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Contenuti del libro
Informazioni
Afghanistan, ultima trincea. La sfida che non possiamo perdere” di Gian Biloslavo ci porta nel cuore pulsante di un conflitto che ha segnato profondamente il ventunesimo secolo, concentrandosi in particolare sulla provincia di Helmand, un vero e proprio crogiolo di sfide dove la lotta contro i talebani si intreccia indissolubilmente con il traffico di oppio e le complessità sociali. Il libro esplora le tattiche militari, dalle pattuglie a piedi all’uso di tecnologie come i droni Predator, e le difficoltà incontrate dalle forze internazionali, dai britannici ai Marines statunitensi, nel tentativo di stabilizzare un territorio ostile e guadagnare la fiducia di una popolazione divisa. Vengono analizzate le dinamiche interne afghane, con le rivalità storiche tra figure come Gulbuddin Hekmatyar e Ahmad Shah Massoud, e il ruolo ambiguo di potenze esterne come l’Iran. Un focus importante è posto sulla creazione di un esercito nazionale afghano (ANA) e sulle sfide legate al suo addestramento e alla sua efficacia, mentre emerge con forza il “doppio gioco” del Pakistan e la sua influenza sulla regione. Biloslavo ci immerge in un racconto vivido delle difficoltà logistiche, del caldo soffocante, della polvere e della costante minaccia delle trappole esplosive (IED), ma anche della resilienza dei soldati e della complessità di una guerra che va ben oltre il semplice combattimento, toccando le corde più profonde della società afghana.Riassunto Breve
Le forze internazionali arrivano in Afghanistan dopo il 2001 e trovano province come Helmand difficili da controllare, con i talebani e il traffico di oppio molto forti per via della poca presenza del governo afghano e delle forze straniere. La rinascita dei talebani è guidata da capi brutali. Le forze NATO, come i soldati britannici e poi i Marines americani, fanno fatica a controllare le zone fuori dalle loro basi. La missione, che vuole controllare il territorio e aiutare la popolazione, si scontra con una guerra di guerriglia. Ci sono problemi con il governo afghano, per esempio sulla rimozione di governatori legati al traffico di droga, e questo blocca la ricostruzione. I progetti di aiuto non funzionano perché non c’è sicurezza. Le condizioni per i soldati sono estreme, con caldo, polvere e problemi di rifornimento. È difficile farsi fidare dalla popolazione locale, anche dando soldi per i danni, perché il processo non è chiaro e la gente ha paura dei talebani. Molti scappano e l’economia basata sull’oppio continua. La situazione rimane complicata, con zone controllate da diversi gruppi. La guerra si combatte anche cercando di capire la gente. I civili sono in mezzo tra i talebani che li minacciano se collaborano con gli stranieri e le forze internazionali. I talebani si nascondono tra la gente e usano la paura. Per questo, le forze militari cambiano tattica: non usano più solo grandi basi e mezzi blindati, ma fanno più pattuglie a piedi, creano piccoli posti di controllo e cercano il contatto con i villaggi. Usano anche esperti per studiare la società locale, i legami tra le famiglie e le ragioni che spingono alcuni a sostenere i talebani, come le vedove che incoraggiano i figli a unirsi a loro per avere sostegno. Le trappole esplosive (IED) sono un pericolo costante sulle strade. Avere buoni rapporti con la gente aiuta a sapere dove sono. Disinnescare gli IED è un lavoro molto rischioso fatto da squadre speciali. L’Italia gestisce una zona importante a Farah per bloccare i talebani che arrivano da altre province o dal Pakistan. Qui operano forze speciali italiane che, con poche risorse, vengono usate anche per compiti