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“Genocidio. Una passione europea” di Georges Bensoussan è un libro che scava a fondo nelle radici oscure della storia europea per capire come sia stato possibile arrivare alla Shoah e ad altre violenze di massa. Non si limita a cause superficiali, ma esplora quella “parte d’ombra” fatta di credenze irrazionali, paure collettive e miti antichi che hanno convissuto con il progresso della ragione. Il libro ti porta attraverso secoli di antigiudaismo, la diffusione di teorie del complotto, l’influenza brutale della Prima Guerra Mondiale, le pratiche disumanizzanti del colonialismo e l’ascesa di idee razziali e pseudoscientifiche come l’eugenismo e il darwinismo sociale, che hanno giustificato la selezione e l’eliminazione dei “deboli”. Bensoussan mostra come l’antisemitismo abbia funzionato come un collante sociale e un meccanismo di capro espiatorio in tutta Europa, con un focus particolare sul “sentiero speciale” della Germania, caratterizzato da un forte antilluminismo e un’ossessione per la purezza razziale. È un viaggio scomodo che dimostra come il genocidio non sia stato un’aberrazione improvvisa, ma il culmine tragico di correnti culturali e politiche profonde, radicate nella negazione dell’umanità dell’altro e nel sogno di una purificazione violenta.Riassunto Breve
La storia del ventesimo secolo dimostra che il progresso della ragione non elimina una parte d’ombra fatta di credenze collettive e irragionevolezza. La violenza di massa non si comprende solo con la ragione, ma richiede di esplorare le paure e i miti radicati nella storia. L’idea che la cultura protegga dal crimine è un’illusione; persone istruite partecipano attivamente ai massacri. La decisione di sterminare intere popolazioni nasce da ragioni profondamente ideologiche. Secoli di antigiudaismo creano una visione del mondo che vede gli ebrei come un problema. Questa antica ostilità si unisce alle speranze millenaristiche di un mondo purificato e alla corrente antilluminista che rifiuta la ragione e i diritti individuali. L’ascesa del pensiero biologico e razziale classifica gli esseri umani e giustifica l’eliminazione dei deboli o indesiderati. Questo percorso intellettuale, specifico dell’Europa, prepara il terreno per le catastrofi. L’Europa, intesa come entità etnica alla ricerca di radici mitiche, si distingue dall’ideale dell’Occidente, che cerca di unire la ragione dei Lumi e i valori universali. Radici ideologiche profonde, non la sola mancanza di cultura, rendono possibile l’orrore. La laicizzazione permette la sopravvivenza di schemi intellettuali antichi. La teoria cospirazionista vede una mano invisibile dietro gli eventi, eliminando il caso, modernizzando rappresentazioni medievali che dipingono gli ebrei come stregoni o parte di una cospirazione. Questo pensiero si diffonde, affiancato da discorsi millenaristici e isteria nazionalistica. Dopo il 1945, l’Europa fatica ad accettare l’influenza della corrente antilluminista. Pensatori e intellettuali di fine Ottocento e inizio Novecento contribuiscono a un clima mentale che partecipa alla barbarie. L’antigiudaismo di figure storiche fornisce argomenti per l’azione. Immaginari antiebraici popolari persistono. Le radici cristiane della giudeofobia sono note. Molti responsabili della Shoah provengono da contesti cristiani, e le Chiese tedesche spesso non denunciano la persecuzione. La distinzione tra antigiudaismo ecclesiale e antisemitismo moderno è una costruzione post-guerra per assolvere la Chiesa e l’Europa. La violenza di questo sottofondo contribuisce alla catastrofe. La Shoah non è un evento isolato. Le sue radici affondano in pratiche coloniali, eugenetica e concetti come “vita senza valore”. L’eugenismo, con i suoi ideali di selezione umana, trova risonanza nell’immaginario contemporaneo. Il periodo 1880-1914 rappresenta un incrocio cruciale. Una parte dell’ambiente intellettuale esalta la violenza e la guerra, vista come fondamento della vita, igiene sociale che elimina i deboli e fonte di civilizzazione. Questa brutalizzazione della società, legata a sconvolgimenti sociali e alla laicizzazione, contribuisce a un clima in cui la violenza repressa riemerge. Il darwinismo sociale, definito “barbarie generalizzata”, legittima l’ordine sociale e la violenza, servendo da copertura per i potenti e giustificando il principio che i deboli devono perire. Il successo di questa idea è legato a presupposti ideologici e alla secolarizzazione. Prima della Prima Guerra Mondiale, la cultura europea è dominata da testi che esaltano la guerra, vista come necessaria o divina. Movimenti come il Futurismo glorificano l’aggressività. La guerra legittima l’aggressività naturale e permette l’espressione di pulsioni violente. Molti intellettuali vivono il conflitto come un’esperienza mistica, un modo per superare i limiti dell’esistenza quotidiana e trovare un senso comunitario e personale. La guerra indurisce profondamente l’animo dei soldati, portandoli a una mentalità primitiva e selvaggia dove prevalgono egoismo e cinismo. Questa realtà porta alla “brutalizzazione”, un aumento della soglia di violenza accettata dalla società. La guerra non è vista come l’ultima, ma come l’inizio di altre violenze. La distinzione tra fronte e retrovie si attenua. La violenza contro i civili diventa un’arma. Questo processo di deportazione civile e l’internamento gettano le basi per futuri sistemi concentrazionari. Il conflitto si trasforma in una “guerra totale” con metodi selvaggi. L’uso di gas asfissianti e i bombardamenti sulle città segnano un punto di non ritorno. La guerra diventa una “guerra di sterminio”, un’idea rafforzata