1. La critica della conoscenza pratica e il diritto come fatto
Alf Ross è una figura importante nella filosofia del diritto del Novecento, noto per il suo modo di pensare basato sui fatti e sulla realtà. Un suo libro fondamentale per capire le sue idee è la Critica della cosiddetta conoscenza pratica, scritto nel 1933. In questo libro, Ross spiega che non esiste una conoscenza oggettiva di ciò che è giusto o sbagliato, dei valori o dei doveri morali. Secondo lui, quando esprimiamo giudizi di valore, non stiamo descrivendo qualcosa di vero nel mondo, ma stiamo solo mostrando le nostre emozioni o i nostri impulsi personali. Questa posizione filosofica sui valori è chiamata emotivismo. Questa idea sul valore ha un forte legame con il suo modo di vedere il diritto. Ross considera il diritto qualcosa creato dagli esseri umani, che non dipende da principi naturali o da verità morali universali. La scienza che studia il diritto, per Ross, deve guardare al diritto come a un fatto concreto, concentrandosi su quanto è “vigente”. La “vigenza” significa la probabilità che le regole del diritto vengano effettivamente applicate dai giudici. L’idea di una “validità” del diritto intesa come una forza che ci obbliga in modo oggettivo, invece, viene rifiutata da Ross, che la vede solo come un sentimento psicologico provato dai giudici.Critiche e chiarimenti
L’idea di Ross che i valori siano solo soggettivi fu criticata, perché sembrava portare a un “nichilismo”, cioè all’idea che i valori non contano nulla, specialmente considerando il periodo storico in cui stavano nascendo i regimi totalitari. Tuttavia, Ross e altri studiosi che la pensavano come lui (realisti scandinavi) hanno poi spiegato meglio il loro punto di vista. Hanno chiarito che, anche se i valori nascono da sentimenti personali, funzionano all’interno di contesti culturali e modi di fare comuni. Questi contesti condivisi mettono dei limiti a ciò che può essere considerato un valore accettabile e gli danno un senso. Questa idea che esistano valori condivisi, anche se non oggettivi in assoluto, è vista come importante per mantenere stabile una società democratica.L’analisi empirica del diritto
L’approccio di Ross, basato sui fatti concreti, si vede anche nel modo in cui analizza i concetti usati nel diritto. Per lui, concetti come “proprietà” o “contratto” non descrivono realtà metafisiche, ma sono semplicemente strumenti logici che aiutano a organizzare le regole e a prevedere le decisioni dei giudici. Allo stesso modo, le affermazioni fatte dagli esperti di diritto (i giuristi) non sono verità assolute sul diritto. Vanno piuttosto interpretate come previsioni su come le norme saranno applicate nella pratica. Studiare il diritto significa quindi prevedere il comportamento futuro dei tribunali. Questo modo di vedere il diritto si concentra su ciò che accade realmente, piuttosto che su idee astratte o morali.Ma se il diritto è solo un fatto, una previsione del comportamento dei giudici, e i valori sono meri sentimenti (per quanto condivisi), su quale base possiamo criticare un sistema giuridico ingiusto o l’operato di giudici che applicano leggi aberranti?