normali come controllare il territorio. La zona è difficile per il terreno e la polizia locale non è sempre affidabile. C’è il sospetto che l’Iran dia armi ai talebani, forse anche attraverso il traffico di droga che passa per Farah. In altre province come Badghis, il territorio è aspro e la gente ha legami con i talebani. Questa zona è importante per i talebani per nascondersi e gestire i traffici illegali. Gli attacchi sono frequenti e servono elicotteri d’attacco e droni per vedere i movimenti nemici e proteggere le truppe. Una strategia chiave è creare un esercito afghano (ANA) forte che possa prendere il controllo del paese. Ma è un compito difficile perché non c’è una struttura militare solida, ci sono divisioni tra i diversi gruppi etnici, e molti soldati lasciano l’esercito. Nonostante questo, i soldati afghani sono considerati coraggiosi e vengono addestrati da squadre internazionali. La storia afghana mostra che i conflitti si ripetono, con eventi recenti che ricordano scontri del passato. Per molti afghani, è una guerra continua dove cambiano solo gli stranieri. Vecchie rivalità tra capi come Hekmatyar e Massoud, che hanno ricevuto aiuti esterni, hanno segnato la storia del paese e influenzano ancora oggi. L’Afghanistan è diventato anche un rifugio per gruppi estremisti come Al-Qaeda. Un fattore complicato è il Pakistan. Dopo l’11 settembre, il Pakistan collabora ufficialmente con gli Stati Uniti, ma i suoi servizi segreti (Isi) continuano ad aiutare i talebani e Al-Qaeda di nascosto. Questo rende il Pakistan stesso instabile. Le prove di questo doppio gioco spingono gli Stati Uniti a cambiare strategia e a colpire i militanti anche in Pakistan con droni e forze speciali. Il nuovo governo pakistano capisce il pericolo dei fondamentalisti e accetta di collaborare di più, anche se con difficoltà interne. In Afghanistan, il governo del presidente Karzai è corrotto e le morti di civili causate dalle operazioni internazionali creano tensione. Karzai critica gli alleati e chiede di negoziare con i talebani. La nuova strategia americana e NATO punta a indebolire i talebani con la forza, riconquistare il sostegno della popolazione e poi, forse, avviare un dialogo con i gruppi meno estremisti. Si cerca di unire l’azione militare con gli aiuti e coinvolgere di più la gente del posto. Resta difficile coordinare tutte le forze internazionali e convincere gli alleati a partecipare a operazioni rischiose.Riassunto Lungo
1. Helmand: La Sfida Oltre il Combattimento
Nel sud dell’Afghanistan, la provincia di Helmand divenne rapidamente un fulcro per i talebani e per il redditizio traffico di oppio negli anni successivi al 2001. Questa situazione fu favorita dalla scarsa presenza sia delle forze internazionali che del governo afghano nell’area. I talebani riuscirono a riorganizzarsi e a guadagnare terreno, spesso sotto la guida di comandanti noti per la loro ferocia, come Mullah Dadullah. La mancanza di controllo effettivo permise all’insurrezione di radicarsi profondamente nel territorio, creando un ambiente estremamente complesso e pericoloso.L’arrivo delle forze NATO e le prime difficoltà
Le forze NATO, in particolare i soldati britannici schierati a partire dal 2006, si trovarono di fronte a un territorio estremamente ostile. Scoprirono presto che era difficile estendere il loro controllo oltre le immediate vicinanze delle loro basi. La missione, che prevedeva sia il controllo del territorio che il sostegno alla popolazione civile, si scontrò con la dura realtà di una guerra di guerriglia implacabile. Le divergenze con il governo afghano, in particolare riguardo alla rimozione del governatore Sher Mohammad Akhunzada, che era legato al presidente Karzai e coinvolto nel traffico di droga, crearono una profonda frattura. Questa mancanza di sintonia politica ostacolò gravemente gli sforzi di ricostruzione e l’assistenza alla popolazione locale, portando al fallimento di molti progetti di sviluppo a causa della mancanza di sicurezza e di un coordinamento efficace.L’offensiva dei Marines statunitensi