dall’uso dei gas, dal genocidio degli armeni e dalle grandi offensive. Il linguaggio riflette questa realtà, parlando di “consumo di uomini”. La violenza è alimentata da ideologie e da una sorta di religione nazionale. La guerra segna una regressione nel processo di civilizzazione, superando i limiti dell’orrore e aprendo la strada a violenze ancora maggiori. La Prima Guerra Mondiale segna un cambiamento profondo nella natura del conflitto. La guerra diventa un processo di annientamento metodico del nemico, concepito quasi come uno sterminio pianificato. L’uso di armi chimiche simboleggia questa volontà sterminatrice. Questo segna l’inizio di una “mobilitazione totale” e una “democratizzazione della morte”, dove la violenza colpisce indiscriminatamente. Il conflitto porta a una forte disumanizzazione. Il nemico non è più visto come un semplice avversario, ma come qualcosa da distruggere completamente, ridotto a un “ratto” o a un essere inferiore. Si diffonde una visione del nemico basata sulla “razza”, attribuendogli caratteristiche biologiche negative per giustificare la sua eliminazione. Questa “biologizzazione” esclude il nemico dal genere umano. Anche i soldati subiscono un processo di degradazione. Uccidere diventa un “mestiere”, un compito tecnico. La guerra rompe le norme civili e porta all’emergere di comportamenti antiumani. La Grande Guerra trasforma profondamente gli individui, rendendoli duri e selvaggi, e porta alla perdita di vecchie usanze. Si manifesta il presentimento che il conflitto non sia la fine delle guerre, ma l’inizio di cataclismi peggiori. L’esperienza bellica lascia un segno indelebile, alterando le persone e facendo dell’odio un legame sociale. La violenza estrema della guerra normalizza la brutalità. Massacri come il genocidio armeno provocano meno indignazione. L’esperienza sul fronte orientale contribuisce a preparare future campagne razziali. Le deportazioni e le devastazioni in Europa orientale durante la guerra anticipano gli orrori successivi. Il trauma psicologico del combattimento genera un’ossessione per la violenza e la morte. In Germania, il rifiuto della sconfitta del 1918 e l’impunità dei criminali di guerra impediscono l’accettazione della realtà. Il ricordo traumatico della carestia bellica influenza le future politiche. La guerra non porta la pace, ma prepara le menti e le società a una violenza continua e crescente. La guerra condotta dalla Germania sul fronte orientale presenta caratteristiche diverse rispetto al fronte occidentale. Nell’Est, l’azione tedesca si concentra sulla devastazione e sullo spopolamento, in una guerra definita criminale e meno studiata. Questa modalità bellica costituisce un precedente per le campagne di sterminio successive. L’Europa orientale viene vista dalla Germania come uno spazio coloniale, un “paese di guerra” dove la distruzione totale è la norma, giustificata da una presunta “missione civilizzatrice”. Si contrappone la Kultur tedesca a una percepita “non cultura” dell’Est. Questa visione coloniale e razzista prepara alla disumanizzazione. Emergono piani per un riassetto dello “spazio vitale” e una germanizzazione dell’Est, anticipando la politica del terrore degli anni Quaranta. La Grande Guerra provoca una brutalizzazione della società e della politica tedesca. Aumenta il bisogno di conformismo e la persecuzione delle devianze, rafforzando l’antisemitismo e la sindrome del “nemico interno”. Il linguaggio si brutalizza, usando termini disumanizzanti come “nocivo” e “sottouomo”, facilitando la distruzione del nemico astratto. La guerra non inventa il razzismo, ma ne facilita l’accettazione. L’indifferenza verso la vita umana cresce. Dopo la guerra, si registra un aumento degli omicidi. La Grande Guerra diventa un modello formativo per una generazione di giovani tedeschi, specialmente nell’estrema destra. L’esperienza del conflitto e il sentimento di sconfitta alimentano un’angoscia di scomparsa e il desiderio di annientare il nemico. Non avviene una reale smobilitazione degli spiriti; la cultura di guerra persiste. La paura di essere circondati da nemici nutre l’idea di uno scontro finale. Questa mentalità prepara il terreno per le violenze di massa del nazismo, viste come continuazione del combattimento iniziato nel 1914. La commemorazione della guerra, idealizzata, maschera la sua violenza e rende accettabile la morte di massa, contribuendo all’accettazione di massacri futuri. Una corrente di pensiero, legata all’Illuminismo, considera naturale che i neri siano esclusi dall’umanità piena. La schiavitù è giustificata dalla loro presunta natura umana incompleta. Nonostante siano visti come creature quasi umane, sono spesso descritti in termini animali o demoniaci. Il colore della pelle diventa il segno principale di questa inferiorità. Nel XIX e XX secolo, figure scientifiche e intellettuali continuano a sostenere l’inferiorità dei neri. Questo immaginario collettivo, basato sull’aspetto fisico e sulla repulsione, contribuisce a costruire il concetto di “razza” in senso dispregiativo. La tratta atlantica e il sistema coloniale si basano su una logica economica utilitaristica, dove gli esseri umani diventano “materia nuda”. Questa “economia dello scarto” tratta le vite come merci. La colonizzazione spesso mira all’annientamento o allo spopolamento degli autoctoni. Queste pratiche violente sono giustificate da teorie di superiorità razziale ed eugenetica. Medici sostengono che lo sterminio di razze “inferiori” è una necessità per il progresso dell’umanità. Queste idee, diffuse tra il 1860 e il 1914, vedono la lotta delle razze e la guerra come motori di progresso e legittimano il concetto di vite “senza