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Informazioni
… questo libro ti prende e ti fa pensare subito alla domanda più difficile: ma la mia vita è davvero mia? Thomas Macho ci porta in un viaggio incredibile attraverso la storia per capire come è cambiata l’idea del suicidio nel corso dei secoli e nella modernità. All’inizio, la vita non era vista come proprietà dell’individuo, ma un dono o un prestito da parte di entità esterne come divinità o lo Stato, e togliersela era spesso proibito come un furto. Poi, con il Cristianesimo, diventa un peccato contro Dio. Ma piano piano, con l’Illuminismo, emerge l’idea di “proprietà di sé stessi”, mettendo le basi per considerare la vita come appartenente all’individuo. Il libro esplora come questa visione si scontra con la realtà e come la cultura, la società e i media influenzano la percezione e la diffusione del suicidio, dal caso letterario di Werther alle “epidemie” studiate da sociologi come Durkheim. Macho analizza anche le dimensioni politiche del suicidio, dalla protesta all’autoimmolazione, fino al terrorismo. Arriva ai giorni nostri, con il dibattito sull’eutanasia e il suicidio assistito, chiedendosi se la morte sia diventata un progetto personale, soprattutto di fronte alla paura di una vecchiaia lunga e dolorosa o alla perdita di autonomia. È un libro che ti fa vedere come la nostra idea di vita e morte sia cambiata tantissimo, e come la domanda “a chi appartiene la mia vita” sia ancora super attuale, tra desiderio di controllo e la lunga ombra dell’immortalità che ci fa quasi desiderare la fine.Riassunto Breve
La vita umana non è sempre stata considerata proprietà dell’individuo. In passato, era vista come un dono o un prestito da entità esterne come antenati, divinità o lo Stato. Questa visione giustificava il divieto del suicidio, visto come un’appropriazione indebita. Nell’antichità, il suicidio era spesso proibito, ma c’erano eccezioni per onore o necessità, legate a una cultura della vergogna. Con il Cristianesimo, prevale una cultura della colpa e il suicidio è un peccato contro Dio, anche se il martirio crea una distinzione complessa. L’epoca moderna, con l’Illuminismo e l’idea di proprietà di sé stessi, inizia a considerare la vita come appartenente all’individuo, ponendo le basi per il concetto di “mia morte”. La proibizione del suicidio si attenua e si discute di una “morte libera” o eutanasia per necessità.Con la modernità, la medicina inizia a vedere il suicidio come una malattia. Le epidemie diffondono l’idea del contagio e dell’emulazione anche per il suicidio, portando a parlare di “epidemie di suicidi”. La stampa e l’alfabetizzazione rendono la lettura pericolosa, come nel caso del *Werther* di Goethe, accusato di causare suicidi per imitazione. La lettera d’addio diventa una forma di espressione pubblica. Il XIX secolo vede un aumento dei tassi di suicidio, legato a cambiamenti sociali e a un fascino per la morte, con suicidi di personaggi famosi che diventano miti. Sociologi come Tarde e Durkheim studiano il ruolo dell’imitazione e dei fattori sociali. L’idea del genio si lega spesso a sofferenza e suicidio.Alla fine del XIX secolo, si nota un aumento dei suicidi tra giovani, collegato alle pressioni del sistema educativo. Movimenti giovanili criticano la società borghese ma vengono influenzati dal nazionalismo e militarismo, glorificando la morte per la patria. Il militarismo stesso presenta tassi di suicidio elevati. Regimi nazionalisti estremi, definiti “regimi suicidi”, promuovono un culto della morte. L’aumento dei suicidi tra ebrei sotto il nazismo riflette la “morte sociale” imposta, mentre i suicidi di massa alla fine della guerra mostrano l’incapacità di affrontare il crollo. Massacri nelle scuole rappresentano una forma