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Informazioni
“Gaza. Odio e amore per Israele” di Gad Lerner ti porta dritto nel cuore del conflitto Israele-Palestina dopo l’attacco Hamas 7 ottobre. Il libro analizza come l’operazione “Diluvio al-Aqsa” abbia squarciato la percezione di sicurezza di Israele e scatenato la guerra Gaza, mostrando le gravi falle nell’apparato di sicurezza e le responsabilità politiche del governo Netanyahu. Ma non è solo un racconto di guerra: Lerner scava a fondo nelle divisioni interne Israele, esplorando le tensioni nella società israeliana tra diverse “tribù” e la crescente influenza del nazionalismo religioso. Affronta la complessa questione della diaspora ebraica e il rapporto con lo Stato ebraico, mettendo in discussione la visione “israelocentrica” e l’idea che solo in Israele l’identità ebraica possa sopravvivere. Il libro esplora l’evoluzione di Hamas, la “guerra delle parole” che infiamma il dibattito pubblico con termini controversi, e l’insolita alleanza tra la destra internazionale e il sionismo. Lerner non offre risposte facili, ma invita a riflettere sugli “anacronismi” che alimentano il conflitto e sulla necessità di superare l’odio per cercare una possibile convivenza, anche considerando “utopie necessarie” oltre la soluzione dei due Stati per affrontare la questione palestinese. È un viaggio intenso tra storia, politica e identità, che cerca di capire le radici profonde di un odio che sembra non finire mai, ma anche la possibilità di un amore complesso e travagliato per una terra contesa.Riassunto Breve
Il 7 ottobre 2023, durante la festa di Simchat Torah, Hamas lancia un attacco su larga scala contro Israele, superando la barriera di Gaza e colpendo diverse località, causando centinaia di morti e ostaggi. L’operazione, chiamata “Diluvio al-Aqsa”, è legata alla disputa sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif a Gerusalemme. Questo attacco rivela una grave falla nella sicurezza israeliana e segna un punto di svolta, con la responsabilità attribuita al governo Netanyahu per aver sottovalutato Hamas e perseguito politiche che hanno alimentato il conflitto. La società israeliana presenta profonde divisioni interne, non solo sociali ma anche tra diverse componenti culturali e religiose. Emerge una visione “israelocentrica” dell’ebraismo, che vede Israele come l’unica vera patria e la diaspora a rischio di assimilazione, manifestata nel tentativo di riportare in Israele un bambino ebreo orfano in Italia per preservarne l’identità. La risposta militare israeliana a Gaza, l’operazione “Spade di ferro”, è vista come una reazione prevedibile ma potenzialmente autodistruttiva, richiamando l’immagine biblica di Sansone. L’idea di ristabilire insediamenti a Gaza, avanzata dall’estrema destra, riflette un nazionalismo etnocentrico e un messianismo che ignora la possibilità di convivenza. Hamas, nato dalla Fratellanza Musulmana, è visto dalla destra israeliana come un “nemico perfetto” e ha mostrato un’evoluzione strategica, passando da una Carta apertamente antisemita nel 1988 a una più moderata nel 2017, pur mantenendo l’obiettivo della liberazione totale. In Israele si osserva un senso di claustrofobia e un aumento dell’emigrazione, dovuto alla ricerca di una vita meno stressante, all’evitare il servizio militare e alla saturazione del paese. Le divisioni interne tra laici e ortodossi e l’aumento dell’estremismo sono evidenti nelle proteste contro la riforma giudiziaria. Si parla di un “Rinascimento ebraico” che sembra giungere al termine, segnato dalle tensioni interne e dal conflitto. La Striscia di Gaza, vicina a Tel Aviv, ha condizioni di vita drasticamente diverse e dal 2007 è chiusa, limitando la mobilità. Molti israeliani hanno evitato di confrontarsi con la questione palestinese, un atteggiamento definito rimozione di massa. Le divisioni interne israeliane sono descritte come “tribù” in conflitto, tra cui Mizrahim, immigrati russi, Falascia, arabi israeliani e diverse correnti religiose. La destra nazionalista e religiosa ha guadagnato influenza, promuovendo un’interpretazione etnocentrica dello Stato, riflessa nella Legge fondamentale del 2018 che definisce Israele “casa nazionale del popolo ebraico” e riduce lo status dell’arabo. La sinistra israeliana è in declino, incapace di proporre soluzioni come i “due Stati”. Il conflitto ha intensificato una “guerra delle parole”, con l’uso controverso di termini come “genocidio” o “nazisti”, che rischia di distorcere la memoria storica e alimentare l’odio. La popolazione ebraica mondiale è ridotta, ma la sua presenza nel dibattito pubblico