valore”. Le guerre coloniali diventano un laboratorio per l’uso di violenza estrema, trattando i colonizzati come “caccia grossa”. L’imperialismo coloniale introduce un concetto politico nuovo, basato sulla negazione dell’umanità delle popolazioni dominate. Questa visione permette ai dominatori di considerarsi una “nazione eletta” e giustifica l’esclusione degli indigeni dal diritto comune. La violenza diventa parte integrante del sistema di dominio coloniale. I campi di concentramento nascono in questo contesto coloniale, usati per radunare e controllare popolazioni considerate potenzialmente ostili, sottoponendole a condizioni disumane. Stabiliscono l’idea di mettere intere popolazioni fuori dal circuito normale. Un esempio chiave è il genocidio del popolo Herero (1904), dove un ordine di sterminio costringe i sopravvissuti a morire nel deserto o li interna in campi di lavoro forzato. Questa violenza coloniale e le mentalità che crea si trasferiscono in Europa. Metodi brutali usati nelle colonie vengono impiegati anche nella metropoli. Lo statuto dell’indigeno, che lo pone fuori dalla legge, trova un parallelo nello “Statuto degli ebrei”. Parallelamente, la burocrazia moderna e la divisione del lavoro contribuiscono alla disumanizzazione. L’enfasi sull’efficienza e la frammentazione dei compiti rendono possibile commettere atti terribili senza percepirne la globalità. L’uomo viene ridotto a un dato quantitativo, oggetto di studio scientifico e classificazione, come mostrano gli “zoo umani”. Questa riduzione a puro dato biologico, unita alle teorie di igiene razziale, prepara il terreno per considerare l’eliminazione di gruppi umani come un compito da svolgere in nome della “salute” della “stirpe”. Un profondo pessimismo intellettuale si diffonde alla fine del diciannovesimo secolo, in contrasto con l’ottimismo dell’Illuminismo. Questa visione disincantata dell’intelletto ha radici antiche, legate all’ostilità verso la Rivoluzione francese e la democrazia, e include temi di decadenza. Pensatori vedono la specie umana in declino e considerano l’uomo un “animale malvagio”. L’antilluminismo chiude la porta alla razionalità ottimistica, affermando l’onnipresenza del male e la necessità di domare le pulsioni umane. Si cerca un colpevole per purificare il mondo. Joseph de Maistre è una figura centrale di questo antilluminismo. Rifiuta radicalmente la Rivoluzione, l’Illuminismo, la ragione, l’individualismo, l’uguaglianza e la democrazia. Sostiene che l’universo è dominato dalla violenza e che l’uomo è per natura malvagio. La guerra è vista come una legge eterna. La ragione è fragile, solo l’irrazionale dura. La società si basa sull’irrazionalità. L’individuo è un’illusione e deve dissolversi nello Stato. Crede che ogni sofferenza sia meritata a causa del peccato originale. L’autorità severa è necessaria per controllare la tendenza al male attraverso la paura. Libertà e ragione sono considerate vuote. Fede, istinto e collettività sono visti come le uniche vie per un mondo vivibile. Questo antimodernismo alimenta una corrente di pensiero politico che vede il cambiamento come declino. Il rifiuto della democrazia e del progresso si concentra sugli “ebrei” come simbolo della modernità distruttiva. Il razzismo si sviluppa in parallelo alla scienza, dimostrando l’impotenza della ragione contro la paura e il pensiero magico. Il nichilismo si manifesta nel rifiuto di un gruppo, proiettando sull’altro la paura della morte. Anche la virilità assume un ruolo centrale, legata alla preparazione alla guerra e al nazionalismo. Questo ideale promuove l’esclusione dell’altro e l’eliminazione dei più deboli, rifiutando l’idea di diritti umani per i “deficienti” e legandosi a politiche di distruzione. L’industrializzazione porta a sacralizzare la natura, vista come un ordine fisso. Questo si accompagna a un rifiuto della legge e un’esaltazione della forza. La natura diventa un valore assoluto, sostituendo idee come Dio o la Provvidenza, e legittima la violenza come legge naturale. In nome di questa natura divinizzata, i deboli devono scomparire. Il concetto di diritti umani viene negato. Si promuove una “natura senza pietà” dove la selezione naturale giustifica l’estinzione dei deboli. Questa visione esclude gruppi come gli ebrei, percepiti come “anti-natura” e associati all’inumano e alla debolezza. L’antisemitismo si lega a questa apologia della natura e al culto della virilità, accusando gli ebrei di aver introdotto la compassione, vista come un elemento che indebolisce. L’ideologia völkisch tedesca contrappone la natura autentica dei contadini alla civiltà artificiale della metropoli, identificando l’ebreo come il nemico che sradica e distrugge il legame con la terra. Nel XVIII secolo emerge l’idea di classificare gli esseri umani in gerarchie e razze. Nel XIX secolo, il poligenismo nega l’origine comune dell’umanità. Il darwinismo sociale, una volgarizzazione del pensiero di Darwin, afferma differenze di grado tra uomo e bestia e giustifica la lotta per la sopravvivenza tra individui e razze. Questa ideologia fornisce una base “scientifica” per l’imperialismo e lo sterminio di popolazioni native. L’eugenismo, inteso come miglioramento della specie umana attraverso la selezione, si diffonde ampiamente. È visto spesso come una dottrina progressista e scientifica. L’eugenismo negativo promuove l’eliminazione degli inadatti, inizialmente focalizzato sulle razze, poi esteso agli “scarti sociali”. Molti paesi adottano leggi sulla sterilizzazione forzata. La Germania nazista radicalizza questa logica, ma si basa su un clima culturale eugenetico già presente in Occidente. Dopo il 1945, la memoria di questa