Nel 2008, un contingente di Marines statunitensi fu schierato a Helmand per intensificare gli sforzi. Essi lanciarono subito un’importante offensiva nella zona di Garmshir, un’area strategica. Qui ingaggiarono combattimenti estremamente intensi contro le forze talebane. Le battaglie furono dure, spesso per conquistare posizioni fortificate difese con tenacia. Nonostante la resistenza, i Marines riuscirono a spingere indietro i talebani da diverse aree chiave, infliggendo loro perdite significative e guadagnando terreno in un territorio difficile.Le dure condizioni e la sfida di conquistare la fiducia locale
Le condizioni operative per i soldati sul terreno erano estreme, caratterizzate da caldo torrido, polvere incessante e notevoli difficoltà logistiche per il supporto. Parallelamente agli sforzi militari, ci fu il tentativo di guadagnare la fiducia della popolazione locale, anche attraverso risarcimenti per i danni causati dai combattimenti. Tuttavia, questo approccio incontrò notevoli resistenze e scetticismo. Il processo di compensazione era spesso percepito come poco trasparente, e la paura del ritorno dei talebani o di rappresaglie limitava fortemente la volontà di collaborare con le forze internazionali. Molti abitanti rimasero sfollati, incapaci di tornare alle proprie case. Nel frattempo, l’economia basata sulla coltivazione e sul traffico di oppio continuava a prosperare, alimentando ulteriormente l’instabilità. La situazione nella provincia rimase quindi estremamente complessa, con aree sotto il controllo delle forze internazionali, zone saldamente in mano ai talebani e vaste “zone grigie” dove l’influenza era contesa o dominata da signori della guerra e trafficanti.Come potevano le forze internazionali sperare di stabilizzare Helmand senza affrontare l’intricata rete di potere locale, corruzione e traffico di oppio che il capitolo accenna ma non sviscera?
Il capitolo descrive le difficoltà incontrate dalle forze internazionali nel controllo del territorio e nel guadagnare la fiducia locale, accennando al ruolo del traffico di oppio e alle divergenze con il governo afghano legate alla corruzione. Tuttavia, non approfondisce sufficientemente come questi elementi si intrecciassero in una complessa rete di potere locale che includeva signori della guerra, funzionari corrotti e i talebani stessi, tutti spesso beneficiari dell’economia illecita. Comprendere questa dinamica è cruciale per capire perché gli sforzi di stabilizzazione e ricostruzione abbiano fallito. Per approfondire, sarebbe utile studiare la letteratura sulla political economy dei conflitti, l’antropologia politica dell’Afghanistan e le dinamiche delle economie illecite. Autori come A. Giustozzi o T. Barfield offrono prospettive preziose su questi temi.2. Tattiche e sfide nel terreno umano afghano
In Afghanistan, affrontare il conflitto significa anche comprendere la popolazione locale. I civili si trovano stretti tra i talebani, che intimidiscono chiunque collabori con le forze straniere, e le forze della coalizione. I talebani si nascondono tra la gente e usano la paura per mantenere il controllo sul territorio. Per questo, programmi come l’Human Terrain utilizzano esperti di scienze sociali per studiare la società locale, i legami tribali e le motivazioni profonde delle persone. Questo studio approfondito aiuta a capire come interagire al meglio con i civili e a identificare le ragioni che spingono alcuni a sostenere l’insurrezione, come nel caso delle vedove che incoraggiano i figli a unirsi ai talebani per ottenere supporto economico e sociale. Nonostante le critiche etiche sollevate, questo approccio si dimostra concretamente utile per ridurre la violenza sul campo e limitare le perdite.Nuove tattiche sul campo
