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Contenuti del libro
Informazioni
RISPOSTA: “Bruttezza” di Moshtari Hilal è un viaggio potente e necessario nel modo in cui la società costruisce e impone ideali di bellezza, specialmente attraverso lo sguardo occidentale, e come questo influenzi profondamente la nostra percezione di noi stessi e degli altri. Il libro esplora come fin da bambine veniamo bombardate da immagini che ci spingono a desiderare un corpo “perfetto”, un ideale spesso irraggiungibile che trasforma il nostro corpo in un campo di battaglia contro peli indesiderati e imperfezioni percepite, tutto per paura del giudizio altrui e per inseguire un’accettazione sociale che si rivela illusoria, come dimostra il caso di Anna Sorokin. L’autrice ci porta a riflettere su come la chirurgia estetica, nata per necessità mediche, sia diventata uno strumento per il “passing”, per conformarsi a standard razziali e sociali che legano tratti somatici come il naso a stereotipi negativi, un’eredità di studi pseudo-scientifici come quelli di Lombroso. Hilal analizza anche la patologizzazione della peluria femminile, vista come un’anomalia evolutiva legata a una sessualità “sana” e alla razza, e come questa norma venga esportata globalmente, legando la depilazione alla “civilizzazione”. Il libro non si ferma qui, ma affronta anche la paura della bruttezza legata alla malattia, all’invecchiamento e alla morte, mostrando come la società cerchi di nascondere questi aspetti, mentre l’arte, come quella di Teresa Margolles, ci spinge a confrontarci con la realtà del decadimento. Infine, “Bruttezza” propone di superare la politica della desiderabilità, abbracciando una politica del “brutto” e della magnificenza, riconoscendo il valore intrinseco di ogni corpo e promuovendo una riconciliazione che accetti la complessità dell’esistenza, andando oltre la contrapposizione tra bello e brutto per abbracciare entrambe le qualità.Riassunto Breve
La percezione della bruttezza nasce spesso da un giudizio esterno, come un commento su una fotografia, che rivela tratti fisici percepiti come difetti rispetto a un ideale. Questo ideale, costruito fin da bambini su modelli mediatici, è un corpo desiderato, una “pelle estranea” che promette successo e ammirazione, trasformando il corpo reale in un campo di battaglia contro le “zone nemiche” come la peluria indesiderata. La lotta per conformarsi, anche attraverso l’imitazione di modelli esterni, genera alienazione e la paura di essere scoperti come diversi. L’alienazione è un processo per cui le norme dominanti, associate alla bellezza e al “bianco”, vengono interiorizzate, portando all’odio verso il proprio corpo, associato alla bruttezza e al “nero”. La bruttezza non è solo fisica, ma un costrutto sociale legato all’odio e all’auto-odio, e la ricerca della bellezza diventa la ricerca di un’esperienza completa negata a chi è considerato brutto, perpetuando un sistema di giudizio basato sull’aspetto. La chirurgia estetica, nata per necessità mediche, si evolve per correggere tratti fisici percepiti come indesiderabili per ragioni sociali, come nel caso della rinoplastica per non sembrare ebrei in contesti antisemiti. Pratiche pseudo-scientifiche come la fisiognomica legano i tratti del viso al carattere o all’origine, creando standard di “normalità” e “bellezza” basati su ideali razziali, usati per discriminare. La chirurgia estetica diventa uno strumento per il “passing”, per conformarsi agli standard dominanti e ottenere accettazione sociale, spinta dall’idea che felicità e partecipazione dipendano dall’aspetto. Oggi, media e tecnologie digitali promuovono ideali irrealistici, normalizzando chirurgia e pratiche di bellezza come obblighi per raggiungere un “Sé immaginario” o la “normalità”, creando una gerarchia basata sull’aspetto dove la bruttezza è vista come fallimento personale. Dopo Darwin, l’assenza di peli sul corpo umano diventa centrale, portando alla patologizzazione della peluria eccessiva nelle donne, considerata innaturale o segno di anomalia evolutiva e legata a presunta ferinità o malattie dello spirito, spesso con distinzioni razziste. La curiosità per le deviazioni porta all’esposizione di corpi considerati “freak”, rafforzando stigma e voyeurismo. La pressione sociale sulla depilazione femminile cresce, spinta dalla moda e dall’industria della bellezza, diventando un atto quasi obbligatorio legato a igiene, classe e femminilità. Queste norme occidentali vengono esportate, legando la bellezza alla “civilizzazione”. Il corpo peloso, specie femminile, è etichettato e giudicato, diventando sito di controllo esterno e lotta personale. La paura della bruttezza si lega anche alla malattia, all’invecchiamento e alla morte, stati che