è ampia, alimentando stereotipi. La guerra del 2023 ha intensificato l’ostilità antiebraica, legando gli ebrei della diaspora alle azioni di Israele e riproponendo lo stereotipo dell’ebreo errante sleale. Il trauma storico della dispersione persiste, acutizzando un conflitto interno all’ebraismo tra esclusivismo e universalismo. L’universalismo è visto come chiave per la sopravvivenza ebraica, mentre l’esclusivismo rischia di mortificare questa predisposizione. Primo Levi sosteneva che il baricentro unificatore dell’ebraismo dovesse tornare nella diaspora per ricordare agli israeliani il filone della tolleranza, criticando le politiche israeliane e vedendo una “normalizzazione” di Israele verso un paese mediorientale a rischio di contagio integralista. Gli Accordi di Abramo del 2020 hanno normalizzato i rapporti tra Israele e alcuni paesi arabi, spinti dal comune interesse a contenere l’Iran, ma l’opinione pubblica araba rimane contraria. La guerra di Gaza ha mostrato i limiti di questa “pace dei ricchi”, isolando Israele e danneggiandone la reputazione. Israele e Iran sono visti come due anacronismi: Israele con il sionismo religioso che mira a una restaurazione teocratica basata sull’esclusivismo etnico, e l’Iran con il suo regime teocratico che sopprime le aspirazioni di libertà. Entrambi si concepiscono come entità nazionali e globali. La guerra di Gaza ha radicalizzato le visioni, portando molti nel mondo a vedere Israele come un avamposto coloniale. Contrastare l’antisemitismo e garantire la sicurezza di Israele richiede di comprendere la prospettiva degli altri e cercare la convivenza, superando l’anacronismo di un approccio basato solo sulla forza o sull’esclusivismo. La destra politica internazionale e italiana manifesta un forte sostegno a Israele, un cambiamento rispetto all’antisemitismo storico, influenzato negli USA dal sionismo cristiano. Per la destra europea, l’alleanza con Israele offre legittimazione e un modello di stato nazionale identitario. Il governo israeliano ha cercato attivamente legami con questi partiti, talvolta trascurando le loro posizioni problematiche. Le critiche alle azioni di Israele vengono spesso etichettate come antisemitismo, causando divisioni anche nelle comunità ebraiche. La ricerca di soluzioni è complessa; l’ipotesi dei “due Stati” è vista come non realistica, mentre si considerano alternative come confederazioni o un unico Stato binazionale. Le dottrine religiose irrigidiscono le posizioni e sacralizzano il territorio. La situazione attuale evidenzia il contrasto tra l’esaltazione del particolare e la necessità di un pensiero critico e universale per trovare una via d’uscita dalla violenza.Riassunto Lungo
1. La Fortezza Fragile e la Visione Israelocentrica
Il 7 ottobre 2023, durante la festività di Simchat Torah, Hamas ha lanciato un attacco su larga scala contro Israele. Le forze di Hamas hanno superato la barriera di Gaza, colpendo città, kibbutz e un rave party. Migliaia di razzi sono stati lanciati contemporaneamente. Centinaia di civili israeliani sono stati uccisi e presi in ostaggio. L’operazione, chiamata “Diluvio al-Aqsa”, è stata collegata alla disputa sul Monte del Tempio, noto anche come Haram al-Sharif a Gerusalemme, un luogo sacro sia per ebrei che per musulmani, che Hamas considera centrale per la sua lotta.Le conseguenze e le responsabilità
L’attacco ha messo in luce una grave falla nell’apparato di sicurezza israeliano, segnando un momento cruciale nel conflitto. La responsabilità di questo fallimento è stata attribuita al governo guidato da Netanyahu. Si sostiene che il governo abbia sottovalutato la forza di Hamas e abbia favorito il suo rafforzamento. Inoltre, le politiche di annessione ed esproprio in Cisgiordania e l’ignorare i diritti dei palestinesi sono visti come fattori che hanno alimentato l’odio e contribuito alla situazione.Divisioni interne e la visione israelocentrica
La società israeliana presenta profonde divisioni interne, che vanno oltre le differenze sociali e toccano aspetti culturali. Diverse componenti della società faticano a convivere pacificamente. In questo contesto, emerge una visione che potremmo definire “israelocentrica” dell’ebraismo. Questa prospettiva considera Israele come l’unica vera patria per gli ebrei, mentre la diaspora, cioè gli ebrei che vivono fuori da Israele, sarebbe destinata all’assimilazione e alla perdita della propria identità. Un esempio concreto di questa idea si è manifestato nel tentativo di riportare in Israele un bambino ebreo rimasto orfano in Italia, con la convinzione che solo in Israele la sua identità ebraica potesse essere realmente preservata.La risposta militare e le sue implicazioni