diffusa accettazione dell’eugenismo viene in gran parte occultata. Alla fine dell’Ottocento, le idee di Spencer e Darwin si diffondono, coincidendo con l’espansione industriale e coloniale. L’antisemitismo assume una forma razziale basata sul sangue. Molti autori presentano la storia come uno scontro continuo, dove prevale il più adatto. Si sostiene che l’aggressività umana, se regolata, possa migliorare l’umanità. Non mancano le critiche che avvertono che l’uso della scienza legittima la violenza e l’idea di sterminare gruppi umani. La paura della violenza sociale e dei poveri influenza l’evoluzione del darwinismo sociale. La selezione naturale diventa una giustificazione scientifica per l’aggressività sociale. Aiutare i deboli viene visto come un indebolimento generale dell’umanità. Darwin stesso prevede la scomparsa di “razze inferiori”. Figure denunciano l'”umanitarismo” e la “selezione al contrario” che favorirebbe i degenerati. La nozione di “igiene razziale” nasce per controllare i poveri e giustificare le politiche coloniali. Negli Stati Uniti si applicano queste idee alla sociologia, sostenendo che l’intervento statale ostacola la selezione naturale. Clémence Royer promuove il rifiuto dell’assistenza ai deboli, vedendo l’ineguaglianza naturale come base per l’ineguaglianza tra le razze. L’eugenetica si sviluppa per rimediare alla presunta degenerazione umana, legata al culto dell’ereditarietà. L’eugenismo negativo si lega alla paura delle classi lavoratrici, viste come “classi pericolose”. La povertà viene spiegata come degenerazione biologica. Dopo la Prima Guerra Mondiale, l’interesse per l’eugenetica cresce. In Germania, si propone l’eliminazione delle “vite indegne di essere vissute”, basandosi su costi economici e sul contrasto con i sacrifici di guerra. Si pone la società al di sopra dell’individuo. Questo clima intellettuale prepara il terreno per politiche più estreme. L’eugenetica diventa un movimento internazionale. Nel periodo tra le due guerre, le idee di eliminare i “degenerati” diventano più accettate. Leggi sulla sterilizzazione vengono introdotte in diversi paesi prima della Germania. La “religione dell’ereditarietà” e il razzismo offrono nuove giustificazioni per il disordine sociale e l’ineguaglianza. Dalla fine del XIX secolo, il pensiero politico e sociale adotta modelli biologici. Figure sostengono una selezione sociale basata sulla natura, dove l’inferiore può soppiantare il superiore. Gumplowicz nega il libero arbitrio, vedendo gli individui determinati dalla storia e dalla biologia, e la società come priva di diritti e doveri, governata da forze amorali. La società dovrebbe agire come la natura. Questa visione anticipa il biopotere, dove la vita individuale ha scarso valore rispetto alla produttività naturale. La seconda metà dell’Ottocento vede l’ascesa di una corrente antilluminista. Si tende a considerare il crimine come malattia e la società come un corpo da medicalizzare. Figure promuovono l’idea che fallimenti sociali e criminalità abbiano origini biologiche o psichiatriche innate, giustificando l’eliminazione o l’internamento dei “meno adatti”. L’eugenetica negativa si sviluppa con l’obiettivo di purificare la società eliminando gli indesiderabili. Questa biologizzazione si applica anche alla nozione di razza, che sostituisce la classe come chiave di lettura sociale. Il “pericolo giudaico” viene biologizzato, trattato come un problema di igiene pubblica. Il nazismo emerge come la prima biopolitica, usando mezzi moderni per distruggere lo spirito, basandosi su antilluminismo, scientismo e biologia razziale per giustificare l’eliminazione di intere popolazioni. Le radici di questo pensiero razziale affondano più indietro, nell’ossessione spagnola per la “purezza di sangue” dal XV secolo. Questa idea trattava l’origine e il “sangue” come un’essenza immutabile, capace di trasmettere “tare”, specialmente per i discendenti di ebrei. La Chiesa cattolica fu tra le prime istituzioni a formalizzare questa esclusione basata sull’origine. Questo passaggio dall’etnocentrismo culturale a quello biologico segna l’inizio del razzismo moderno, dove la razza diventa un punto fermo in un mondo in cambiamento, giustificando gerarchie e violenza. La razza si presenta come una spiegazione del mondo. Ernest Renan, ad esempio, contrappone una razza semitica, vista come stagnante, a una razza indoeuropea considerata superiore. Questa idea di una divisione radicale tra popoli si pone contro una visione storica e serve a giustificare la supremazia occidentale. In un’epoca di secolarizzazione, la razza sostituisce la Provvidenza come principio che ordina il mondo. Diventa la chiave per interpretare il divenire umano, una forma laicizzata del determinismo divino. L’immortalità non è più dell’anima, ma della razza, e la vita sacra non è quella individuale creata da Dio, ma la Vita della specie. L’esaltazione della razza e del corpo biologico prende il posto della spiritualità. La razza, elevata a valore sociale supremo, porta a esaltare il corpo e il biologico. Il razzismo segna il primato della biologia su ogni altra norma. Il concetto di razza, anche se l’antropologia ne dimostra l’inesistenza, viene creato per necessità politiche e sociali, per escludere l’altro. In un mondo razzializzato, la differenza non porta al compromesso, ma all’idea di sterminio. Razzializzare l’avversario lo riduce a un essere inferiore, giustificando una lotta per la vita o la morte. L’eugenismo e l’igiene razziale forniscono una copertura “scientifica” a questa visione, affermando l’esistenza di disuguaglianze naturali. Questo essenzialismo razziale porta a credere che non tutti gli esseri umani