Filosofia

A che punto siamo? L’epidemia come politica

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La risposta a una crisi sanitaria mette in luce strutture di potere preesistenti. Misure di emergenza superano la portata del rischio dichiarato. La paura non è un effetto collaterale, ma uno strumento politico. Accettare la limitazione della libertà in cambio di sicurezza definisce un nuovo contratto sociale. Lo stato di eccezione diventa la condizione normale di governo. La vita si riduce a pura esistenza biologica, la “nuda vita”. Questa focalizzazione sulla sopravvivenza fisica svaluta relazioni, lavoro e valori etici. Il concetto di contagio trasforma il prossimo in potenziale minaccia. Il distanziamento sociale non è solo una norma medica; definisce un nuovo ordine basato sulla separazione e sulla passività. Le istituzioni tradizionali non offrono resistenza. La scienza e la medicina assumono il ruolo di una nuova religione, basata sulla lotta contro la malattia e imposta dallo Stato. La democrazia basata sui diritti viene sostituita da uno Stato di Sicurezza che usa la sanità pubblica per il controllo. La sostituzione del contatto fisico con dispositivi digitali altera la vita sociale e l’educazione. Questo paradigma della biosicurezza rappresenta una trasformazione radicale. Riconoscere queste nuove forme di potere è il primo passo per immaginare un futuro diverso.

1. La paura come strumento di governo

Le misure prese durante l’emergenza legata al virus SARS-CoV2 sembrano eccessive se confrontate con i dati disponibili. Questi dati mostrano che l’infezione è stata, per la maggior parte delle persone, simile a una forma influenzale leggera o moderata. Nonostante ciò, i mezzi di comunicazione e le autorità hanno diffuso un clima di grande paura. Questo ha creato una situazione di eccezione, limitando fortemente la libertà di movimento e la vita sociale e lavorativa. Questo modo di agire si basa su due motivi principali. Il primo è che usare lo stato di eccezione è diventato un modo normale di governare. Attraverso decreti legge, vengono imposte regole severe basate su criteri poco chiari, permettendo di estendere rapidamente le limitazioni. Questo fa pensare che, dopo l’emergenza legata al terrorismo, l’idea di un’epidemia sia usata come scusa per aumentare i poteri speciali.

La paura nella popolazione

Un secondo motivo è l’insicurezza e la paura diffusa tra le persone. Questa condizione crea un desiderio quasi collettivo di panico. L’epidemia è vista come l’occasione perfetta per rispondere a questo bisogno. La paura, spesso alimentata anche dai governi stessi, spinge le persone ad accettare di perdere parte della loro libertà. Lo fanno in cambio di una promessa di maggiore sicurezza, anche se questa sicurezza è solo apparente.

Il contagio e i rapporti umani

L’idea che il contagio sia ovunque, alimentata dal panico, cambia il modo in cui vediamo gli altri. Ogni persona diventa un possibile diffusore del virus, quasi un “untore”. Questo rovina i legami tra le persone. Si impone la distanza e nasce il sospetto anche tra amici e familiari. Chi è portatore del virus senza avere sintomi, il cosiddetto “portatore sano”, viene considerato ancora più pericoloso.

La priorità alla sopravvivenza fisica

La paura mostra una società che dà valore solo alla sopravvivenza del corpo, che viene definita “nuda vita”. Tutto il resto passa in secondo piano: i rapporti con gli altri, il lavoro, gli affetti e le proprie idee. Concentrarsi solo sull’esistenza fisica divide le persone tra loro. Questo le rende sospettose e diffidenti l’una verso l’altra. In una situazione del genere, anche il rispetto per chi muore sembra diminuire.

Una vita ridotta all’essenziale

Lo stato di emergenza non è più una condizione temporanea, ma sembra diventare normale. Questo riduce la vita a un livello puramente biologico. Vengono persi gli aspetti importanti che la rendono completa, come le relazioni sociali, la partecipazione alla vita pubblica e i legami affettivi. Una società che vive costantemente in uno stato di emergenza non può considerarsi libera. Ha barattato la sua libertà con una sicurezza che, in realtà, è solo un’illusione e la costringe a vivere nella paura.C’è il timore che le limitazioni e i nuovi modi di vivere imposti durante l’emergenza possano rimanere per sempre. Ad esempio, l’uso di strumenti digitali al posto della presenza fisica nelle scuole e nei luoghi pubblici potrebbe diventare la norma. Questo potrebbe portare alla scomparsa degli spazi comuni dove le persone si incontrano e interagiscono liberamente. L’assenza di questi luoghi fisici di incontro modificherebbe radicalmente la nostra vita sociale. In definitiva, si teme un cambiamento profondo nel modo in cui le persone interagiscono tra loro e vivono la comunità.