Per contrastare questa situazione complessa, le forze militari hanno adottato nuove tattiche operative, basate sull’esperienza maturata in Iraq. L’obiettivo è ridurre la distanza tra soldati e civili, guadagnando fiducia e informazioni. Per questo, si è scelto di abbandonare le grandi basi isolate e l’uso massiccio di mezzi blindati. Si privilegiano invece pattuglie a piedi, l’istituzione di piccoli avamposti e un contatto umano più stretto e costante con i villaggi. Questa strategia si ispira direttamente alle teorie del generale David Galula ed è stata applicata con decisione dal generale David Petraeus, il quale ha sempre sottolineato come muoversi attivamente tra la popolazione locale sia molto più efficace e decisamente meno pericoloso rispetto ai tradizionali convogli blindati.La minaccia delle trappole esplosive
Una minaccia costante e letale sul terreno sono le trappole esplosive, note come IED (Improvised Explosive Devices), piazzate dai talebani lungo le strade e i sentieri. La loro presenza rende ogni spostamento pericoloso e limita la libertà di movimento sia per le truppe che per i civili. Stabilire buoni rapporti con la popolazione locale diventa fondamentale, poiché spesso sono i civili a fornire informazioni preziose per individuarle ed evitarle. Il disinnesco di questi ordigni è un compito estremamente rischioso, affidato a squadre specializzate. Queste unità affrontano dispositivi spesso artigianali, realizzati con materiali semplici e di recupero, ma non per questo meno letali.Il ruolo dell’Italia nella provincia di Farah
Nella provincia occidentale di Farah, le forze italiane gestiscono un settore considerato strategico. L’obiettivo principale è bloccare le infiltrazioni dei talebani che provengono dalle aree confinanti dell’Helmand e dal vicino Pakistan. Qui opera in particolare la Task Force 45, un’unità composta da forze speciali italiane. Tuttavia, a causa delle limitate risorse disponibili e delle specifiche regole d’ingaggio, queste unità d’élite vengono impiegate anche in compiti più convenzionali, come il pattugliamento e il controllo del territorio o la difesa di posizioni chiave come la base di Delaram. Il controllo di questa vasta provincia si rivela particolarmente difficile a causa del terreno aspro e montuoso, della scarsità di truppe dispiegate e, non ultimo, dell’inaffidabilità della polizia locale, i cui membri sono spesso minacciati o infiltrati dai talebani.L’influenza ambigua dell’Iran
A complicare ulteriormente lo scenario nella regione di Farah contribuisce il ruolo ambiguo dell’Iran. Le autorità iraniane sono sospettate di fornire armi e addestramento ai talebani, forse anche sfruttando i canali del traffico di droga. La provincia di Farah, infatti, è un’importante area di produzione di oppio ed è un punto di passaggio cruciale per il contrabbando di stupefacenti verso l’Iran. Questa situazione crea legami complessi e pericolosi tra i talebani, i trafficanti e, potenzialmente, elementi iraniani. Questa rete di interessi rende la lotta contro l’insurrezione e il crimine organizzato ancora più ardua.Perché il capitolo liquida le “critiche etiche” all’Human Terrain System come secondarie rispetto alla sua presunta “utilità concreta”, quando tali critiche ne mettono in discussione la legittimità stessa?