Questo capitolo presenta una visione del diritto e dei valori che, seppur chiara nella sua impostazione empirica, lascia aperte questioni fondamentali sulla giustizia e sulla possibilità di critica normativa. Se la “vigenza” è solo probabilità di applicazione e la “validità” un sentimento psicologico, e se i valori non hanno un fondamento oggettivo, diventa problematico spiegare perché un certo sistema legale sia preferibile a un altro su basi che vadano oltre la mera efficacia o il consenso emotivo. Per esplorare queste difficoltà e cercare risposte, è utile confrontarsi con altre teorie del diritto che offrono diverse concezioni della validità e della giustizia, come quelle proposte da Kelsen, Hart, o autori legati al giusnaturalismo o a teorie etiche non emotiviste.2. Il fondamento illusorio del valore e del dovere
Quando si parla di etica, le distinzioni classiche, come quelle tra un’etica basata su principi innati o sull’esperienza, o tra un’etica che guarda alla forma o al contenuto, non aiutano a capire le differenze più profonde. Questo perché queste classificazioni si concentrano su come conosciamo o vediamo l’etica dall’interno, non sulle idee fondamentali che stanno alla base del concetto stesso di morale. I diversi modi di pensare all’etica, infatti, non partono dalle stesse idee di cosa sia giusto o sbagliato.Una Classificazione Più Chiara: Valore e Dovere
Un modo più utile per distinguere i sistemi etici è guardarli in base alle categorie principali che usano: il bene (che riguarda il valore) o il dovere. Le teorie che si basano sul valore si dividono a loro volta in quelle che considerano il valore qualcosa di oggettivo e quelle che lo considerano soggettivo. Le teorie oggettive sostengono che il valore sia una qualità reale che esiste nell’oggetto stesso. Secondo questa visione, percepiamo il valore attraverso il sentimento, che funzionerebbe come una sorta di organo di conoscenza, simile all’intelletto ma dedicato ai valori.Le Difficoltà delle Teorie del Valore Oggettivo
Questa idea, però, non regge. Il sentimento è personale, cambia da persona a persona e non ha una posizione nello spazio o nel tempo. Non può “afferrare” un oggetto nello stesso modo in cui lo fa l’intelletto, che unisce le qualità di un oggetto in un’unica realtà che esiste in un certo luogo e in un certo momento. Attribuire una qualità come il valore, che non ha dimensioni spazio-temporali, a un oggetto del mondo naturale è semplicemente impossibile. Questo crea una separazione senza legame tra il mondo che vediamo e tocchiamo e un mondo dei valori, rendendo l’idea priva di qualsiasi utilità pratica.Le Difficoltà delle Teorie del Valore Soggettivo
Passando alle teorie soggettive, queste vedono il valore come una relazione tra l’oggetto e uno stato interiore della persona, come il piacere o il desiderio. Dire che qualcosa ha valore significherebbe, in questa ottica, provare piacere per quella cosa o desiderarla. Tuttavia, anche queste teorie faticano a spiegare bene il legame tra lo stato d’animo soggettivo e l’oggetto esterno. L’idea di “desiderio per” o “piacere in” non è qualcosa che proviamo direttamente nella nostra coscienza. È piuttosto una “finta consapevolezza” che creiamo proiettando dentro di noi la conoscenza che abbiamo del comportamento esterno, cioè di come un oggetto ci spinge ad agire o a concludere un’azione.Perché Ci Sembra Che il Valore Sia Oggettivo?
L’illusione che il valore esista in modo oggettivo, indipendente da noi, non nasce dal semplice interesse personale, che è noto per essere variabile e legato al singolo. Si pensa piuttosto che la sensazione di valore si basi su impulsi che non dipendono dall’interesse, simili a quelli che ci fanno sentire il dovere. Questi impulsi sono stabili e radicati in noi grazie all’abitudine e all’influenza della società. Poiché sembrano diversi dai nostri desideri naturali e mutevoli, li interpretiamo come qualcosa di esterno e oggettivo, proiettando sull’oggetto una forza di attrazione che sembra esistere indipendentemente dal fatto che lo desideriamo davvero in quel momento.Dovere e Valore: Due Modi di Vedere gli Impulsi