La risposta militare israeliana a Gaza, chiamata operazione “Spade di ferro”, è stata una reazione attesa. Tuttavia, viene vista anche come un’azione potenzialmente autodistruttiva. Questa visione richiama la figura biblica di Sansone, che distrugge il tempio filisteo causando la propria morte insieme a quella dei nemici. L’idea di ristabilire insediamenti ebraici a Gaza, proposta dall’estrema destra israeliana, riflette un nazionalismo basato sull’identità etnica e un’attesa messianica. Questa mentalità ignora la possibilità di una convivenza pacifica e si collega a episodi storici di false redenzioni, cioè momenti in cui si è creduto di raggiungere una salvezza o un riscatto che poi si sono rivelati illusori o dannosi.È sufficiente analizzare gli eventi del 7 ottobre e la successiva risposta militare concentrandosi quasi esclusivamente sulle dinamiche interne israeliane e sulla ‘visione israelocentrica’, senza un’adeguata contestualizzazione della storia e delle motivazioni dell’altra parte in causa?
Il capitolo offre una prospettiva sugli eventi che, pur valida, potrebbe beneficiare di un maggiore approfondimento sul contesto storico e politico che ha portato all’attacco. Per comprendere appieno la complessità della situazione, è fondamentale studiare la storia del conflitto israelo-palestinese nel suo complesso, le dinamiche politiche interne palestinesi (in particolare quelle relative ad Hamas), e le interazioni regionali. Discipline come la storia del Medio Oriente, le scienze politiche e gli studi sui conflitti possono fornire gli strumenti necessari. Per un approfondimento, si possono consultare autori che hanno studiato a fondo la storia palestinese e le dinamiche di Hamas, come Rashid Khalidi o Tareq Baconi.2. Scontro e Declino
L’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas ha generato una reazione internazionale verso il gruppo diversa da quella che seguì Al-Qaeda dopo l’11 settembre. Hamas, il “Movimento di resistenza islamico”, lega la lotta palestinese a un progetto religioso chiaro. Promuove l’idea del martirio come parte di questa lotta. Non fa distinzione tra la leadership politica e quella religiosa al suo interno. Per la destra israeliana, Hamas rappresenta un “nemico perfetto”. Entrambe le parti, in questa visione, rifiutano ogni possibilità di compromesso.Chi è Hamas e la sua evoluzione
Hamas nasce nel 1987, originando dalla Fratellanza Musulmana. Inizialmente, fu persino favorita da Israele per creare un contrappeso all’OLP, che era laica. Dopo aver preso il controllo di Gaza nel 2007, Hamas ha mostrato un cambiamento nella sua strategia. La sua Carta del 1988 conteneva posizioni apertamente antisemite e dichiarava l’obiettivo di distruggere Israele attraverso la jihad. La versione del 2017 presenta un linguaggio più misurato. Fa una distinzione tra gli ebrei e i sionisti. Utilizza riferimenti al diritto internazionale, pur mantenendo l’obiettivo della liberazione totale della Palestina. Hamas dimostra così la capacità di adattare la sua comunicazione per rivolgersi a pubblici diversi.Le tensioni interne in Israele
In Israele, si percepisce un crescente senso di chiusura e soffocamento. Questo porta a un aumento dell’emigrazione, chiamata “yeridah”. Le persone cercano una vita meno stressante all’estero. Vogliono evitare il servizio militare obbligatorio. Si sentono saturate da un paese molto densamente popolato e con costi elevati. La società israeliana è sempre più divisa al suo interno. Le fratture maggiori sono tra laici e ortodossi. Si assiste a un aumento dell’estremismo e di un linguaggio carico di razzismo. Le grandi proteste del 2023 contro la riforma giudiziaria hanno messo in luce queste profonde tensioni. Il primo ministro Netanyahu, in questo contesto, sembra privilegiare l’uso della forza rispetto a un approccio basato sulla “superiorità morale”.Una crisi che segna la fine di un’epoca
A partire dalla nascita dello Stato di Israele, si è parlato di un “Rinascimento ebraico”. Questo periodo è stato caratterizzato da notevoli successi in molti campi diversi. Oggi, questo periodo sembra giungere alla sua conclusione naturale. Le forti tensioni interne in Israele contribuiscono a questa percezione. Anche il conflitto in corso gioca un ruolo centrale. L’estremismo che si manifesta sia in Hamas sia nel sionismo religioso riflette in modo evidente questo diffuso sentimento di crisi profonda.La presunta “capacità di adattare la comunicazione” di Hamas è una reale evoluzione strategica o un mero camuffamento retorico per pubblici diversi?