implicano perdita di controllo sull’aspetto. Questa paura spinge a nascondere i segni del decadimento, con pratiche come la tanatoprassi che rendono i cadaveri esteticamente gradevoli. Al contrario, alcune forme d’arte confrontano direttamente morte e decadimento, rendendo visibile la realtà della morte violenta o povera. Il cadavere provoca rifiuto perché ricorda la mortalità. Si cerca di apparire vivi e sani per resistere ai segni visibili del decadimento. L’estetica classica occidentale definisce la bellezza in opposizione alla bruttezza, creando un sistema gerarchico. La bruttezza non è intrinseca ma un costrutto sociale che disturba l’ordine, diventando strumento di marginalizzazione, una “ingiustizia visiva” che svaluta le persone in base all’aspetto. L’insicurezza provata dalle persone definite brutte è una conseguenza politica della dominazione. Si propone di superare la politica basata sulla desiderabilità per abbracciare una politica del brutto e della magnificenza, che si trova nei corpi che resistono. La bellezza è transitoria ed esclusiva, mentre la bruttezza, attraverso fragilità e dipendenza, può favorire intimità. Riconciliarsi con la bruttezza implica riconoscere umanità e mortalità, accettando la complessità dell’esistenza e superando la contrapposizione tra bello e brutto per accettare di possedere entrambe le qualità.Riassunto Lungo
1. Il Volto Imparato a Odiare
Una fotografia scattata a quattordici anni diventa il punto di partenza per una dura valutazione di sé. Un commento esterno definisce il viso “muso da cavallo”, portando a notare tratti percepiti come difetti: i denti storti, la forma allungata del viso, un naso considerato troppo grande. Questa immagine viene subito rifiutata, vista come una smorfia che rivela una bruttezza che prima non era stata pienamente riconosciuta o accettata. È il momento in cui lo sguardo esterno inizia a definire la percezione di sé.Il Sogno del Corpo Ideale
Fin da bambina, si inizia a costruire nella mente l’immagine di un corpo perfetto, ispirato alle figure viste sulle riviste e in televisione. Si desidera una donna attraente, con gambe lunghe e lisce, un viso senza imperfezioni, una silhouette a clessidra. Questo corpo ideale non è visto come il proprio, ma come una “pelle estranea” da conquistare, un progetto segreto per trasformarsi in una persona diversa, capace di avere successo ed essere ammirata dagli altri.Il Corpo Come Campo di Battaglia
Il corpo reale si trasforma così in un luogo di conflitto interiore, suddiviso in “zone nemiche” da combattere. Si ricorre a metodi spesso aggressivi, come la decolorazione o la rasatura, per eliminare la peluria considerata indesiderata. Questa peluria viene percepita come un segno di bruttezza che mette in discussione la propria femminilità. Questa lotta costante contro il proprio aspetto fisico è alimentata dalla forte paura del giudizio degli altri e dal timore di essere scoperti, di non essere all’altezza dell’immagine desiderata.La Paura di Non Appartenere
Il desiderio di conformarsi a modelli esterni e la paura di non essere accettati possono portare a strategie di imitazione. Un esempio è la storia di Anna Sorokin, che ha finto di essere un’ereditiera. Queste imitazioni possono essere un tentativo di migliorare la propria posizione sociale o semplicemente di sopravvivere in contesti percepiti come ostili. Tuttavia, cercare di essere qualcun altro genera spesso la “sindrome dell’impostore”, una sensazione costante di non essere autentici e la paura di essere scoperti come diversi da coloro che si cerca di imitare. Questo processo porta a sentirsi estranei al proprio corpo e alle proprie origini.La Bruttezza Come Costruzione Sociale
Questa sensazione di estraneità e l’odio verso parti di sé possono essere compresi attraverso il concetto di alienazione, studiato da pensatori come Frantz Fanon. Le norme dominanti nella società, che definiscono cosa sia bello (spesso associato all’idea di “bianco”) e cosa sia brutto (spesso associato all’idea di “nero”, in un senso figurato di diversità o inferiorità), vengono interiorizzate. Questo porta a sviluppare odio verso il proprio corpo quando non corrisponde a questi standard. La bruttezza, quindi, non è solo una caratteristica fisica, ma diventa un costrutto sociale profondamente legato all’odio: l’odio ricevuto, il desiderio di non essere odiati e, infine, l’auto-odio. La ricerca della bellezza si trasforma nella ricerca di una “esperienza completa” che si percepisce negata a chi è considerato brutto, mantenendo un sistema di giudizio e separazione basato unicamente sull’aspetto esteriore.La bruttezza è davvero solo un costrutto sociale, o ci sono anche fattori biologici e psicologici che contribuiscono alla percezione di sé?