moderna di suicidio/omicidio di massa tra i giovani.La modernità mantiene un interesse per il suicidio, oscillando tra condanna e idealizzazione. Filosofi come Mainländer vedono la morte volontaria come redenzione. L’esistenzialismo affronta la finitudine ma tende a rifiutare il suicidio come soluzione. L’era atomica introduce l’onnicidio, la possibilità di autoannientamento dell’umanità, generando paura e fantasie apocalittiche e simboleggiando un nichilismo di massa. Suicidi di massa in sette apocalittiche mostrano il confine sfumato tra suicidio e omicidio.Il suicidio si manifesta anche come strumento politico, risposta a oppressione o declino, come mostrano esempi storici e l’aumento tra popolazioni indigene. Si trasforma in protesta, come l’autoimmolazione o lo sciopero della fame. Il terrorismo suicida, dove la morte dell’attentatore è parte dell’azione, si sviluppa dal tardo XIX secolo, spesso legato a conflitti politici e nazionalistici, amplificato dai media moderni.Le statistiche mostrano che la maggior parte dei suicidi avviene in casa, ma luoghi pubblici o strutture acquisiscono significati simbolici. La distinzione tra suicidio e incidente è spesso ambigua. In epoca moderna, il dibattito si concentra sull’eutanasia e il suicidio assistito, influenzato dall’aumento della speranza di vita e dai progressi medici. La possibilità di prolungare la vita porta a considerare la morte come progetto personale. Il desiderio di autodeterminazione di fronte a malattie incurabili o alla paura di perdere il controllo e diventare un peso guida la discussione. Il suicidio passa da atto morale o criminale a questione di autonomia individuale, spesso legata al timore di una vecchiaia lunga e dolorosa o alla perdita del partner. La fede in un aldilà diminuisce, mentre cresce il timore di una longevità insopportabile. Le rappresentazioni culturali, come i vampiri stanchi dell’immortalità, riflettono questa percezione. La ricerca dell’immortalità nella tecnologia, come la crioconservazione, mostra come la speranza di una vita senza fine possa trasformarsi in una nostalgia della morte, un desiderio di possedere la fine.Riassunto Lungo
1. La vita come possesso: da chi è reclamata?
La vita umana, nel corso della storia, non è stata considerata un possesso dell’individuo, ma piuttosto un dono o un prestito concesso da entità esterne come antenati, divinità, signori feudali o lo Stato. Questa prospettiva, profondamente radicata in molte culture e sistemi sociali antichi e medievali, portava a considerare il suicidio non come un atto di libertà personale, ma come un’appropriazione non autorizzata di qualcosa che non apparteneva a sé. Per questo motivo, togliersi la vita era spesso severamente proibito e condannato, in quanto violava il diritto di chi si riteneva il vero ‘proprietario’ della vita stessa. Il dibattito su chi avesse il diritto di decidere sulla fine dell’esistenza è quindi antico quanto la riflessione sulla vita stessa, e le risposte date hanno plasmato leggi, morali e credenze per secoli.L’Antichità e il Concetto di Onore
Nell’antichità, nonostante il divieto generale, esistevano eccezioni al suicidio, spesso legate a concetti di onore o a situazioni estreme che rendevano la vita intollerabile o disonorevole. Figure come Lucrezia, che si tolse la vita per difendere il proprio onore, o Catone l’Uticense, che scelse la morte di fronte alla sconfitta politica, rappresentano esempi di suicidi visti in un contesto diverso, non necessariamente come un furto della vita. Anche in caso di malattie incurabili o vecchiaia estrema, in alcune culture antiche, la morte volontaria poteva essere tollerata o persino incoraggiata come necessità, quasi come un modo per restituire un “prestito” ormai insostenibile. Queste eccezioni si inserivano in una ‘cultura della vergogna’, dove la reputazione personale e l’onore del gruppo o della famiglia avevano un peso centrale nel determinare la liceità di un atto, più che il concetto astratto di proprietà divina o statale.Il Cristianesimo e il Divieto Assoluto