abbiano lo stesso valore o lo stesso diritto di vivere. La storia viene vista come una lotta cieca tra razze. Questa visione si sperimenta nel colonialismo, dove popoli sono considerati “inferiori” e destinati a scomparire. Darwinismo razziale e sociale contribuiscono a biologizzare la storia e a giustificare l’eliminazione dei deboli in nome della scienza. L’idea di sterminio, applicata inizialmente ai popoli non europei, si rivolge poi contro gli uomini stessi, una volta ridotti a meri oggetti. La guerra contro gli “inferiori” diventa necessaria per migliorare il genere umano. L’antigiudaismo si definisce come avversione verso la religione ebraica, mentre l’antisemitismo indica il rifiuto dell’intera comunità ebraica. La parola giudeofobia appare più precisa. Le relazioni tra cristianesimo e giudaismo sono state spesso difficili, segnate da violenza. Con la secolarizzazione, questa avversione si trasforma ma non scompare. L’ebreo non è visto come un’alternativa, ma come “Tanti-mondo”, simbolo della modernità percepita come fredda e sradicata. L’ebreo reale ha poca importanza; l’odio si rivolge a un ebreo fantasmatico, potente e abietto, incarnazione dei nuovi mali e delle ansie scaturite dal mondo moderno. L’antisemitismo diventa un modo per proiettare la paura del cambiamento. L’antisemitismo svolge una funzione catartica. L’ebreo, percepito come nemico interno, serve da capro espiatorio per scaricare la violenza del gruppo e spiegare il disordine sociale, spesso attraverso l’idea di un complotto. L’espulsione degli ebrei dalla Spagna non pose fine all’ossessione, ma la intensificò. Le accuse rivolte agli ebrei funzionano come autoassoluzione per l’accusatore. L’emancipazione, rendendo gli ebrei meno visibili, ha paradossalmente alimentato la paura di un pericolo nascosto. L’ebreo diventa così un ricettacolo per le paure collettive. Il “Monumento Henry” mostra come l’antisemitismo serva a unire gli individui attraverso un odio condiviso, offrendo una spiegazione semplice. Funziona come un meccanismo di catarsi sociale. La violenza espressa nei messaggi, che include desideri di eliminazione, non è solo retorica. Rappresenta una fase cruciale nella disumanizzazione dell’ebreo. Questo linguaggio estremo abitua le menti all’idea della violenza, rendendo l’assassinio non solo possibile ma desiderabile. Le parole agiscono come un anestetico per la coscienza, facilitando il passaggio dall’odio verbale all’azione. L’antisemitismo affonda le sue radici storiche nel difficile rapporto del mondo cristiano con le proprie origini ebraiche. L’ebreo incarna una figura paterna o un’origine scomoda che si cerca di ripudiare. Questa tensione si manifesta nell’ossessione per la purezza e l’angoscia per l’origine. Espressioni culturali hanno contribuito a diffondere un’immagine negativa e irrecuperabile dell’ebreo, trasformando l’antigiudaismo religioso in odio razziale. L’odio antisemita non si dirige verso l’ebreo reale, ma verso una proiezione che simboleggia le paure e le ansie della società. Questa pulsione, che porta a desiderare lo sterminio, nasce da una paura profonda in chi si percepisce come vittima e cerca una purificazione attraverso l’eliminazione dell’altro. L’odio antiebraico porta all’idea di separazione fisica, creando il ghetto. Dalla fine del XII secolo si chiede la segregazione degli ebrei per evitare contaminazioni e proteggere i cristiani dalla presunta magia nera ebraicaRiassunto Lungo
1. L’ombra irrazionale d’Europa
La storia del ventesimo secolo dimostra che il progresso della ragione non basta a eliminare completamente una parte oscura dell’animo umano, fatta di credenze diffuse e comportamenti irragionevoli. Per capire la violenza di massa non basta analizzare le cause razionali, ma è necessario esplorare le paure profonde e i miti che si sono accumulati nel corso della storia. L’idea che la cultura e l’istruzione proteggano automaticamente dal crimine è purtroppo un’illusione, poiché anche persone istruite hanno partecipato attivamente a massacri e atrocità.Le radici ideologiche della violenza
La decisione di sterminare intere popolazioni, come accaduto agli ebrei d’Europa, non nasce da un vuoto, ma affonda le sue radici in motivazioni profondamente ideologiche. Secoli di ostilità nei confronti degli ebrei, noti come antigiudaismo, hanno creato una visione del mondo che li considerava un problema da risolvere. Questa antica avversione si è mescolata con le speranze di un futuro radicalmente nuovo e purificato, tipiche dei movimenti millenaristi, e con la corrente di pensiero antilluminista che rifiutava il valore della ragione e i diritti fondamentali dell’individuo.Il pensiero razziale e la distinzione tra Europa e Occidente
A queste correnti si è aggiunta l’ascesa del pensiero biologico e razziale, che ha portato a classificare gli esseri umani in gerarchie e a giustificare l’eliminazione di coloro che venivano considerati deboli o indesiderati. Questo percorso intellettuale, che ha caratterizzato in modo particolare l’Europa, ha preparato il terreno per le catastrofi del secolo scorso. È importante distinguere l’Europa, intesa qui come un’entità che ha cercato le proprie origini in miti etnici, dall’ideale dell’Occidente, che invece si sforza di unire il pensiero razionale dell’Illuminismo con valori che valgono per tutti gli esseri umani. Sono state queste profonde radici ideologiche, e non semplicemente una mancanza di istruzione o cultura, a rendere possibile l’orrore.Ma davvero la complessità della violenza di massa del Novecento si riduce unicamente a un’ombra irrazionale e a radici ideologiche, ignorando il ruolo di strutture politiche, economiche e sociali?