Il capitolo, pur offrendo una riflessione approfondita sulla costruzione sociale della bruttezza, sembra trascurare l’importanza dei fattori biologici e psicologici che influenzano la percezione di sé. Ad esempio, non viene considerato il ruolo dell’evoluzione umana nella definizione di ciò che è attraente, né si approfondiscono le dinamiche psicologiche interne che possono portare all’auto-odio. Per una visione più completa, sarebbe utile integrare studi di psicologia evoluzionistica e psicologia clinica, come quelli di David Buss o Carl Rogers, che esplorano sia le basi biologiche dell’attrazione sia i meccanismi psicologici dell’autostima.2. Nasi, Razza e Bellezza Ideale
La chirurgia estetica nasceva per aiutare chi aveva subito danni fisici, come la ricostruzione del viso. Presto, però, ha iniziato a essere usata per cambiare caratteristiche che le persone sentivano sbagliate per motivi sociali. Già nei primi anni del Novecento, chirurghi come Jacques Joseph operavano i nasi per far sì che le persone non sembrassero ebree. Questo avveniva in un periodo in cui l’odio contro gli ebrei cresceva e si credeva che i tratti del viso indicassero l’identità e l’inferiorità di una razza. A questo si univa la fisiognomica, una pratica antica ripresa da studiosi come Lavater, Galton e Lombroso, che cercava di capire il carattere o l’origine di una persona guardando i tratti del viso, specialmente il naso. Questi studi, che non avevano basi scientifiche solide, hanno contribuito a creare l’idea di cosa fosse “normale” o “bello” basandosi su modelli che richiamavano l’ideale europeo o classico. Questi modelli venivano usati per escludere e discriminare gruppi visti come inferiori, come ebrei, irlandesi o persone di colore.Conformarsi per Essere Accettati
La chirurgia estetica è diventata così uno strumento per il “passing”, cioè per permettere alle persone di cambiare il proprio aspetto e assomigliare di più ai modelli dominanti. Lo scopo era ottenere l’accettazione nella società, o almeno far finta di averla. Questo desiderio di “migliorarsi da soli” era alimentato dall’idea che essere felici e partecipare alla vita sociale dipendesse da come si appariva. Il corpo veniva visto come qualcosa da modellare, un progetto da realizzare seguendo gli ideali imposti dall’esterno. In questo modo, l’aspetto fisico diventava fondamentale per potersi sentire parte della comunità e per evitare il giudizio degli altri.Bellezza Digitale e Gerarchie Sociali
Oggi, l’idea di bellezza è molto influenzata dai mezzi di comunicazione e dalla tecnologia digitale. Vengono proposti volti perfetti, simmetrici e senza difetti, spesso così modificati da essere irrealistici. La chirurgia estetica e tutte le pratiche per “migliorarsi” diventano sempre più comuni e vengono quasi viste come un dovere per raggiungere un “Sé immaginario” o semplicemente per sentirsi “normali”. Questo sistema crea una vera e propria classifica basata sull’aspetto: chi è considerato “brutto” è visto come se avesse fallito personalmente. Questa visione serve a mantenere le differenze sociali ed economiche, legando il valore di una persona al suo aspetto esteriore.La chirurgia estetica è davvero solo uno strumento di conformità sociale, o ci sono anche altri fattori che spingono le persone a modificare il proprio aspetto?
