Il ricordo di Raffaele Iozzino rimane vivo nel tempo, tramandato attraverso i nomi dei nipoti e nella memoria di una famiglia che, pur ferita nel profondo, non si è lasciata sopraffare dalla disperazione.

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Se il capitolo riconosce “zone d’ombra” e “versioni contrastanti”, non rischia di avallare implicitamente qualsiasi teoria alternativa, anche la più infondata, senza fornire strumenti critici per distinguerle da ricostruzioni più solide?
Il capitolo, pur aprendo a diverse interpretazioni degli eventi di via Fani, sembra mancare di un approccio critico nella valutazione delle “teorie alternative”. Citare “zone d’ombra” e “versioni contrastanti” è utile, ma rischia di legittimare qualsiasi ipotesi, anche quelle prive di fondamento logico o probatorio. Per evitare questo rischio, sarebbe fondamentale introdurre strumenti di analisi critica delle fonti e delle testimonianze, magari approfondendo autori come Carlo Ginzburg e le sue riflessioni sul metodo indiziario in storia, per distinguere tra ipotesi plausibili e speculazioni infondate.


7. Via Fani: Armamento e Azioni della Scorta

È stata messa in dubbio la preparazione della scorta di Moro durante l’attacco di Via Fani, diffondendo l’idea che le armi fossero chiuse nel portabagagli. Questa affermazione viene però smentita con decisione dal Ministero dell’Interno.

La Versione del Ministero dell’Interno

Secondo le fonti ufficiali, gli agenti della scorta erano armati ed erano pronti a reagire. Il brigadiere Zizzi, che comandava la scorta, aveva con sé una pistola Beretta e un mitra Beretta M12, entrambi pronti per essere usati. Dopo essere stato ucciso, il mitra gli fu rubato. L’agente Iozzino aveva una pistola Beretta 92FS e ha risposto subito al fuoco degli assalitori, prima di essere ucciso anche lui. Gli altri due carabinieri, Ricci e Leonardi, avevano pistole Smith & Wesson calibro .38.

La Reazione della Scorta e la Smentita della Polemica

Queste informazioni ufficiali dimostrano che la scorta non aveva le armi nel portabagagli e che ha reagito attivamente, soprattutto l’agente Iozzino. Documenti del Ministero dell’Interno e testimonianze dirette confermano che gli agenti erano armati e pronti a difendersi, contrariamente a quanto si è detto su una scorta impreparata. Durante l’attacco, Iozzino ha subito cercato di affrontare gli assalitori, ma la differenza di forze e l’organizzazione dei brigatisti non hanno permesso alla scorta di difendersi efficacemente.La discussione sulle armi nel portabagagli non ha quindi alcun fondamento. Probabilmente è nata da dichiarazioni sbagliate o interpretate male. Le prove concrete e le ricostruzioni ufficiali mostrano invece che la scorta era armata e pronta ad agire, anche se è stata sopraffatta dalla violenza e dalla preparazione dell’attacco terroristico.

Se la scorta era armata e pronta a reagire, come mai è stata sopraffatta così rapidamente e con esito fatale?
Affermare che la scorta fosse armata e pronta a reagire, come fa il capitolo, risolve solo una parte della questione. Rimane infatti aperto il problema di comprendere come mai, pur armati, gli agenti non siano riusciti a difendersi efficacemente. Per rispondere a questa domanda, sarebbe utile approfondire le dinamiche degli scontri a fuoco in contesti urbani, le tattiche di guerriglia urbana utilizzate dai gruppi terroristici negli anni di piombo, e le dottrine di sicurezza e addestramento delle forze dell’ordine italiane dell’epoca. Approfondimenti in questi ambiti, con autori specializzati in storia del terrorismo italiano e in strategie di sicurezza, potrebbero fornire una visione più completa e sfaccettata degli eventi di Via Fani.


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