Con l’avvento del Cristianesimo, si affermò con forza una nuova prospettiva, basata su una ‘cultura della colpa’. Il suicidio venne rigorosamente vietato e considerato un grave peccato contro Dio, visto come il Creatore e quindi il legittimo ‘proprietario’ della vita umana. Togliersi la vita era un atto di ribellione contro la volontà divina e un rifiuto del dono della vita. Tuttavia, emerse una distinzione complessa e spesso ambigua con il concetto di martirio, una morte volontaria affrontata per testimoniare la propria fede. Teologi come Agostino cercarono di definire questa differenza, sostenendo che solo un ordine divino esplicito e inequivocabile potesse giustificare un atto simile, distinguendolo nettamente dal suicidio dettato da disperazione o altre motivazioni umane.L’Età Moderna e la Nascita della Proprietà di Sé
In epoca moderna, in particolare con l’Illuminismo, il pensiero iniziò a orientarsi verso una visione diversa, ponendo l’individuo al centro. Filosofi come John Locke introdussero l’idea rivoluzionaria di ‘proprietà di sé stessi’ (self-ownership), affermando che ogni individuo possiede la propria persona, il proprio corpo e la propria mente. Questa concezione rappresentava una sfida diretta alle pretese di proprietà avanzate tradizionalmente da entità esterne, come Dio (attraverso l’idea della creazione divina) e persino dai genitori. L’idea di self-ownership pose le basi concettuali per considerare la vita non più come un bene altrui, ma come qualcosa che appartiene intrinsecamente all’individuo stesso. Questo cambiamento di prospettiva fu fondamentale per il successivo dibattito sulla libertà personale e sul diritto di disporre della propria esistenza, inclusa la sua fine.La Morte Volontaria tra Necessità e Diritto
Nel corso dei secoli successivi, la rigorosa proibizione del suicidio cominciò gradualmente ad attenuarsi, e la discussione si spostò sulla possibilità di una ‘morte libera’. Si iniziò a ipotizzare che, in determinate condizioni di estrema sofferenza o malattia incurabile, potesse esistere una giustificazione per porre fine alla propria vita, un concetto che prefigura l’idea di eutanasia. Tommaso Moro, nella sua opera Utopia, aveva già immaginato una società in cui la morte volontaria per necessità medica era contemplata. Michel de Montaigne sostenne apertamente che togliersi la vita per sfuggire a un dolore insopportabile fosse un atto scusabile, paragonandolo al diritto di disporre liberamente di ciò che è proprio. Queste riflessioni segnarono un passo importante verso il riconoscimento di una forma di autonomia individuale sulla propria fine.La domanda su ‘a chi appartiene la mia vita’ ha attraversato un lungo percorso storico, passando da un’attribuzione quasi esclusiva a entità esterne – antenati, dei, Stato – a una crescente rivendicazione individuale. Questa rivendicazione ha trovato la sua espressione più forte nell’idea che la vita appartiene all’individuo e, di conseguenza, anche la decisione sulla sua fine, culminando nel concetto di ‘mia morte’. Tuttavia, la realtà storica e contemporanea della schiavitù, delle rivendicazioni di potere da parte di famiglie, Stati e sistemi economici dimostra che l’idea di completa proprietà di sé stessi, pur essendo diventata un ideale centrale nel pensiero moderno, rimane spesso un diritto contestato e non pienamente realizzato per molti.Se la vita è davvero “proprietà di sé”, come mai la sua fine resta così strenuamente contesa da leggi, morali e poteri esterni?