Se l’infezione era ‘per la maggior parte delle persone, simile a una forma influenzale leggera o moderata’, il capitolo non trascura forse l’impatto su chi non rientrava in quella ‘maggior parte’ e sul sistema sanitario nel suo complesso?
Il capitolo, nel porre l’accento sulla benignità dell’infezione per la maggior parte degli individui, omette di considerare le conseguenze per le fasce più fragili della popolazione e il rischio di sovraccarico per le strutture sanitarie, fattori cruciali nelle decisioni di salute pubblica. Per una visione più completa, è fondamentale studiare i principi dell’epidemiologia e della sanità pubblica, discipline che valutano la diffusione e l’impatto delle malattie a livello collettivo, tenendo conto non solo dei casi individuali ma anche delle dinamiche di trasmissione e della pressione sui servizi essenziali.


2. La Nuda Vita e lo Stato d’Eccezione Permanente

Vivere un momento di emergenza chiede di resistere al panico diffuso dalle autorità e dai media. È fondamentale ricordare che l’altra persona è il nostro prossimo, non solo una possibile fonte di contagio. Mantenere la lucidità permette di chiedersi se l’emergenza gestita in modo militarizzato non serva a scaricare sui cittadini le responsabilità dei governi che hanno smantellato il sistema sanitario. È giusto chiedere che gli ospedali pubblici abbiano le risorse necessarie e considerare la distruzione della sanità pubblica un crimine più grave di una semplice infrazione alle regole di uscita.

La Vita Ridotta all’Essenziale

La facilità con cui la società ha accettato l’isolamento fa pensare che le condizioni di vita precedenti fossero già difficili da sopportare. Questa situazione rivela un profondo bisogno di credere in qualcosa, un bisogno che ora si proietta sulla scienza. Questo può generare paura e superstizione. Esperti diversi presentano pareri che si contraddicono, mentre i governanti prendono decisioni basandosi sui propri interessi. Si assiste a un crollo delle convinzioni che prima erano condivise da tutti, sostituite dalla sola fede nella sopravvivenza biologica, da proteggere a ogni costo. Questa paura della morte, portata all’estremo, può solo portare a una forma di tirannia.

L’Eccezione Diventa Regola

L’emergenza dimostra chiaramente che quello che prima era considerato uno stato di eccezione è diventato la condizione di vita normale. La vita delle persone viene ridotta a una dimensione puramente biologica, perdendo così il suo valore politico e umano. Una società che vive in uno stato di emergenza permanente non può dirsi libera; sacrifica la libertà in nome di una presunta sicurezza, finendo per vivere in una costante paura e insicurezza. La politica moderna si trasforma in biopolitica, dove l’obiettivo principale è la vita biologica e la salute diventa un obbligo imposto per legge. La paura che domina mostra che la società crede ormai solo nella sopravvivenza, rinunciando a valori etici e politici fondamentali, e danneggiando i rapporti sociali e gli affetti. Gli altri non sono più visti come persone, ma come possibili “untori” da evitare a ogni costo. Anche ai morti viene negata la dignità di un addio.

Imparare per il Futuro

Quando l’emergenza sarà finita, non sarà possibile semplicemente tornare a vivere come prima. La situazione estrema che si è creata, causata da un’eccessiva importanza data al denaro e dalla mancanza di lungimiranza degli amministratori, è ormai sotto gli occhi di tutti. Sarà necessario reimparare molte cose che avevamo dimenticato, guardando la terra e le città con occhi diversi. È il momento di mettere in discussione l’abitudine di comprare merci che non servono davvero e considerare la possibilità di provvedere in modo autonomo alle necessità più semplici. Viaggiare in aereo per vacanze lontane va ripensato; è molto più urgente imparare a vivere pienamente nei luoghi in cui già abitiamo. Le città che erano state trasformate in semplici attrazioni per turisti, e che ora appaiono vuote e spettrali senza di loro, rivelano la superficialità di certe scelte. Né le risposte offerte dal cristianesimo né quelle del capitalismo sembrano sufficienti ad affrontare questa realtà. Una società che mette la sopravvivenza al di sopra di tutto è una prospettiva preoccupante per il futuro. Questo scenario potrebbe portare a un aumento del controllo digitale sulla vita delle persone e a una progressiva sostituzione del contatto umano con interazioni mediate dalla tecnologia.