Il capitolo, pur riconoscendo l’esistenza di “critiche etiche” all’approccio Human Terrain, sembra privilegiare una visione puramente strumentale della sua efficacia. Tuttavia, l’utilizzo di discipline come l’antropologia e la sociologia in contesti militari e di controinsurrezione è un tema estremamente controverso e dibattuto. Per approfondire questa complessità, è essenziale esplorare le posizioni critiche che mettono in guardia contro la potenziale strumentalizzazione delle scienze sociali e i rischi per le comunità studiate. È utile leggere autori che hanno analizzato a fondo questi dilemmi, come Roberto J. González, e considerare le implicazioni a lungo termine di tali programmi sulla fiducia e sulle relazioni tra attori esterni e popolazione locale.3. Le sfide della sicurezza e la nascita di un esercito locale
La provincia di Badghis, in particolare l’area di Bala Mourghab, presenta un territorio difficile da controllare. La popolazione locale ha legami con i talebani, rendendo complicato stabilire una presenza stabile e realizzare progetti di sviluppo. Questa zona è strategica per l’insurrezione, perché funge da retrovia e punto di controllo per traffici illegali.Risposta agli attacchi e sorveglianza
Gli attacchi nemici sono una costante in quest’area difficile. Per affrontarli, è necessario l’intervento di mezzi specifici. Gli elicotteri d’attacco Mangusta italiani sono impiegati per fornire supporto aereo ravvicinato e scortare i convogli, dimostrandosi efficaci nel respingere gli assalitori dove altri tipi di bombardamenti non bastano. La sorveglianza aerea tramite droni Predator fornisce informazioni dettagliate sul territorio e sui movimenti nemici. Queste informazioni sono essenziali per la sicurezza delle truppe e per identificare minacce nascoste, come le trappole esplosive.La strategia a lungo termine: l’esercito afghano
Oltre alla risposta immediata, la strategia per stabilizzare l’Afghanistan prevede la creazione di un esercito nazionale afghano (ANA) capace di assumere gradualmente il controllo del Paese. Questo compito è reso difficile dalla mancanza di una struttura militare consolidata e dalle profonde divisioni etniche che influenzano la catena di comando. Altre sfide significative sono legate all’addestramento dei soldati, ai bassi salari che ricevono e all’alto tasso di diserzione. Nonostante questi ostacoli, i soldati afghani sono considerati combattenti coraggiosi. L’addestramento fornito dai team internazionali, inclusi quelli italiani (OMLT), mira a migliorare la loro disciplina e preparazione tattica. La formazione di un ANA competente è fondamentale per permettere il ritiro delle forze straniere e garantire che la lotta per la sicurezza del Paese sia condotta dagli afghani stessi.Se la storia afghana si ripete, come suggerisce il capitolo, non manca forse di spiegare perché si ripete, ignorando le ragioni specifiche e mutevoli che hanno guidato gli attori interni ed esterni in ogni fase del conflitto?
Il capitolo presenta l’idea di una storia ciclica e di rivalità eterne, ma questa prospettiva rischia di semplificare eccessivamente una realtà complessa. La semplice constatazione di “ripetizioni” non basta a spiegare le dinamiche profonde. Mancano, ad esempio, dettagli cruciali sul contesto storico e geopolitico specifico di ogni intervento straniero (le motivazioni britanniche del XIX secolo erano radicalmente diverse da quelle sovietiche o occidentali recenti) e sulle evoluzioni interne della società afghana, delle fazioni e delle loro ideologie nel corso del tempo. Per comprendere meglio il perché di questa apparente ciclicità, è fondamentale approfondire la storia dell’Afghanistan con un’attenzione particolare alle interazioni tra dinamiche interne (etniche, tribali, politiche, religiose) e influenze esterne, analizzando le specifiche strategie e gli obiettivi mutevoli delle potenze regionali e globali. Discipline come la storia contemporanea, gli studi sull’Asia centrale e le relazioni internazionali sono essenziali. Autori come Barnett Rubin, Ahmed Rashid, Steve Coll o William Dalrymple offrono prospettive più sfaccettate su queste dinamiche.5. Doppio gioco e nuova strategia