Il capitolo traccia un percorso storico affascinante, culminato nell’idea moderna di ‘self-ownership’ come fondamento del diritto di disporre della propria vita. Tuttavia, la conclusione ammette che questa proprietà è “contestata e non pienamente realizzata”. Questa tensione fondamentale tra l’ideale filosofico e la realtà concreta dei poteri (Stato, famiglia, economia) che continuano a esercitare controllo o rivendicare diritti sugli individui non è pienamente esplorata nel corso della narrazione storica. Per comprendere meglio questa persistente lotta, sarebbe utile approfondire la filosofia politica, in particolare autori come John Locke e Robert Nozick per la teoria della proprietà di sé, ma anche critici di tale teoria come G.A. Cohen. È inoltre fondamentale considerare le analisi sociologiche e storiche del potere, magari leggendo autori come Michel Foucault, per capire come le istituzioni e i sistemi sociali continuino a modellare e limitare l’autonomia individuale sulla vita e sulla morte, al di là del mero riconoscimento formale di un diritto.2. Il Contagio dell’Anima Moderna
Prima dell’età moderna, il suicidio era visto negativamente, ma poteva essere tollerato in situazioni estreme come l’onore, l’eroismo o la necessità, spesso con il permesso di figure autorevoli come la famiglia, lo Stato o la Chiesa. Con l’avvento della modernità, la medicina guadagna importanza e inizia a considerare il suicidio non più come un peccato, ma come una malattia.L’Idea di Contagio e le “Epidemie” di Suicidi
Le grandi malattie epidemiche, come la peste e il colera, diffondono l’idea che il contagio possa riguardare non solo le malattie fisiche, ma anche comportamenti come il suicidio. Già dal XVII secolo si comincia a parlare di vere e proprie “epidemie di suicidi”. L’incapacità di affrontare queste malattie porta spesso a cercare dei colpevoli, scatenando episodi di violenza collettiva.Il Ruolo dei Media e dell’Imitazione nel XIX Secolo
Nel XIX secolo, la diffusione della stampa e l’aumento dell’alfabetizzazione fanno sì che il pericolo non sia più percepito solo nell’aria o nei corpi, ma anche nella lettura. Il romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe diventa il primo testo accusato di provocare suicidi per imitazione. Le persone iniziano a copiare i dettagli della morte del protagonista, portando al divieto del libro in alcune città. In questo periodo nasce anche la lettera d’addio, che permette a chi si toglie la vita di comunicare con un vasto pubblico, trasformando l’atto in una forma di espressione personale e pubblica.Aumento dei Tassi e Fascino per la Morte
Il XIX secolo registra un aumento dei tassi di suicidio, un fenomeno legato ai profondi cambiamenti sociali in atto e a un clima culturale di “fin de siècle” caratterizzato da un forte fascino per la morte. I suicidi di personaggi celebri, come il re Ludwig II di Baviera o l’arciduca Rodolfo d’Austria, si trasformano in veri e propri miti popolari. La maschera mortuaria della sconosciuta della Senna diventa un simbolo potente di questa fascinazione, ispirando artisti e persino la creazione di un manichino usato per insegnare la rianimazione, dimostrando come l’immagine della morte possa essere riprodotta e riutilizzata in contesti diversi.Le Analisi Sociologiche: Tarde e Durkheim
Sociologi come Gabriel Tarde e Émile Durkheim iniziano a studiare il suicidio, analizzando il ruolo cruciale dell’imitazione e dei fattori sociali. Tarde vede l’imitazione come una forza sociale universale che influenza molti comportamenti, incluso il suicidio. Durkheim, pur riconoscendo l’importanza del contagio, dà maggiore peso alle cause sociali profonde, osservando che il problema non è parlare di suicidio in sé, ma il modo in cui se ne discute nella società.Genio, Sofferenza e la Questione Morale
L’idea del genio, spesso associata a un’intensa sofferenza interiore e alla presenza di un “doppio”, si lega al suicidio nel periodo fin de siècle, come si può osservare nelle vite di molti artisti e pensatori dell’epoca. La questione fondamentale se il suicidio sia un atto morale con implicazioni etiche o semplicemente un fenomeno neutro, paragonabile a un evento naturale, rimane un dibattito aperto e complesso.Si parla di epidemie di suicidi fin dal Seicento, ma il contagio per imitazione sembra emergere con la stampa nel Sette-Ottocento. Qual era dunque il meccanismo di diffusione di queste ‘epidemie’ prima che Werther facesse scuola?