Il capitolo accenna al cambiamento nella Carta di Hamas tra il 1988 e il 2017, suggerendo un’evoluzione nella strategia comunicativa del gruppo. Tuttavia, non approfondisce il dibattito cruciale sulla natura di questo cambiamento: si tratta di una vera moderazione degli obiettivi o semplicemente di un adattamento tattico del linguaggio per migliorare l’immagine internazionale e sfruttare il diritto internazionale come strumento politico? Per comprendere meglio questa ambiguità, è fondamentale studiare la storia e l’ideologia di Hamas in modo più approfondito, analizzando non solo i documenti ufficiali ma anche le azioni concrete e le dichiarazioni dei leader nel tempo. Approfondire la politologia del Medio Oriente e l’analisi del discorso politico di gruppi non statali può fornire gli strumenti necessari. Autori come Shaul Mishal o Paola Caridi hanno esplorato la complessità interna e l’evoluzione di Hamas, offrendo spunti critici su quanto la retorica corrisponda alla realtà strategica.3. Tribù in Conflitto e Parole Contese
La Striscia di Gaza si trova a breve distanza da Tel Aviv, eppure le condizioni di vita sono profondamente diverse. Il reddito pro capite palestinese è molto inferiore a quello israeliano. Dal 2007, la Striscia è di fatto chiusa, limitando drasticamente la libertà di movimento per la sua popolazione e creando un isolamento che incide pesantemente sulla vita quotidiana. Molti israeliani hanno a lungo evitato di confrontarsi con questa realtà, un atteggiamento che è stato definito “rimozione di massa” della questione palestinese.Divisioni Interne nella Società Israeliana
All’interno della società israeliana esistono profonde divisioni, spesso descritte come diverse “tribù”. Queste includono gli ebrei di origine mediorientale, chiamati Mizrahim, gli immigrati provenienti dalla Russia, gli ebrei etiopi noti come Falascia, gli arabi israeliani e varie correnti religiose, come laici, tradizionali, ortodossi e ultraortodossi. La convivenza tra queste componenti genera tensioni interne significative. In particolare, si notano conflitti tra gruppi laici e religiosi, e tra le élite e le comunità meno favorite. Queste fratture sociali e culturali contribuiscono a complicare il quadro politico e sociale del paese.Il Panorama Politico: Destra in Ascesa e Sinistra in Declino
Negli ultimi anni, la destra nazionalista e religiosa ha guadagnato una notevole influenza sulla politica israeliana. Questa corrente promuove una visione dello Stato basata sull’identità etnica e religiosa e valorizza in modo particolare gli insediamenti nei territori contesi. Questo orientamento si è consolidato con la Legge fondamentale del 2018, che definisce Israele come la “casa nazionale del popolo ebraico” e ha ridotto lo status della lingua araba. Tale visione politica si avvicina a quella del sionismo revisionista, che in passato aspirava a creare uno Stato ebraico uniforme su tutta l’area storica della Palestina, segnando un distacco dalle visioni più inclusive del passato.Parallelamente all’ascesa della destra, la sinistra israeliana ha attraversato un periodo di significativo declino. Ha mostrato difficoltà nel proporre un orizzonte politico chiaro per il futuro, non riuscendo ad esempio a rilanciare con forza la soluzione basata su “Due popoli, due Stati”. Inoltre, la sinistra ha faticato a stabilire un legame solido con le comunità socialmente ed economicamente svantaggiate del paese. Questa difficoltà nel connettersi con diverse fasce della popolazione ha limitato la sua capacità di influenzare il dibattito pubblico e di rappresentare un’alternativa credibile. La sua visione politica è apparsa meno incisiva rispetto a quella delle forze nazionaliste emergenti.La Guerra delle Parole e l’Uso Controverso dei Termini
Il conflitto in corso ha intensificato quella che si può definire una vera e propria “guerra delle parole”. Si assiste all’uso frequente e spesso controverso di termini carichi di significato storico e morale. Parole come “genocidio”, “nazisti”, “ghetto”, “pulizia etnica”, “lager”, “vendetta” e “pogrom” vengono impiegate nel dibattito pubblico. L’uso di questi termini, soprattutto quando si fanno paragoni storici complessi tra eventi come la Shoah e la Nakba, genera forti polemiche. Questo linguaggio rischia di distorcere la memoria storica, in particolare quella della Shoah, che ha un significato unico e universale. La disputa sull’uso di tali termini, invece di concentrarsi sul dramma umano in atto, finisce spesso per alimentare l’odio e rendere più difficile una comprensione condivisa della realtà.Definire Israele e Iran come meri “anacronismi” non rischia forse di liquidare con troppa leggerezza la complessità storica e politica di due Stati così profondamente radicati nel presente mediorientale?