Il capitolo sembra ridurre la motivazione alla chirurgia estetica esclusivamente a una pressione sociale verso il conformismo, trascurando altri possibili fattori come il benessere psicologico individuale o la ricerca di una maggiore autostima. Questo approccio rischia di semplificare una questione complessa, ignorando le sfumature personali e culturali che possono influenzare tali decisioni. Per approfondire, sarebbe utile esplorare discipline come la psicologia sociale e la sociologia della bellezza, e consultare autori come Susan Sontag o Naomi Wolf, che hanno analizzato il rapporto tra corpo, identità e cultura.3. Il Corpo Peloso e lo Sguardo della Norma
Dopo le idee di Darwin sull’origine dell’uomo, l’attenzione della scienza e della società si è concentrata molto sulla differenza tra esseri umani e animali. Un punto che ha suscitato particolare interesse è la scarsa presenza di peli sul corpo umano rispetto ad altri mammiferi. Darwin stesso ha suggerito che questa caratteristica potesse dipendere dalla selezione sessuale, ipotizzando che nel tempo fosse stata preferita una pelle meno pelosa, anche se questo poteva comportare degli svantaggi, come una minore protezione dal freddo.La visione medica e sociale della peluria
Questa teoria ha avuto un impatto significativo, portando a considerare la peluria eccessiva come qualcosa di anomalo, soprattutto nelle donne. È nata così la categoria medica dell’ipertricosi. Avere peli visibili, in particolare sul viso, veniva visto come innaturale o come un segno di uno sviluppo non completo dal punto di vista evolutivo. I medici dell’epoca tendevano a collegare la mancanza di peli a una sessualità sana e alla capacità di avere figli nelle donne. La quantità di peli sul corpo è arrivata a essere considerata un indicatore dello “sviluppo” di una persona o di una “razza”, con una forte differenza tra uomo e donna vista come segno di maggiore evoluzione. Al contrario, una crescita abbondante di peli veniva associata a problemi mentali, a comportamenti criminali e a una presunta natura “feroce”, spesso con idee discriminatorie basate sulla razza.L’esposizione delle “anomalie”
La curiosità verso ciò che non rientrava nella norma ha portato all’esposizione pubblica di persone considerate “diverse” o “anomalie”, come nel caso di Julia Pastrana. Queste persone venivano presentate quasi come un collegamento mancante tra l’uomo e la scimmia. Queste mostre, diffuse grazie alle teorie darwiniane e all’interesse del pubblico, hanno rafforzato l’idea di “strano” e hanno permesso alle persone di guardare e giudicare corpi diversi con la scusa di un interesse scientifico, alimentando un forte voyeurismo.La pressione per la depilazione
La pressione sociale a depilarsi, specialmente per le donne, è aumentata nel tempo. Questo fenomeno è stato spinto dai cambiamenti nella moda, che lasciavano scoperte più parti del corpo, ed è stato fortemente promosso dall’industria della bellezza. Aziende come Gillette hanno saputo sfruttare questa tendenza, associando la pelle liscia a concetti come igiene, eleganza e vera femminilità. La depilazione è diventata così un’azione quasi obbligatoria, una profonda trasformazione del corpo femminile imposta dall’esterno.La bellezza come simbolo di “civiltà”
Questi standard di bellezza tipici del mondo occidentale sono stati anche diffusi in altre parti del mondo. Un esempio è la “Beauty School” aperta a Kabul, presentata come un aiuto umanitario ma in realtà legata a interessi politici ed economici. L’idea di bellezza, intesa come assenza di peli e conformità agli standard occidentali, è diventata un simbolo di “civilizzazione” e “modernità” da esportare.Il corpo peloso come luogo di controllo
Il corpo con la sua peluria, soprattutto quello femminile, è stato quindi oggetto di etichette e giudizi costanti. La presenza dei peli è diventata un punto su cui si esercita un controllo esterno e che genera una lotta interiore per chi non si conforma. Questo riflette le pressioni che arrivano dalla famiglia e dalla società, che legano l’aspetto fisico, e in particolare la presenza o l’assenza di peli, a idee di correttezza, onore e conformità alle aspettative sociali.Perché il capitolo non approfondisce il ruolo delle pratiche culturali non occidentali nella gestione della morte e del decadimento?