Il capitolo accenna a ‘epidemie di suicidi’ già nel XVII secolo, legandole all’idea di contagio diffusa dalle malattie fisiche e alla ricerca di colpevoli. Tuttavia, il meccanismo di diffusione per imitazione viene trattato in relazione alla stampa e all’aumento dell’alfabetizzazione nel XIX secolo. Questo lascia una lacuna: come si manifestava e si diffondeva il ‘contagio dell’anima’ nei secoli precedenti, in assenza dei media di massa che avrebbero poi reso celebre il caso Werther? Per comprendere meglio questa transizione e le diverse concezioni storiche del ‘contagio’ sociale, sarebbe utile approfondire gli studi di storia sociale e della medicina, esaminando come venivano interpretati i fenomeni collettivi prima dell’era della comunicazione di massa. Rileggere Durkheim, focalizzandosi non solo sull’imitazione ma sulle cause sociali più ampie, può offrire una prospettiva, così come esplorare autori che hanno studiato la storia delle mentalità e delle paure collettive.3. La Gioventù e l’Ombra della Morte
I giovani e la scuola nel XIX secolo
Alla fine dell’Ottocento, si notò un preoccupante aumento dei casi di suicidio tra i più giovani, sia bambini che adolescenti. Esperti del tempo, come Baer e Siegert, studiarono questo fenomeno e trovarono un forte legame con il sistema educativo dell’epoca. Le analisi statistiche di quel periodo mettevano in luce cause ricorrenti dietro questi gesti estremi: la paura intensa legata agli esami scolastici, le punizioni severe inflitte nelle scuole e i difficili conflitti all’interno delle famiglie. Questa critica verso l’ambiente scolastico non rimase confinata agli studi scientifici, ma trovò espressione anche nella letteratura. Autori come Wedekind, Hesse e Strauß, attraverso le loro opere, denunciarono un sistema scolastico percepito come eccessivamente rigido e quasi militarizzato, capace di schiacciare la sensibilità dei giovani sotto il peso delle aspettative e delle pressioni.Dalle critiche sociali al nazionalismo
In parallelo a queste tensioni nel mondo della scuola, sorsero diversi movimenti giovanili animati da un desiderio di cambiamento. Questi gruppi cercavano un’alternativa alla vita borghese che percepivano come soffocante, promuovendo un ritorno alla natura e a uno stile di vita più semplice e autentico. Purtroppo, l’idealismo di questi movimenti fu rapidamente distorto e influenzato dalle correnti nazionaliste e militariste che attraversavano la società. Invece di promuovere la vita, molti arrivarono a esaltare l’idea del sacrificio supremo, glorificando la disponibilità a morire per la patria. Esemplare di questa deriva fu il mito di Langemarck, che trasformò una sconfitta militare in un simbolo eroico di sacrificio giovanile. Si assistette così a una fusione inquietante tra il culto della giovinezza e quello della morte, un legame che si rivelò funzionale agli interessi militari e alle ambizioni espansionistiche degli Stati nazionali.Il peso del militarismo
Il militarismo, inteso come sistema e ideologia, mostrava di per sé tassi di suicidio più elevati rispetto alla popolazione civile, un dato studiato e documentato da figure come Masaryk. Nei contesti di guerra, la distinzione tra l’atto di togliersi la vita e quello di uccidere un altro individuo si fa estremamente labile e complessa. L’addestramento militare, con le sue pratiche spesso umilianti, mira a trasformare la paura innata in aggressività controllata e direzionata verso il nemico. Le profonde ferite psicologiche inflitte dal conflitto sono testimoniate dalle diffuse nevrosi di guerra, manifestazioni del trauma subito.Regimi estremi e l’ombra della morte
Regimi caratterizzati da un militarismo esasperato e da nazionalismi estremistici, come il nazismo, possono essere descritti come veri e propri “regimi suicidi” per la loro intrinseca spinta verso l’autodistruzione e la distruzione altrui. Questi sistemi promuovono attivamente un culto della morte e dell’autosacrificio in nome dell’ideologia o dello Stato. Sotto il nazismo, l’impressionante aumento dei suicidi tra la popolazione ebraica non fu solo una reazione alla persecuzione fisica, ma rifletteva anche una “morte sociale” imposta, la cancellazione dell’identità e dei legami comunitari. I suicidi di massa che si verificarono in Germania alla fine della Seconda Guerra Mondiale indicano l’incapacità di una parte della popolazione di affrontare il crollo totale del regime in cui aveva creduto e la paura paralizzante delle inevitabili conseguenze della sconfitta.Violenza e disperazione nell’età contemporanea
In tempi più recenti, fenomeni tragici come i massacri avvenuti nelle scuole, tra cui il noto caso di Columbine, rappresentano una nuova e inquietante manifestazione di suicidio-omicidio di massa che coinvolge direttamente i giovani. Questi eventi riflettono dinamiche sociali e psicologiche estremamente complesse, alimentate da sentimenti di odio profondo, disperazione individuale e collettiva, e sono influenzati da una vasta gamma di fattori culturali e mediatici.Il capitolo dipinge la scelta di fine vita quasi esclusivamente come reazione alla paura e alla perdita di controllo, ma non è forse una visione riduttiva che ignora le complesse rivendicazioni di autonomia e dignità che animano il dibattito sull’eutanasia?