Il capitolo, concentrandosi sulle radici ideologiche e irrazionali, offre una prospettiva importante ma rischia di trascurare il contesto in cui queste ideologie hanno potuto manifestarsi in violenza di massa. Fenomeni come lo sterminio non sono solo il prodotto di credenze profonde, ma anche di specifiche strutture di potere, organizzazioni burocratiche, dinamiche sociali di conformismo e obbedienza, e condizioni economiche che possono esacerbare le tensioni. Per avere un quadro più completo, sarebbe utile esplorare studi che analizzano il ruolo delle istituzioni e della società nell’abilitare la violenza, come quelli di Hannah Arendt o Zygmunt Bauman.2. Il Terreno Culturale dello Sterminio
La laicizzazione permette la sopravvivenza di schemi intellettuali antichi nell’Europa moderna. Tra questi schemi, spicca la teoria cospirazionista. Questa teoria immagina una mano invisibile che guida gli eventi, negando il ruolo del caso. È una versione moderna di antiche rappresentazioni medievali. Queste rappresentazioni dipingevano gli ebrei come figure maligne, spesso viste come stregoni al servizio di Satana, parte di una vasta cospirazione contro l’umanità. Questo tipo di pensiero, basato sulla cospirazione, si diffonde in Europa. Si accompagna a discorsi che prevedono grandi cambiamenti futuri e a un forte, a volte eccessivo, sentimento nazionalistico.L’Antigiudaismo e l’Influenza Cristiana
Le radici cristiane della giudeofobia sono ben note nella storia. Nonostante i tentativi fatti dopo il 1945 di attribuire il nazismo solo a origini pagane, molti di coloro che furono responsabili della Shoah provenivano da contesti culturali cristiani. Le Chiese tedesche, in molti casi, non alzarono la voce per denunciare la persecuzione degli ebrei. La distinzione che a volte si fa tra l’antigiudaismo legato alla Chiesa e l’antisemitismo moderno è una costruzione nata dopo la guerra, usata per cercare di assolvere la Chiesa e l’Europa dalle proprie responsabilità storiche. La violenza implicita in questo antico sottofondo culturale ha contribuito in modo significativo alla catastrofe. Dopo il 1945, l’Europa ha faticato ad accettare quanto abbiano influito le correnti di pensiero contrarie all’Illuminismo. Pensatori e intellettuali vissuti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento hanno contribuito a creare un clima mentale che ha avuto un ruolo nella barbarie. L’antigiudaismo di figure storiche come Lutero, ad esempio, ha fornito argomenti utili per le azioni persecutorie. Immaginari popolari contro gli ebrei, come storie di ebrei che profanano ostie sacre o rendono omaggio a Satana, erano largamente diffusi e sono rimasti a lungo radicati nelle mentalità comuni.Concetti di Violenza e Svalorizzazione della Vita
La Shoah non è un evento che nasce dal nulla. Le sue origini affondano anche in pratiche che esistevano prima, come quelle legate al colonialismo, all’eugenetica e a concetti terribili come quello di “vita senza valore”. L’eugenismo, con i suoi ideali di migliorare la razza umana attraverso la selezione, trovava purtroppo un’eco nell’immaginario di quel tempo. Il periodo tra il 1880 e il 1914 rappresenta un momento cruciale. Una parte importante dell’ambiente intellettuale di allora esaltava la violenza e la guerra. La guerra era vista come un fondamento della vita stessa, quasi un’igiene sociale capace di eliminare i più deboli e una fonte di civilizzazione. Pensatori come Moltke, Ammon, Gumplowicz, Soury, Treitschke e Bernhardi furono tra coloro che promossero attivamente questa visione. Anche l’educazione fisica e lo sport venivano spesso messi al servizio della preparazione militare e considerati un modo per sfogare in maniera controllata le pulsioni aggressive presenti nella società. Questa crescente brutalizzazione della società, legata anche a profondi cambiamenti sociali e al processo di laicizzazione, ha contribuito a creare un clima in cui la violenza repressa poteva riemergere in forme devastanti.La Shoah nella Storia Occidentale
La distruzione degli ebrei d’Europa non è uno scivolamento improvviso della ragione. Non è una parentesi isolata nella storia. Questo evento tragico si lega invece a una storia occidentale molto più antica. Per capire la Shoah, è fondamentale analizzare le sue radici culturali e politiche, vedendola come parte della storia universale. Non esistono cause singole, ma un terreno culturale complesso che ha reso possibile lo sterminio, mostrando come regressioni culturali e politiche siano sempre possibili e richiedano di comprendere le origini di schemi mentali arcaici che possono ancora prevalere.Ma è davvero così semplice liquidare la distinzione tra antigiudaismo religioso e antisemitismo razziale come un mero tentativo post-bellico di assoluzione?