Se lo ‘stato d’eccezione’ implica la sospensione della norma, come può diventare ‘permanente’ senza svuotare di senso il concetto stesso, e la ‘nuda vita’ descrive davvero l’intera esperienza umana in un’emergenza?
Il capitolo imposta la sua analisi su concetti specifici della filosofia politica che meritano un approfondimento per valutarne l’applicazione al caso descritto. La tesi che l’eccezione diventi regola permanente e che la vita sia ridotta a mera sopravvivenza biologica è potente, ma richiede di confrontarsi con le fonti di tali idee. Per esplorare queste tematiche, è utile studiare la filosofia politica, in particolare i lavori di Carl Schmitt sul concetto di eccezione e quelli di Giorgio Agamben sullo stato di eccezione e la nuda vita, oltre alle riflessioni di Michel Foucault sulla biopolitica.


3. La Massa Rarefatta e la Nuda Vita

L’idea di «distanziamento sociale» è entrata nel linguaggio comune e politico, lasciando intendere la possibilità di un nuovo modo di organizzare la società. Questa situazione, nata dalle misure per la salute e dalla paura diffusa, crea una forma di folla che è l’opposto di quella tradizionale. Non è una massa unita dove la paura di essere toccati scompare, ma una folla diradata, fatta di persone che si tengono a distanza l’una dall’altra. Questo gruppo si distingue per essere uniforme e passivo, in attesa di indicazioni, e si forma perché le persone si impongono un divieto. Quindi, una comunità basata sul mantenersi a distanza non è individualista, ma una massa compatta e passiva che si fonda su una proibizione condivisa.

Questa trasformazione sociale va di pari passo con un possibile crollo etico e politico di un paese di fronte a una malattia. Quanto un paese abdica ai suoi principi si vede nell’accettazione di limiti che prima erano impensabili. Si accetta, ad esempio, che le persone decedute vengano cremate senza funerali, cosa mai accaduta prima nella storia, e che la libertà di movimento e i rapporti sociali vengano limitati in misura maggiore rispetto alle guerre mondiali. Tutto questo avviene in nome di un rischio che non è definito con precisione. Questo accade perché l’esperienza della vita viene divisa in una semplice condizione biologica, chiamata “nuda vita”, e una vita fatta di sentimenti e cultura. Questa divisione, resa più facile dalla medicina moderna, sta diventando un principio che guida i comportamenti nella società, portando a situazioni contraddittorie.

Le stesse autorità suggeriscono che il distanziamento sociale diventerà un principio per organizzare il futuro, non una condizione temporanea. Ciò che è stato accettato una volta, difficilmente potrà essere annullato. Questa situazione si lega al concetto di stato di eccezione, un meccanismo che può trasformare le democrazie in Stati totalitari. L’uso dello stato di emergenza e dei decreti urgenti è diventato una tecnica normale di governo. La limitazione della libertà è spinta a un punto estremo, riducendo le persone a una condizione di pura sopravvivenza fisica. La “nuda vita” è l’esistenza biologica separata dalla vita spirituale e culturale. Mantenere gli esseri umani in uno stato di pura esistenza vegetativa, come si cerca di fare a livello sociale, ricorda le condizioni dei lager nazisti.

Il fallimento delle istituzioni

Nel frattempo, istituzioni importanti come la Chiesa e i giuristi non hanno vigilato sulla dignità umana e sul rispetto delle regole stabilite dalla costituzione. La Chiesa sembra aver rinnegato i suoi principi fondamentali abbracciando la scienza come se fosse una nuova religione. I giuristi rimangono in silenzio di fronte all’uso eccessivo dei decreti urgenti che di fatto eliminano la separazione dei poteri. L’idea di dover sacrificare il bene o la libertà per poterli salvare è una regola falsa e piena di contraddizioni. Il rischio di contagio non è definito in modo chiaro dalla scienza. Meditare sulla morte può liberare dalla sottomissione. L’Italia è vista come un luogo di sperimentazione politica per nuove tecniche di governo che, usando la salute pubblica come scusa, eliminano l’attività politica.