Il capitolo, pur offrendo una panoramica del dibattito su eutanasia e suicidio assistito, sembra concentrarsi prevalentemente sulle motivazioni legate alla paura della vecchiaia, della solitudine o della perdita di controllo. Questa prospettiva rischia di semplificare eccessivamente un tema estremamente complesso. Per cogliere appieno le sfumature di questa discussione, è fondamentale esplorare la filosofia morale e politica che sta alla base dei diritti individuali e dell’autodeterminazione. Autori come Peter Singer o Ronald Dworkin hanno affrontato questi temi con rigore, analizzando le implicazioni etiche e legali della scelta sulla propria morte. Approfondire il diritto costituzionale comparato può inoltre illuminare le diverse risposte normative che gli stati hanno dato a queste sfide, mostrando come la questione sia ben più articolata di una semplice reazione alla paura.7. La lunga ombra dell’immortalità
La figura del vampiro cambia nel tempo, diventando più raffinata e intellettuale, come si vede nel film “Solo gli amanti sopravvivono”. Questo li rende diversi dagli zombie, che sono visti come nemici semplici da sconfiggere, brutali e senza pensiero. Il modo in cui i vampiri vengono rappresentati in modo più “civile” riflette i cambiamenti nella società e nell’economia, ma soprattutto un modo diverso di considerare quanto sia importante vivere a lungo. Visto che oggi si vive mediamente di più, l’età avanzata perde un po’ del suo valore assoluto e aumenta la paura di invecchiare.Vivere a lungo: un peso?
Vivere per sempre non è sempre visto come un desiderio positivo. Già nel 1922, l’opera “L’affare Makropulos” di Karel Capek parlava della noia e della tristezza di un’esistenza che non finisce mai. Oggi, si discute più apertamente e con meno giudizio di argomenti come l’eutanasia e il suicidio in tarda età. Nelle storie, come in “Doctor Sleep” di Stephen King, emergono figure simili a vampiri che non sono mostri classici, ma persone comuni che sfruttano l’energia vitale dei bambini. Questo suggerisce che i veri “cattivi” potrebbero essere le persone anziane che si aggrappano con forza alla vita, indicando la necessità di una nuova “cultura del morire”.La ricerca tecnologica dell’immortalità
Il desiderio di non morire si manifesta anche nel campo della tecnologia. La Silicon Valley è vista come un luogo dove nascono nuove idee che promettono di vivere per sempre sulla terra grazie alla scienza. Romanzi come “Zero K” di Don DeLillo esplorano l’idea di conservare i corpi a temperature bassissime (crioconservazione) per un futuro risveglio come strada verso l’immortalità. In queste storie, la speranza di una vita senza fine si trasforma in una specie di nostalgia per la morte. Il desiderio di “possedere la fine del mondo” si concretizza nella scelta di sottoporsi a una procedura che ricorda molto il suicidio assistito.Ma siamo certi che l’aumento della vita media implichi necessariamente la necessità di una ‘cultura del morire’ e che chi desidera vivere a lungo sia il ‘vero cattivo’?
Il capitolo propone un legame diretto tra l’aumento della longevità e la necessità di una nuova “cultura del morire”, arrivando a suggerire che chi si aggrappa alla vita in età avanzata possa essere visto come il “vero cattivo”. Questa è un’affermazione forte e controversa che meriterebbe maggiore argomentazione e contesto. La paura di invecchiare e il desiderio di vivere a lungo sono fenomeni complessi che non si esauriscono in una semplice dicotomia tra “buoni” che accettano la morte e “cattivi” che la rifiutano. Per approfondire queste tematiche, sarebbe utile esplorare la bioetica, la sociologia dell’invecchiamento e la filosofia della morte, leggendo autori che affrontano le sfide etiche e sociali della longevità e le diverse prospettive sul fine vita.Abbiamo riassunto il possibile
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