Il capitolo presenta una tesi forte e provocatoria, suggerendo che la distinzione tra l’antigiudaismo storico di matrice religiosa e l’antisemitismo moderno, basato su teorie razziali, sia una “costruzione” successiva al 1945, finalizzata a scagionare la Chiesa e l’Europa. Sebbene sia innegabile l’esistenza di una continuità e l’influenza del primo sul secondo, e che l’antisemitismo moderno abbia spesso riciclato stereotipi antichi, molti storici sottolineano anche le differenze cruciali nella natura, nelle motivazioni e negli obiettivi tra le due forme di pregiudizio. L’antigiudaismo tradizionale, pur violento, offriva teoricamente la possibilità di conversione e assimilazione, mentre l’antisemitismo razziale negava questa possibilità, mirando all’esclusione totale o allo sterminio basato su un’identità biologica immutabile. Approfondire la complessità di questa transizione e le specificità dell’ideologia nazista, che non si esaurisce nel solo antisemitismo, è fondamentale per una comprensione completa. Per esplorare queste sfumature, è utile consultare studi sulla storia dell’antisemitismo e sulle sue diverse manifestazioni, leggendo autori come Léon Poliakov o Robert Wistrich.3. La giustificazione della violenza e l’esperienza della guerra
Il darwinismo sociale viene definito una “barbarie generalizzata”. Questa idea è criticata perché usa paragoni sbagliati tra la lotta per la vita in natura e la società umana. Il darwinismo sociale serve a giustificare l’ordine sociale esistente e la violenza, presentandosi come una scusa per i potenti e sostenendo che i deboli sono destinati a scomparire. Il successo di queste idee è legato a convinzioni ideologiche e al fatto che la società diventava meno legata alla religione. Prima della Prima Guerra Mondiale, molti testi in Europa esaltavano la guerra, presentandola come necessaria o voluta da Dio. Movimenti come il Futurismo lodavano l’aggressività, la violenza e il disprezzo per chi era considerato debole.Vivere la guerra
L’esperienza del conflitto
La guerra è vista come un modo per legittimare l’aggressività che è considerata naturale e per permettere alle persone di esprimere i loro impulsi violenti. Molti intellettuali vivono la guerra come un’esperienza quasi religiosa, un modo per superare i limiti della vita di tutti i giorni e trovare un senso di appartenenza a una comunità, oltre a un significato personale, anche di fronte alla morte. Il conflitto crea legami molto forti tra i soldati e dà valore al sacrificio che fanno. L’ideale di uomo forte e coraggioso è strettamente collegato all’accettazione del combattimento. La guerra è vista come un percorso per superare i propri limiti e liberare l’aggressività. È percepita come un evento eccezionale che rompe la monotonia della vita normale e attenta.Ma è possibile discutere del “ruolo centrale degli ebrei” nella fine dei tempi ignorando del tutto la prospettiva ebraica sulla fine dei tempi?
Il capitolo, pur descrivendo la posizione del popolo ebraico all’interno della visione millenaristica cristiana, omette completamente di esplorare le ricche e complesse tradizioni ebraiche relative all’era messianica e alla redenzione. Questa lacuna presenta un quadro parziale, dove il ruolo degli ebrei è definito esclusivamente da interpretazioni esterne. Per colmare questa lacuna e ottenere una comprensione più completa, è indispensabile approfondire la teologia ebraica e la sua escatologia. Autori come Maimonide o Gershom Scholem offrono prospettive fondamentali su questi temi.28. Il Sogno della Purificazione Violenta
La paura di un giudizio finale e la profonda attesa di un’età dell’oro hanno da sempre influenzato la cultura occidentale. Questa visione di un mondo completamente rinnovato include spesso l’idea che la presenza degli ebrei sia un ostacolo e che la loro scomparsa sia necessaria affinché l’umanità possa considerarsi purificata. L’immaginario collettivo, almeno fino al Seicento, ha dipinto un mondo senza ebrei come la condizione indispensabile per raggiungere una purezza umana ideale. La violenza contro gli ebrei affonda così le sue radici in una tradizione cristiana che li ha storicamente rifiutati ed emarginati. Questa emozione funziona quasi come l’attesa di un evento finale liberatorio, un desiderio profondo di annullamento che cerca un mondo libero dalla sofferenza e dalla morte. La passione antiebraica permette di superare la distinzione tra bene e male, diventando una forma di sottomissione volontaria che mira a liberare l’individuo dall’angoscia esistenziale.La Violenza come Via alla Purificazione
Questo contesto emotivo e culturale prepara in modo significativo il terreno per gli stermini di massa. Secondo alcune visioni millenariste, l’arrivo dell’età dell’oro si realizza solo dopo una guerra o un conflitto violento destinato a sradicare completamente i malvagi dalla terra. Già all’inizio del Cinquecento, figure come Thomas Müntzer sostenevano apertamente che i malvagi non avessero alcun diritto di continuare a vivere. Le rivolte popolari e la violenza collettiva offrono in questi scenari l’opportunità concreta di stravolgimenti sociali radicali. La violenza esercitata dalla folla permette ai partecipanti di sentirsi intensamente vivi e potenti, superando la paura della morte e rovesciando le norme morali fondamentali: il comandamento “Non uccidere” viene sostituito dall’imperativo “Uccidi”. È proprio da questo rovesciamento radicale delle regole che può scaturire il genocidio, un atto che fa sentire il gruppo autore della violenza trionfante e pieno di vitalità.Il Nemico Interno e lo Schema Purificatore