Il capitolo si concentra principalmente sulla cultura occidentale e sulle sue reazioni alla morte e al decadimento, tralasciando completamente le pratiche e le filosofie di altre culture. Questo approccio rischia di offrire una visione parziale e limitata del tema. Per colmare questa lacuna, sarebbe utile esplorare discipline come l’antropologia culturale e la storia delle religioni, e approfondire autori come Philippe Ariès e Geoffrey Gorer, che hanno studiato il rapporto con la morte in diverse società.5. Oltre la Bellezza: La Politica della Bruttezza e la Riconciliazione
Il pensiero occidentale classico definisce la bellezza in contrasto con la bruttezza, creando un sistema di valori basato su questa opposizione. Alcuni studiosi vedono questo modo di organizzare le esperienze sensoriali, come descritto da filosofi come Kant, come uno strumento usato per imporre regole e svalutare altre percezioni del mondo. L’esteSica, invece, si riferisce all’esperienza sensoriale che tutti condividiamo, non legata a dottrine o canoni specifici. La bruttezza non è una qualità naturale, ma un’idea costruita dalla società. Nasce dal confronto e rappresenta ciò che mette in discussione l’identità, l’ordine e i confini stabiliti dalla comunità.Le conseguenze sociali e politiche
La reazione di rifiuto che proviamo verso ciò che è definito brutto non è innata, ma un sentimento collettivo. La bruttezza diventa così uno strumento di esclusione, una vera e propria “ingiustizia visiva” che svaluta le persone in base al loro aspetto esteriore o perché considerate improduttive o diverse dalla norma. Questa esclusione non riguarda solo l’aspetto fisico, ma si estende a chiunque non rientri nei canoni accettati dalla società. Esempi storici come le “leggi sulla bruttezza” dimostrano come questa idea sia stata usata per separare ed escludere individui dagli spazi pubblici. L’insicurezza che sentono le persone definite brutte non è un loro difetto personale, ma una conseguenza politica diretta del dominio e del rifiuto sociale.Oltre l’estetica: la politica del brutto e la riconciliazione
Si propone di superare una politica basata sul desiderio e sulla bellezza per abbracciare invece una “politica del brutto” e della magnificenza. La magnificenza si manifesta nei corpi che resistono e vivono pienamente nonostante le sfide, come i corpi delle persone disabili. A differenza della bellezza, spesso vista come passeggera ed escludente, la bruttezza, con la sua fragilità e la necessità di dipendenza reciproca, può favorire legami più profondi basati sull’intimità e sulla fiducia. Riconciliarsi con la bruttezza significa riconoscere la nostra piena umanità e la nostra mortalità, accettando la complessità della vita. Questa riconciliazione va oltre l’aspetto esteriore e dà valore all’essere in sé, senza che debba conformarsi a standard esterni. Superare la contrapposizione tra bello e brutto permette di accettare che una persona possa avere, allo stesso tempo, qualità percepite come belle e come brutte.La “politica del brutto” è davvero un’alternativa praticabile o solo un’utopia filosofica?
Il capitolo propone una visione interessante della bruttezza come strumento di riconciliazione e inclusione, ma non affronta in modo sufficiente le obiezioni pratiche e culturali che potrebbero sorgere. Ad esempio, non considera come le strutture sociali e i pregiudizi profondamente radicati possano ostacolare una tale trasformazione. Inoltre, manca un’analisi dettagliata di come questa “politica del brutto” possa essere implementata concretamente senza creare nuove forme di esclusione. Per approfondire queste tematiche, sarebbe utile esplorare le opere di autori come Judith Butler, che hanno analizzato la performatività delle norme sociali, e di Martha Nussbaum, che ha scritto ampiamente sulle emozioni e sulla giustizia sociale. Questi contributi potrebbero fornire un contesto più solido per valutare la fattibilità di una tale proposta.Abbiamo riassunto il possibile
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