Il capitolo propone l’idea che Israele e Iran siano “anacronismi”, suggerendo una loro presunta inadeguatezza al mondo contemporaneo basata su aspetti come l’esclusione etnica o la commistione tra religione e Stato. Questa prospettiva, sebbene stimolante, necessita di un’analisi più approfondita per non cadere in semplificazioni. Per valutare la validità di tale etichetta, è indispensabile studiare la storia del sionismo nelle sue diverse correnti e le dinamiche della Rivoluzione Iraniana, confrontandosi con autori che hanno esplorato la modernità e le sue sfide nel contesto mediorientale, la storia politica della regione e le interazioni tra religione e potere.5. La Destra e la Terra Promessa
La destra politica, sia a livello internazionale che in Italia, mostra un forte sostegno a Israele e si identifica con il sionismo. Questo rappresenta un cambiamento rispetto all’antisemitismo che storicamente era presente in questi ambienti. Negli Stati Uniti, questa posizione è molto influenzata dal sionismo cristiano, una corrente religiosa che vede l’esistenza di Israele come l’avverarsi di antiche profezie della Bibbia. Per la destra in Europa, l’alleanza con Israele serve a ottenere riconoscimento politico e a trovare un modello di stato nazionale forte, che mette al centro l’identità nazionale e critica la globalizzazione e le organizzazioni internazionali. Le idee di Yoram Hazony, che promuovono un nazionalismo basato su gruppi etnici e nazioni indipendenti contro l’idea di un mondo unito e liberale, offrono una base teorica per questa visione. Il governo israeliano, guidato da Netanyahu, ha cercato attivamente di stringere legami con questi partiti di destra, a volte mettendo in secondo piano le loro posizioni problematiche su temi come l’antisemitismo, in cambio di vantaggi strategici.Le tensioni attuali e la ricerca di soluzioni
Il conflitto a Gaza ha reso le tensioni ancora più forti. Chi critica le azioni di Israele viene spesso accusato di antisemitismo, creando divisioni anche all’interno delle comunità ebraiche. Nelle manifestazioni a favore della Palestina, la parola “sionista” è diventata un insulto. Trovare soluzioni per la situazione attuale sembra molto difficile. L’idea tradizionale di creare “due Stati” separati è considerata da alcuni non più realizzabile a causa delle colonie israeliane nei territori palestinesi e della situazione sul campo. Si stanno valutando altre possibilità, definite “utopie necessarie”, come la creazione di confederazioni o di un unico Stato dove ebrei e palestinesi convivano, per affrontare la convivenza forzata tra i due popoli. Le credenze religiose contribuiscono a rendere le posizioni più rigide e a considerare il territorio come sacro. La situazione attuale mette in luce il contrasto tra chi esalta le differenze particolari e la necessità di un pensiero critico e aperto a tutti per trovare una via d’uscita dalla violenza.Ma se criticare le azioni di uno stato è “spesso” accusato di antisemitismo, come si può distinguere la critica legittima dalla discriminazione razziale?
Il capitolo evidenzia una tensione cruciale nel dibattito attuale, ovvero come la critica verso Israele venga frequentemente etichettata come antisemitismo. Tuttavia, questa constatazione non offre gli strumenti necessari per discernere quando tale accusa sia fondata e quando invece rappresenti un tentativo di delegittimare qualsiasi dissenso politico. Per affrontare questa complessa distinzione, è fondamentale approfondire gli studi sull’antisemitismo contemporaneo, la storia del sionismo e le dinamiche del conflitto israelo-palestinese, esplorando le diverse prospettive accademiche e politiche che analizzano il confine, spesso sfumato e strumentalizzato, tra critica politica e pregiudizio razziale.Abbiamo riassunto il possibile
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