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Davvero la biosicurezza si riduce a una mera strategia di controllo basata sulla paura e sulla riduzione dell’esistenza a pura biologia?
Il capitolo propone una visione netta e preoccupante del paradigma della biosicurezza, presentandola quasi esclusivamente come una tecnica di governo basata sulla paura e sulla riduzione dell’individuo alla sua mera esistenza biologica. Tuttavia, questa prospettiva rischia di trascurare la complessità delle decisioni politiche in contesti di crisi sanitaria e le diverse interpretazioni etiche e sociali della salute pubblica. Per comprendere meglio le molteplici dimensioni di questo fenomeno, sarebbe utile approfondire studi nel campo della bioetica, della sociologia della salute e della filosofia politica. Autori come Michel Foucault e Giorgio Agamben hanno offerto spunti fondamentali sul rapporto tra potere, vita e politica che possono arricchire l’analisi, ma è altrettanto importante considerare prospettive che esplorino le giustificazioni e le sfide etiche delle politiche sanitarie da angolazioni differenti.


6. Quando la Legge Incontra la Vita

Nella giurisprudenza romana, la vita e la natura umana non entrano direttamente nel campo del diritto. Rimangono separate e servono solo come base per costruire situazioni legali. Ad esempio, l’aria o il mare sono considerati comuni a tutti per natura, ma legalmente diventano proprietà di chi li prende per primo, secondo il principio della res nullius. Anche la cittadinanza non dipende dalla nascita biologica o dal luogo in cui si vive, ma dall’origo, un concetto legale legato al luogo di nascita del padre. Questo approccio manteneva una chiara distinzione tra la sfera naturale e quella giuridica, evitando che il diritto si occupasse direttamente della vita biologica.

La nascita della biopolitica

Nel Novecento, si assiste a un cambiamento radicale: il diritto inizia a considerare esplicitamente la vita umana come qualcosa di cui occuparsi, da proteggere o da cui escludere. Questo fenomeno è noto come biopolitica. Tuttavia, questo nuovo approccio non porta solo benefici, ma apre la porta a rischi estremi. Quando il diritto si concentra sulla vita biologica dei cittadini come un bene da gestire e curare, emerge anche la pericolosa idea di una vita che può essere considerata “non meritevole di essere vissuta”. Questo passaggio dalla biopolitica alla tanatopolitica (la politica sulla morte) è un aspetto cruciale da comprendere.

I pericoli del controllo statale sulla salute

Proteggere un valore implica sempre anche l’esistenza di un non-valore. Se si protegge la salute, implicitamente si esclude o si combatte ciò che porta alla malattia. Un esempio storico di Stato che interviene direttamente sulla salute dei cittadini è l’eugenetica nazista, con le sue leggi sulla protezione dalle malattie ereditarie e le sterilizzazioni forzate. È importante notare che politiche eugenetiche simili esistevano già negli Stati Uniti e furono fonte di ispirazione anche per Hitler. Quando la salute diventa un oggetto di politica statale, smette di essere una libera scelta dell’individuo e si trasforma in un obbligo imposto dall’alto, limitando la libertà personale in nome di un presunto bene collettivo.

La separazione necessaria tra diritto e medicina

Per evitare i pericoli del controllo statale sulla vita e sulla salute, è fondamentale che il diritto e la medicina rimangano ambiti distinti. La medicina ha il compito di curare le malattie seguendo i suoi principi etici e scientifici tradizionali, come quelli sanciti dal giuramento di Ippocrate. Se la medicina inizia ad agire come legislatore o stringe accordi troppo stretti con i governi, non solo non migliora la salute pubblica nel suo complesso, ma rischia di limitare le libertà individuali. Le ragioni mediche possono così diventare un pretesto per esercitare un controllo eccessivo e diffuso sulla vita sociale dei cittadini.

La “biopolitica” è solo il preludio alla “tanatopolitica”, o esistono forme di gestione della vita da parte dello Stato che non sfociano necessariamente nel controllo totalitario?
Il capitolo presenta la biopolitica quasi esclusivamente attraverso la lente dei suoi esiti più estremi e pericolosi, come l’eugenetica nazista. Questa prospettiva, sebbene cruciale per comprendere i rischi, rischia di trascurare la complessità del fenomeno e le sue diverse manifestazioni storiche e contemporanee. Per approfondire le sfumature di questo rapporto tra potere, diritto e vita, e per capire se e come sia possibile distinguere tra una legittima tutela della salute pubblica e un controllo statale oppressivo, è fondamentale esplorare il pensiero di autori che hanno analizzato in profondità questi temi, come Michel Foucault e Giorgio Agamben, e studiare la storia delle politiche sanitarie e del welfare state.


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