La collettività, in questi contesti, tende a rappresentarsi come vittima di un complotto o di una minaccia, trovando così una giustificazione morale per la violenza sterminatrice. Paure e ansie diffuse alimentano il panico collettivo e portano a identificare rapidamente un nemico esterno su cui proiettare ogni male. Si giustifica così una violenza definita “purificatrice”, basata su uno schema mentale molto antico che, sorprendentemente, dura ancora oggi e si ripresenta in varie forme. L’idea centrale è quella di una vera e propria “macchina per purificare” la società eliminando gli elementi considerati impuri o pericolosi. Questo schema si ripresenta con forza in contesti di povertà, insicurezza e disordine sociale, dove i gruppi considerati “senza radici” o emarginati diventano spesso le truppe d’assalto di un millenarismo violento e distruttivo. Massacri di ebrei e altri gruppi ritenuti “empi” nel Medioevo, come quelli compiuti dai Flagellanti o dai Pastorelli, miravano esplicitamente ad aprire la strada a un’epoca di felicità terrena attraverso l’eliminazione fisica del nemico. Il risentimento sociale e religioso agisce come un potente motore di queste azioni, spingendo gli “eletti” o i “puri” a sbarazzarsi dei ricchi, degli “infedeli” o dei diversi per accelerare l’arrivo del millennio promesso. In questo contesto, l’ebreo, spesso dipinto come l’incarnazione stessa del male o come l’agente dell’Anticristo, deve essere eliminato per purificare completamente il mondo e prepararlo all’arrivo del regno divino.Esempi Storici di Violenza Purificatrice
Le crociate dei pezzenti e dei Pastorelli, ad esempio, mostrano chiaramente un odio di classe che si rivolgeva con violenza anche contro le comunità ebraiche, nella convinzione che una nuova era di giustizia potesse arrivare solo dopo un bagno di sangue purificatore. Questa visione escatologica permette di delegare a un’entità superiore, spesso Dio stesso, la punizione dei “cattivi” o degli “empi”, rendendo psicologicamente più facile l’eliminazione fisica dell’Altro. Prediche violente, come quella pronunciata da frate Francesco a Firenze nel 1513, descrivevano apertamente spargimenti di sangue e distruzione come parte necessaria di un movimento di purificazione sociale e religiosa voluto da Dio. Le persecuzioni di minoranze e la caccia alle streghe funzionavano come vere e proprie valvole di sfogo per le tensioni sociali e religiose, dove la società cercava di purificarsi simbolicamente e realmente attraverso il sacrificio di vittime esterne. L’Inquisizione spagnola, ad esempio, vedeva l’attesa messianica ebraica come pericolosamente legata all’Anticristo e al Male, portando a processi di purificazione spesso culminati nel rogo degli eretici o dei convertiti sospetti. I Flagellanti durante la Peste Nera trovarono negli ebrei le vittime sacrificali perfette per placare l’ira divina e trovare un capro espiatorio per la calamità, causando grandi stragi in Germania e in altre parti d’Europa. A Münster, la presa del potere da parte degli anabattisti nel 1534 portò alla creazione di scenari apocalittici di purificazione con fuoco e sangue, che inclusero l’espulsione violenta di tutti gli “empi” dalla città e l’instaurazione di un regime teocratico radicale.La Persistenza di un Sogno Pericoloso
Anche quando l’utopia millenarista perde i suoi connotati strettamente religiosi e si laicizza, essa mantiene un riferimento costante a un Male esterno da identificare e combattere con ogni mezzo. Spesso, questo Male esterno viene identificato proprio con gli ebrei, visti come suoi agenti, cospiratori o rappresentanti di forze oscure. Lo schema mentale del bisogno di purificare il mondo da un nemico persiste dunque attraverso i secoli e i contesti culturali e politici più diversi. La folla, in questi scenari, è facilmente manipolabile, pronta ad accusare le vittime designate e viene incitata all’azione violenta da agitatori carismatici. Sia che questi agitatori parlino in nome di Dio, di una specifica ideologia politica o di un presunto destino storico, il loro scopo è diffondere odio, individuare un colpevole e promettere una salvezza o un mondo migliore raggiungibile solo attraverso l’eliminazione fisica o simbolica del nemico. Il sogno di un’uscita radicale dalla storia, di un rinnovamento totale e definitivo attraverso sangue e fuoco purificatori, continua purtroppo a muovere le menti e a generare violenza distruttiva.Davvero la complessa storia dell’antisemitismo si riduce a un unico ‘sogno di purificazione’, per quanto violento?
Il capitolo presenta in modo efficace il legame storico tra l’attesa millenarista, il desiderio di purificazione e la violenza antiebraica, evidenziando uno schema mentale persistente. Tuttavia, concentrarsi quasi esclusivamente su questa dinamica, pur fondamentale per certi periodi storici, rischia di semplificare eccessivamente un fenomeno multiforme come l’antisemitismo, che ha radici profonde e si è manifestato in forme diverse (religiose, economiche, sociali, razziali) nel corso dei secoli e in contesti culturali differenti. Per cogliere appieno la complessità del tema, è essenziale integrare questa prospettiva con l’analisi di altri fattori storici, sociali ed economici. Approfondimenti sulla storia dell’antisemitismo nel suo complesso, studi sulla sociologia del pregiudizio e sulla psicologia delle masse possono offrire un quadro più completo. Autori come Léon Poliakov, Raul Hilberg o Hannah Arendt offrono prospettive cruciali che vanno oltre la sola dimensione del “sogno purificatore”.Abbiamo riassunto il possibile
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