Dopo l’11 settembre 2001, il Pakistan, sotto la guida del presidente Pervez Musharraf, si trova sotto una forte pressione dagli Stati Uniti. Gli americani chiedono al Pakistan di smettere di sostenere i talebani e Al-Qaeda. Nonostante un accordo ufficiale, all’interno dei servizi segreti pakistani, chiamati Isi, c’è una forte opposizione. Questa opposizione è guidata da generali che hanno legami con i gruppi fondamentalisti. Per questo motivo, il Pakistan segue una politica ambigua: collabora ufficialmente con gli USA, ma mantiene contatti segreti con i militanti.Il ruolo dei servizi segreti pakistani
L’Isi è controllato in gran parte da membri della tribù pashtun. Questi membri hanno legami familiari e di affari con i talebani. Per questo, l’Isi continua a dare aiuto ai talebani. Ad esempio, nel 2001, l’Isi aiuta centinaia di combattenti a scappare da Kunduz. Vengono create strutture segrete per nascondere queste attività alla CIA, l’agenzia di intelligence americana. Questa situazione crea molta instabilità all’interno del Pakistan. Le aree tribali diventano rifugi sicuri per Al-Qaeda e i talebani. Entro il 2008, il Pakistan si trova vicino a una guerra civile e alla bancarotta.Il cambio di strategia degli Stati Uniti
La minaccia all’interno del Pakistan diventa sempre più grande. Ci sono anche prove che l’Isi continua ad aiutare i militanti, come dimostra l’attentato all’ambasciata indiana a Kabul nel 2008. Queste circostanze spingono gli Stati Uniti a cambiare il loro piano. Sotto la guida del generale David Petraeus, la nuova strategia prevede di agire direttamente in Pakistan. Vengono usati droni, aerei senza pilota, e forze speciali per colpire i rifugi degli estremisti.La risposta del governo pakistano
Il nuovo governo pakistano, guidato dal presidente Ali Zardari e dal capo dell’esercito Ashfaq Kayani, capisce che i fondamentalisti sono una grave minaccia per il paese. Nonostante le discussioni interne, il governo accetta di dover collaborare con gli Stati Uniti. L’esercito pakistano inizia attacchi nelle aree tribali. È una guerra difficile, perché i talebani sono molto forti in quelle zone. Viene anche provato a formare gruppi armati locali, chiamati lashkar, composti da membri delle tribù. Tuttavia, questi gruppi incontrano una forte resistenza e subiscono molte perdite a causa della violenza dei talebani e perché non ricevono abbastanza aiuto dal governo.La situazione in Afghanistan e la strategia alleata
In Afghanistan, la situazione è complicata. C’è molta corruzione nel governo del presidente Hamid Karzai. Inoltre, le operazioni militari internazionali causano vittime tra i civili. Il presidente Karzai critica il modo di agire degli alleati e chiede di negoziare con i talebani. La nuova strategia degli Stati Uniti e della NATO punta prima a indebolire i talebani con le azioni militari. Poi, a riconquistare il sostegno della popolazione. Solo dopo, si pensa di iniziare un dialogo con i gruppi talebani meno estremisti. Questo piano unisce l’azione militare con una migliore gestione degli aiuti e un maggiore coinvolgimento delle comunità locali. Due punti rimangono fondamentali per il successo di questa strategia: avere un comando unico per tutte le forze internazionali e la volontà dei paesi alleati di partecipare a missioni rischiose.Ma siamo sicuri che il ‘doppio gioco’ pakistano fosse solo frutto di legami tribali e opposizione interna, o nascondeva una strategia di lungo termine ben più cinica?
Il capitolo descrive l’ambiguo comportamento del Pakistan, attribuendolo in parte a legami tribali e a resistenze interne all’Isi. Tuttavia, questa spiegazione rischia di semplificare eccessivamente una questione complessa. Il presunto ‘doppio gioco’ pakistano potrebbe affondare le radici in calcoli strategici legati alla sicurezza nazionale, alla rivalità con l’India e al desiderio di mantenere influenza in Afghanistan, dinamiche che vanno oltre i semplici legami personali o l’opposizione interna. Per approfondire, è fondamentale studiare la storia politica e militare del Pakistan, le sue relazioni con i paesi vicini e il ruolo geopolitico della regione. Discipline come la storia contemporanea, gli studi strategici e le relazioni internazionali offrono il quadro necessario. Autori come C. Christine Fair o Shuja Nawaz hanno analizzato in dettaglio la struttura e le motivazioni dell’esercito e dell’Isi pakistani.Abbiamo riassunto il possibile
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