La differenza fondamentale tra il dovere e il valore sta proprio in come interpretiamo questi impulsi che sembrano non legati all’interesse. Quando li interpretiamo come una costrizione o un comando che viene da fuori o da dentro di noi, li chiamiamo dovere. Quando invece li vediamo come un invito o un richiamo a seguire ciò che la nostra “vera” volontà desidererebbe, specialmente nei momenti di calma e riflessione, li chiamiamo valore. Entrambi nascono da impulsi simili, ma la nostra mente li percepisce e li definisce in modi diversi, dando origine a due concetti etici distinti.La Contraddizione nel Concetto di Bene
Il concetto stesso di bene, che è la base dell’etica del valore, contiene una contraddizione. Lo pensiamo sia come una relazione (cioè qualcosa che è desiderato) sia come una proprietà oggettiva dell’oggetto (cioè qualcosa che merita di essere desiderato, indipendentemente dal fatto che qualcuno lo desideri davvero). Questa contraddizione riflette la natura complessa e a volte confusa del nostro pensiero su come dovremmo agire. Porta a supporre l’esistenza di una volontà “vera” o ideale che per sua natura desidera sempre il bene, un’idea che spesso richiede spiegazioni che vanno oltre la realtà concreta.Lo Scopo dell’Etica del Valore
L’obiettivo principale di un’etica basata sul valore è realizzare il bene nel mondo. Questo tipo di etica valuta le azioni in base ai risultati che producono, cioè quanto contribuiscono a creare il bene. L’imperativo morale, cioè la regola che ci dice cosa dovremmo fare, viene visto non come un comando rigido, ma come un invito o una spinta che coincide con ciò che la nostra volontà, nella sua essenza più profonda, tenderebbe naturalmente a fare se fosse libera e consapevole.Se il valore è un’illusione basata su “finta consapevolezza” e impulsi mal interpretati, su cosa si fonda realmente la motivazione morale, e non si reintroduce forse un concetto problematico con l’idea di una “vera volontà”?
Il capitolo avanza affermazioni decise sulla natura della consapevolezza soggettiva e sull’origine illusoria del valore, definendo il “desiderio per” come una “finta consapevolezza”. Questa posizione richiede un fondamento più solido, attingendo forse alla filosofia della mente o a specifiche teorie psicologiche della motivazione, che il capitolo non esplicita. Inoltre, l’implicazione di una “vera volontà” per risolvere la contraddizione nel concetto di bene solleva interrogativi sulla sua natura e sul rischio di reintrodurre un elemento metafisico o non verificabile, simile a quelli criticati per il valore oggettivo. Per approfondire questi temi, può essere utile esplorare la filosofia di autori che hanno analizzato a fondo la volontà e la critica della morale, come Nietzsche, o studiarsi le moderne discussioni in meta-etica sul realismo e l’anti-realismo dei valori.3. La natura sfuggente dello psichico e del bene
L’idea centrale del soggettivismo, che tutto ciò che esiste ci è dato come oggetto pensato o percepito da un soggetto, nasconde una difficoltà. Non si può dire che ogni cosa esista solo in questo modo, perché il soggetto che pensa o percepisce e il rapporto tra soggetto e oggetto devono esistere prima che l’oggetto possa essere percepito dal soggetto. Questa posizione confonde due modi di intendere ciò che chiamiamo “psichico”: uno formale, che è semplicemente la forma generale in cui qualcosa ci appare, e uno materiale, che è un contenuto specifico, come un sentimento, che viviamo direttamente senza vederlo come un oggetto esterno.Questa confusione porta a conclusioni opposte e problematiche. Se lo psichico non può essere visto come un oggetto ma solo sentito interiormente, allora diventa qualcosa che non possiamo conoscere o di cui non possiamo parlare o pensare, una specie di “cosa in sé” inaccessibile. D’altra parte, si potrebbe pensare esattamente il contrario: che lo psichico, essendo vissuto in modo immediato, sia l’unica realtà certa e indiscutibile che possediamo. Entrambe queste visioni contrastanti nascono dal punto di partenza soggettivistico. Cercare di descrivere la soggettività del percepire come una sensazione fisica che accompagna la percezione non risolve il problema; aggiunge semplicemente un altro contenuto da considerare.Il bene nel campo dell’etica
Passando all’etica, l’utilitarismo, come quello proposto da Bentham, si basa sull’idea di cercare la massima felicità per il maggior numero di persone. Questo principio è visto come un criterio pratico e basato sull’esperienza, legato ai concetti di piacere e dolore. Questa visione si scontra con le teorie che credono in un senso morale innato che ci dice subito cosa è giusto o sbagliato. Tuttavia, l’idea che il piacere sia buono di per sé non viene dall’esperienza, ma sembra richiedere una sorta di intuizione iniziale.Mill cerca di definire cosa è buono basandosi su ciò che le persone desiderano realmente, quasi riducendo l’etica a una descrizione di come le persone si comportano. Sidgwick, invece, capisce che dire “desiderabile” implica ciò che dovrebbe essere desiderato, riconoscendo così che il concetto di bene contiene un aspetto legato a ciò che si deve fare. Per Sidgwick, il bene non si può definire completamente, ma ha una relazione con il desiderio che mostra il suo carattere oggettivo, qualcosa che esiste al di là del singolo desiderio. Moore spinge questa idea al limite, sostenendo che il bene è una qualità oggettiva, semplice e impossibile da definire, completamente separata da ciò che gli esseri umani desiderano o a cui aspirano. Questo approccio rende la conoscenza di ciò che è eticamente giusto poco utile per guidare le nostre azioni. Il concetto di bene, proprio come quello di psichico nel soggettivismo, contiene elementi che sembrano contraddirsi, rendendo difficile trovare una definizione chiara e coerente.Se il fondamento etico non è più l’individuo, come si evita che “Stato” o “Nazione” diventino semplici idoli arbitrari, capaci di giustificare qualsiasi cosa?
Il capitolo evidenzia come la ricerca del giusto si sposti dall’individuo a entità collettive come lo Stato e la Nazione, specialmente nelle correnti legate a Hegel e Binder. Tuttavia, questa mossa solleva un interrogativo cruciale: se il valore etico risiede primariamente in queste strutture, come si pongono limiti alla loro autorità e si impedisce che i loro interessi (o quelli di chi le controlla) vengano confusi con il “giusto” assoluto? La critica implicita nel testo riguardo all’arbitrarietà di limitare il valore alla nazione suggerisce una lacuna argomentativa significativa. Per approfondire questa tensione tra etica individuale e collettiva, e per comprendere i rischi di un “transpersonalismo” non criticato, è utile esplorare la filosofia politica e l’etica. Si possono leggere autori che hanno criticato l’assolutizzazione dello Stato, come alcuni pensatori liberali o anarchici, o chi ha cercato di rifondare l’etica su basi diverse dalla mera appartenenza nazionale. Approfondire il dibattito post-hegeliano può fornire ulteriori strumenti critici.8. L’Illusione Morale e la Scienza del Comportamento Disinteressato
La nostra idea di ciò che è giusto o sbagliato, di valore e dovere, non è una conoscenza oggettiva, valida per tutti allo stesso modo. È piuttosto un’esperienza che sentiamo dentro di noi, un impulso o una tensione che non segue la logica. A questa sensazione interiore uniamo l’idea di un’azione o di un oggetto specifico. Pensiamo che questa esperienza sia qualcosa di reale e oggettivo nel mondo esterno, ma in realtà la stiamo solo proiettando noi. Questa convinzione che la morale sia qualcosa di oggettivo è un’illusione.L’illusione dell’oggettività morale
Le parole che usiamo, come ‘dovere’ o ‘valore’, e le frasi che costruiamo con esse, non hanno un significato oggettivo nel mondo reale. Tuttavia, queste parole descrivono un’esperienza che proviamo dentro la nostra mente. Le affermazioni sulla morale sembrano avere un senso logico e razionale, ma sono solo un modo per dare una forma razionale a esperienze che, in realtà, sono irrazionali. Questa illusione che la morale sia qualcosa di oggettivo è un processo psicologico molto forte e diffuso. Ci porta a credere che esistano valori e doveri universali, indipendentemente da chi li pensa o li sente.Le teorie morali tradizionali
Le filosofie sulla morale che esistono da tempo, come quelle che parlano di etica del valore o etica del dovere, cercano di spiegare l’esperienza morale usando la ragione. Queste teorie partono dal presupposto che esista una volontà o un desiderio che va oltre il mondo che possiamo vedere e toccare. Questo porta a idee confuse e a contraddizioni, perché queste teorie dicono che ciò che è metafisico (al di là del mondo fisico) è allo stesso tempo uguale e diverso da ciò che è empirico (ciò che possiamo osservare). L’etica del valore vede la morale legata all’idea di interesse, mentre l’etica del dovere la mette in contrasto con i nostri desideri naturali. Queste due visioni rappresentano i modi principali in cui si è pensato alla morale in passato.Verso una scienza del comportamento morale
La morale come la conosciamo e le vecchie teorie etiche non si basano su una vera conoscenza oggettiva. L’idea di cercare ciò che è ‘praticamente valido’ è un’illusione. Al posto di queste vecchie idee, dovrebbe esserci una scienza che studia i fenomeni morali, chiamata etologia. Questa scienza guarda agli impulsi e ai modi in cui si esprime la morale non come a qualcosa che sentiamo solo dentro di noi, ma come a fenomeni concreti che possiamo osservare. Li considera come veri e propri comportamenti che le persone mettono in atto.Studiare il comportamento disinteressato
Definire esattamente cosa sia il ‘fenomeno morale’ è difficile, perché ‘il morale’ inteso come qualcosa di oggettivo non esiste. Le ‘idee sul morale’ non possono essere studiate come oggetti se il morale stesso non è un oggetto reale. Il vero campo di studio per una scienza della morale si scopre osservando cosa si nasconde dietro le spiegazioni razionali che diamo alla morale. I fenomeni che questa scienza studia sono i comportamenti che le persone fanno senza pensare al proprio tornaconto immediato, comportamenti che vengono insegnati con l’educazione e diventano abitudini. Questi comportamenti sono simili ad altre abitudini che non portano un vantaggio diretto (come seguire le regole grammaticali), ma si distinguono perché spesso possono andare contro il nostro interesse personale.Come funziona la scienza della morale
Il compito di questa scienza della morale è raccogliere le diverse forme in cui la morale si manifesta e descrivere quali sono gli impulsi reali che le spingono. Deve anche capire in quali situazioni e condizioni questi comportamenti si verificano. Questa conoscenza si ottiene osservando e facendo esperimenti, arrivando a conclusioni generali partendo dalle singole reazioni concrete, senza credere alle regole morali che già esistono. Le regole morali comuni sono solo un’immagine idealizzata di come le persone si comportano realmente. La scienza deve capire questo comportamento reale e trovare le leggi generali che lo regolano. In questo modo, si distingue da una semplice raccolta di regole morali (che non è una vera scienza) e si articola in una parte che descrive le manifestazioni morali, una che studia gli impulsi reali e una che cerca le leggi generali che spiegano tutto questo.Se la morale oggettiva è un’illusione, come può una “scienza del comportamento morale” studiare un fenomeno che, per definizione del capitolo, non esiste come oggetto reale?
Il capitolo presenta una tesi radicale sulla natura illusoria dell’oggettività morale, riducendola a una proiezione di impulsi interni irrazionali. Tuttavia, la proposta di fondare una “scienza del comportamento morale” basata sull’osservazione di “fenomeni morali” o “comportamenti disinteressati” crea una potenziale contraddizione logica: come si può studiare scientificamente qualcosa che, nella sua accezione tradizionale di “morale”, viene definito inesistente come oggetto reale? Per affrontare questa apparente lacuna, è fondamentale esplorare le diverse posizioni nella metaetica filosofica riguardo la natura dei valori e dei giudizi morali (realismo vs anti-realismo) e confrontarsi con le metodologie delle scienze che studiano il comportamento umano da una prospettiva empirica, come la psicologia morale, la sociologia e l’etologia umana. Autori come David Hume, Immanuel Kant (per comprendere le basi delle teorie tradizionali criticate) e figure contemporanee che indagano le radici biologiche e psicologiche del comportamento sociale possono offrire spunti cruciali per definire l’oggetto di una tale scienza.Abbiamo riassunto il possibile
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